martedì 8 aprile 2014

Il ministro della Repubblica Guidi paladina della libertà. Di quella dei padroni!

Televideo RAI 8 aprile 2014 GUIDI: "FIAT E' PRIVATA FA COME VUOLE" "Nessuna azienda può essere obbligata per legge a investire, nessuna azienda può essere trattenuta a forza" in Italia e "Fiat è privata e può fare quello che vuole". Bisogna "creare condizioni perché qualsiasi azienda ritrovi un valore aggiunto per investire nel nostro Paese": l’ha detto a "2Next" il ministro dello Sviluppo economico (e delle delocalizzazioni) Guidi. E’ quanto va teorizzando “l’innovativo, giovanile e moderno”, nonché di centro”sinistra” Governo Renzi, attraverso i suoi Ministri, giovani e le innovative donne in quote rosa. Il Ministro, nonché padrone Guidi, ha affermato proprio questo enunciando l’ennesima inedita e innovativa teoria: Le aziende (leggi padroni) non possono essere obbligati a investire e a rimanere a forza in Italia, esse sono libere. Anzi occorre creare un valore aggiunto (leggi abbassare ulteriormente salari e diritti di chi lavora e ultimare la cancellazione dello stato sociale) per convincere le aziende a investire nel nostro Paese. Tutto questo in barba alla tanto decantata, quanto teorica e perennemente inapplicata Costituzione che nell’art. 42 sostiene: “La proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla legge, che ne determina i modi di acquisto, di godimento e i limiti allo scopo di assicurarne la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti”. Occorrerebbe che il Ministro spiegasse quale è la funzione sociale di una azienda che de localizza o che riduce alla fame i lavoratori sotto il ricatto del lavoro. I ministri saranno anche giovani, i volti in buona parte sconosciuti, le teorie e il pensiero però, sono vecchi e stantii. Sono quelli propri del liberismo di stampo ottocentesco. Non sono ancora sufficienti i salari di fame, i diritti negati, primo fra tutti quello a un lavoro stabile e dignitosamente retribuito. Non è sufficiente il loro continuo e costante arricchimento ottenuto attraverso leggi classiste che tagliano i redditi fissi e premiano i profitti. Non sono sufficienti i tagli sulla spesa pubblica, sanità, scuola, trasporti e servizi. Non bastano le privatizzazioni. Non basta il regime di esenzione fiscale di cui godono i padroni che, miserabili denunciano al fisco redditi inferiori a quelli dei loro dipendenti, nello stesso momento in cui svolgono, su incarico dello Stato, nei confronti dei dipendenti, il ruolo d’implacabili ed esosi sostituti d’imposta. Non bastano i finanziamenti diretti e indiretti. Non basta il meccanismo di cassa integrazione che permette ai padroni, prima di godere dei frutti del lavoro dei dipendenti quando il mercato tira, e poi di scaricarli sulla previdenza e sulla collettività con gli attuali sistemi previdenziali, nei momenti di difficoltà. Non bastano gli scudi, i condoni e i cunei fiscali. Occorre fare di più. Occorre creare un valore aggiunto ulteriore per convincere le aziende a investire i capitali che hanno lucrato sulla pelle dei lavoratori. Capitali che tengono ben stretti e che investono in piena libertà laddove la manodopera costa ancora meno che in Italia, garantendosi così più alti profitti. Ancora non lo dicono ma fra poco proporranno come innovativa la reintroduzione della schiavitù e il ripristino della servitù della gleba. Questa è la loro libertà! La sinistra in tutto questo dov’è? I comunisti dove sono? Non hanno nulla da eccepire? E’ arrivato il momento di smettere di parlare e di praticare l’austerità a senso unico che ci impone il padronato. Questa non è austerità ma oppressione di classe e ingiustizia. E’ arrivato il momento di ricominciare a parlare della libertà: Di quella dei lavoratori, dei pensionati e dei disoccupati. Di una libertà di classe, cioè, che è contrapposta a quella dei ricchi e dei padroni. Della libertà degli sfruttati e dei discriminati che vogliono finalmente vedere riconosciuti i loro diritti e le loro libertà in alternativa ed in sostituzione a quelli del profitto e dello sfruttamento padronale che lucra e affama con il pretesto del bene (il loro) del Paese e che vuole continuare a prosperare sulla pelle dei discriminati.

mercoledì 12 febbraio 2014

10 febbraio giorno del ricordo o dell’oblio?

La giornata del ricordo sulle foibe, voluta da un governo di centrodestra e fatta propria dai partiti di centro”sinistra”, si celebra puntualmente da dieci anni in Italia il 10 febbraio. Essa segue di pochi giorni quella della memoria del 27 gennaio, dedicata alle vittime dell’olocausto nazista. Queste due date diventano l’occasione non per ricordare ma per inculcare negli italiani di oggi su quei fatti, convinzioni distorte e unilaterali, da utilizzare a fini politici e di parte, per sferrare un ennesimo attacco alla Resistenza e ai comunisti che ne furono i principali protagonisti. In queste giornate è sollecitato il ricorso alla memoria per ricordare ai cittadini colpevolmente distolti secondo i promotori, da una sinistra troppo impegnata, a lodare la Resistenza e la lotta Partigiana, lo sterminio di milioni di ebrei e i morti delle foibe. Di queste due occasioni si sono impossessati tutti quelli che hanno combattuto o che avversano più o meno esplicitamente, le idee e i principi che furono alla base della rivolta contro il fascismo e il nazismo. Essi hanno creato ad hoc queste occasioni di ricordo per denigrare e insultare in primo luogo il comunismo e i comunisti e la stessa Lotta di Liberazione. La giornata della memoria si è tradotta nel ricordo pur doveroso dello sterminio di sei milioni di ebrei. L'Olocausto, come genocidio degli ebrei, è identificato anche con il termine Shoah ("catastrofe", "distruzione"). Esso consistette nello sterminio di un numero compreso tra i 5 e i 6 milioni di ebrei, di ogni sesso ed età. Da queste mostruose cifre non emerge però per “dimenticanza” che il numero delle vittime nei campi di sterminio fu enormemente maggiore, pari a circa 15 milioni di morti in pochi anni. ( Enc. Wikipedia) Quando ci si riferisce all’Olocausto perciò si debbono includere anche tutti coloro che venivano considerati nemici o inferiori dai nazisti prima e poi dai fascisti. Di tutti questi il Terzo Reich, in collaborazione con i fascisti nostrani, aveva previsto e perseguito il totale annientamento. Tutte queste vittime non sono da dimenticare, perché oltre gli ebrei furono sterminati gli oppositori politici (primi fra tutti i comunisti), i prigionieri di guerra sovietici, nazioni e gruppi etnici quali Rom, Sinti, Jenisch, gruppi religiosi come testimoni di Geova e pentecostali, omosessuali, malati di mente e portatori di handicap. Limitare o incentrare la memoria su una visione parziale della tragedia e incentrarne il ricordo solo su una, pur drammatica porzione, vuole dire travisare la realtà e farne un uso strumentale politico e fazioso di parte. La giornata del ricordo sulle foibe è usata non per ricordare chi scatenò il secondo conflitto mondiale e prima ancora persecuzioni, assassini, arresti e deportazioni, e discriminazioni. Non è fatta per ricordare quali furono le dottrine alla sua base, quali i metodi e gli episodi e quante le vittime della guerra in generale o in particolare in Italia. Le vittime che invece devono essere ricordate nel giorno del ricordo, sono solo quelle in particolare causate “dai partigiani comunisti jugoslavi di Tito" così è detto da tutti i mezzi di comunicazione. Il ricordo consiste specificatamente nel sottoliniare la “ferocia” astratta dei comunisti che invece di contribuire con un altissimo contributo di sangue alla lotta contro la barbarie nazista e fascista, diventano massacratori di povere vittime italiane. Tutto questo è accompagnato da immagini e “testimonianze” crudeli che ogni episodio di guerra può evocare. Il metodo è quello di affrontare e discutere di singoli episodi di guerra astraendoli dal contesto in cui essi si sono svolti. Al di la dei fatti e dei numeri che sono largamente interpretabili e che variano secondo le lenti che usa chi legge la storia, quello emerge è il tentativo di controbilanciare le iniziative e le ricorrenze della Resistenza a partire da quella del 25 aprile. Leggendo la storia a suon di giornate del ricordo parziali quello che si evidenzia è il tentativo subdolo e inaccettabile di dimostrare che se i fascisti erano dei violenti ed hanno fatto cose orrende, ma di cui nell’occasione del ricordo non c’è traccia, anche i comunisti e i partigiani non scherzavano, anzi erano, al pari dei fascisti, anche loro responsabili di eccidi e massacri indiscriminati. Con il preciso scopo di accreditare l’idea secondo cui la violenza era bipartisan e che conseguentemente se tutti erano colpevoli nessuno lo era. Esistono guerre giuste? E’ questa una domanda cui è difficile rispondere. Certamente è legittimo lottare e combattere per la libertà, contro l’oppressione, contro l’ingiustizia e la prevaricazione e contro la violenza e lo sterminio. Non è invece legittimo imporre con le armi e con la forza e la violenza il proprio interesse e volontà. Furono proprio queste però le basi del nazismo e del fascismo: La negazione dell’uguaglianza e dei diritti di tutti gli uomini e le politiche razziste conseguenti; l’intolleranza verso le diversità politiche, religiose, sessuali, etniche, ecc; la legittimazione della violenza e la conseguente teorizzazione dell’eliminazione cieca e fisica del diverso o dell’avversario; il diritto imperialista e prepotente di assoggettare con la forza delle armi interi popoli e nazioni privandoli della libertà per crearsi posti al sole, ecc. E’ proprio attraverso la guerra e la violenza, incuranti della ragione, che i fascisti e i nazisti, volevano imporre le loro teorie e dottrine. Questi sono stati alcuni i cardini sui quali i fascisti e i nazisti scatenarono la violenza e la guerra. Guerra che provocò la morte violenta di 71.090.060 persone (enc. Wikipedia), fra vittime, la stragrande maggioranza, e carnefici. Ogni guerra è sopraffazione di una parte sull’altra, non vince chi ha ragione ma chi è più forte, la guerra è morte e distruzione non un ricevimento o una occasione mondana dove si sfoggia eleganza e cortesia. Contro tutto ciò è stato giusto e legittimo combattere .Hanno fatto bene allora i Partigiani ed i Comunisti a prendere le armi contro la barbarie nazi-fascista. I fascisti ed i nazisti portano interamente sulle proprie spalle la responsabilità morale, etica e politica di quello che è accaduto, coloro che la guerra hanno teorizzato, voluto e fatto. I partiti politici italiani e le massime cariche dello Stato, al Senato della Repubblica nata dalla Resistenza non hanno avuto di meglio da fare invece che ricordare come atto di ricordo, in seduta solenne con tanto di violino, i soli morti dimenticati delle foibe, sterminati “dai partigiani comunisti jugoslavi di Tito"! La lotta e la guerra per la libertà, non sono state un capriccio per chi è stato costretto a parteciparvi, ma la forma più alta di un impegno sociale e civile di chi mette la propria vita al servizio di un ideale di civiltà e di libertà, ma la guerra è comunque violenza. Qualunque eccesso è rigorosamente da evitare ed è condannabile. Certamente però non mistificando o usando la storia, a distanza di decine di anni per fini politici legati alla realtà del momento. E’ ciò che con questi ricordi di memoria corta e di parte si sta facendo con il solo e unico scopo di attaccare ancora una volta direttamente e apertamente i comunisti e in forma più mascherata la Resistenza.

lunedì 16 dicembre 2013

La sinistra e le classi

Alcune considerazioni attorno all’evoluzione politica di Rifondazione Comunista. Il partito è nato con l’obiettivo di rifondare il comunismo, arriva a registrare però, nel documento conclusivo del suo IX Congresso “l’assenza del conflitto sociale organizzato”. Non è questa una considerazione di secondaria importanza, ma il sintomo di una grave sconfitta per un partito di classe che ha l’ambizioso progetto di cui sopra. Allora o non esistono i presupposti di un conflitto sociale o il partito è incapace di interpretarlo, orientarlo e dirigerlo, visto che periodicamente questo conflitto esplode, anche se in forme e modi non sempre ortodossi come ad esempio con il “fenomeno Grillo “ o con quello dei forconi. Questa incapacità ha determinato il rischio che la protesta sia cavalcata dalla destra più becera e nera o da un populismo interclassista da uomo qualunque. A proposito delle ricorrenti difficoltà dei gruppi dirigenti dei partiti è utile rileggere un testo di Antonio Gramsci che sembra scritto oggi (Quaderno 3, nota 48. Passato e presente. Spontaneità e direzione consapevole) afferma: "... Trascurare o peggio disprezzare i movimenti cosi detti "spontanei", cioè rinunciare a dare loro una direzione consapevole, a elevarli a un piano superiore, inserendoli nella politica, può avere spesso conseguenze molto serie e gravi. Avviene quasi sempre che ad un movimento "spontaneo" delle classi subalterne si accompagna un movimento reazionario della destra della classe dominante, per motivi concomitanti. Una crisi economica, per esempio, determina malcontento nelle classi subalterne e movimenti spontanei di massa da una parte e dall'altra complotti dei gruppi reazionari che approfittano dell'indebolimento obiettivo del governo per tentare colpi di stato. Tra le cause efficienti è da porre la rinuncia dei gruppi responsabili a dare una direzione consapevole." Rinuncia dovuta " alla paura delle responsabilità concrete, nessuna riunione con la classe rappresentata, nessuna comprensione dei suoi bisogni fondamentali, delle sue aspirazioni, delle sue energie latenti, c'è un partito paternalistico di piccoli borghesi che fanno le mosche cocchiere..." “Il comunismo è un insieme di idee economiche, sociali e politiche, accomunate dalla prospettiva di una stratificazione sociale egualitaria, che presuppone la comunanza dei mezzi di produzione e l'organizzazione collettiva del lavoro, spesso affiancando a questi fondamenti anche opzioni internazionaliste”. Questa è una definizione data dalle enciclopedie al termine comunismo. Secondo questa definizione compito dei comunisti è costruire linee e azioni politiche, sociali ed economiche tese al perseguimento dell’uguaglianza fra i cittadini e i lavoratori di un paese e del mondo partendo dal presupposto che uguaglianza non c’è. Questa necessità si evidenzia oggi più che mai perché le differenze sociali invece di diminuire crescono e si cristallizzano. Compito dei comunisti sarebbe allora analizzare la realtà sociale ed economica e attivare tutte le iniziative necessarie per perseguire l’obiettivo dell’uguaglianza. Vedere come la realtà sociale influisce nel determinare o meno le differenze sociali, quali classi ne subiscono le conseguenze e quali invece ne traggono benefici. Nel documento del IX congresso di RC si evidenzia l’esistenza della crisi: “Una crisi che vede drammaticamente crescere il divario e insopportabili disuguaglianze fra aree del paese e classi sociali. Una crisi che colpisce le fasce più deboli della popolazione, fra cui giovani, donne, con una disoccupazione ai massimi storici e una precarietà divenuta esistenziale”. Viene individuato poi il che fare, in cosa si deve impegnare cioè RC:” Nella costruzione di un movimento di massa contro l’austerità, il PRC deve impegnarsi nel ridare centralità al conflitto sociale e di classe. I caratteri della crisi dimostrano l’attualità della critica marxista dell’economia politica e delle teorie economiche dominanti, della centralità del conflitto di classe, pur nelle rinnovate forme derivate dalla nuova composizione sociale del blocco sociale di riferimento”. E’ proprio in queste affermazioni che si rivela la debolezza dell’impianto di analisi. Si denuncia cioè l’esistenza di un conflitto di classe, ma non sono individuate le classi in conflitto, né in che modo si manifesta il conflitto stesso. Non si individua soprattutto chi è che determina la crescita della disuguaglianza sociale che si denuncia. Se la crisi fa crescere il divario sociale significa che c’è chi vede peggiorare le proprie condizioni economiche e sociali, mentre altri invece le migliorano. Chi sono gli uni e chi gli altri? Quali sono le classi in conflitto? Come si manifesta inoltre il conflitto stesso? E’ sufficiente individuare come fasce deboli i giovani, le donne e i disoccupati? Tutti i giovani?, Tutte le donne? A prescindere dalla loro condizione economica e sociale? La crisi ha inciso allo stesso modo su tutti i giovani e su tutte le donne oppure alcuni di loro non hanno risentito per niente della crisi, anzi hanno migliorato le proprie condizioni economiche? Se è così allora la crisi non ha colpito tutti i giovani e le donne ma solo alcuni. Ai giovani e alle donne vanno, però aggiunti tutti quelli che, a prescindere dall’età e dal sesso, non sono più in condizione di garantire a se stessi e ai propri cari un’esistenza libera dal bisogno e dignitosa: I disoccupati, i cassintegrati, i licenziati o i collocati in mobilità, i pensionati e tutti quelli che anche se hanno un lavoro sono costretti alla fame e alla miseria. Si può sostenere che tutti quelli che hanno pagato i costi della crisi appartengano alla stessa classe dei discriminati o dei nuovi proletari mentre quelli che hanno approfittato appartengano a un’altra classe: quella dei privilegiati perennemente in lotta per mantenere la condizione acquisita? La crisi, come dicono tutti gli indicatori economici, ha determinato un immenso spostamento di ricchezza a danno dei discriminati e a vantaggio dei vecchi e nuovi ricchi: I capitalisti di sempre, gli industriali, i ricchi e i padroni. Come hanno fatto questi ultimi a imporre “democraticamente”: Il taglio dei salari e delle pensioni, la disoccupazione, un sistema fiscale iniquo e di classe che dissangua i redditi fissi, il taglio non degli sprechi e delle ruberie ma della spesa pubblica a partire dallo stato sociale, sanità scuola, servizi e del decentramento amministrativo, senza scatenare un conflitto sociale. La politica economica di costoro si è imposta perché non è stata contrastata ne sul piano politico ne sul piano sociale. Non è stato denunciato l’egoismo e l’ingordigia che ha determinato il loro privilegio. Essi infatti spostano i loro capitali e aziende senza una opposizione di classe. E’ diventato prassi normale, grazie alla loro propaganda di classe, che un giovane sia senza lavoro, senza salario e futuro, mentre un vecchio sia costretto a subire con salari di fame e a lavorare fino alla fine dei suoi giorni. E’ diventato normale che anche davanti a una disoccupazione a limiti insopportabili, le aziende possano sotto pagare, precarizzare o condizionare il lavoro in base alla militanza politica dei propri dipendenti. Nessuno ha pensato di proporre, al momento del taglio delle pensioni, ad esempio, un limite ai profitti o imporne il reinvestimento per creare posti di lavoro. Il Parlamento di tecnici e partiti, al soldo dei capitalisti, con il loro operato e la loro demagogia fintamente interclassista, hanno tagliato solo da una parte, salari e diritti ai lavoratori per “salvare il Paese”, dall’altra hanno invece consentito alle imprese e ai padroni e ai privilegiati in generale, la massima libertà di azione e sfruttamento, per piegare i lavoratori a salari e condizioni di lavoro ai limiti della schiavitù. Se diminuisce il “costo del lavoro”, non si incrementa l’occupazione ma il profitto e si è visto. Le “riforme” Treu e Biagi, che precarizzano il lavoro, la “riforma” Fornero, che demolisce lo stato sociale, non sono leggi sbagliate, che alla luce dei fatti non hanno risolto il problema dell’occupazione giovanile, tutt’altro. Sono operazioni di classe attraverso le quali il padronato, servendosi del ceto politico e delle istituzioni, toglie diritti, libertà e reddito ai lavoratori per destinarli al profitto dei capitalisti che spadroneggiano nelle loro aziende e aumentano i loro profitti con i risparmi connessi. Queste, e tutte le altre “riforme”, che hanno peggiorato le condizioni dei lavoratori e pensionati, non sono il risultato di una politica di austerità per tutti. Sono viceversa gli strumenti attraverso i quali il padronato ha imposto i propri interessi, con il beneplacito di quella sinistra che si ostina a parlare di austerità o di quella che ha tradito. E’ prevalsa incontrastata sia sul piano culturale sia economico una linea di classe che ha favorito i ricchi e i padroni e danneggiato i nuovi proletari. La sinistra non ha inciso nei processi o si è invischiata in discorsi fumosi, da salotto e da elite. Ad affossare le condizioni economiche e i diritti dei discriminati non è l’austerità come è affermato nel documento congressuale Rc: “ L’austerità colpisce i diritti sociali anche attraverso il patto di stabilità imposto agli enti locali”. L’austerità è dovuta certamente alle politiche finanziarie dell’UE e delle banche, ma è soprattutto il risultato di un sistema economico, egoista e di classe che agisce con le logiche del mercato e che ritiene giusto e possibile che ci sia chi si possa arricchire a dismisura mentre altri non siano costretti a vivere senza nemmeno il necessario. Sono le leggi del mercato. Non va costruito quindi un movimento di massa contro l’austerità, ma contro coloro che determinano la crisi e la sfruttano a proprio vantaggio. Questi sono i grandi industriali a partire dalla Fiat e tutti quelli che, per il loro profitto e tornaconto, chiudono le loro aziende e de localizzano per andare a sfruttare discriminati (proletari) di altri paesi. Sono le banche e il capitale assicurativo e finanziario che investono se e dove a loro conviene. Costoro non sono costretti ad alcuna austerità e non subiscono la crisi. Invece di socializzare le perdite e privatizzare i profitti, come è stato fatto, va lanciata una politica di alternativa sociale e di classe. Va lanciata una campagna per la redistribuzione della ricchezza, vanno tassati i patrimoni, vanno rinnovati i CCNL con forti aumenti contrattuali, va ripristinata la scala mobile, va abolito il sostituto di imposta per i soli redditi fissi e vanno fissate imposte fortemente progressive sui patrimoni, vanno abolite le leggi Treu e Biagi, va cancellata la “riforma” delle pensioni Fornero, va ripristinato l’art. 18, ecc. Questo potrà essere possibile solo attraverso la chiara denuncia dell’esistenza dell’ingiustizia sociale e dello scontro di classe in atto e la costruzione di una forte opposizione sociale. Scontro sociale che vede il padronato all’attacco deve vedere i lavoratori alla riscossa e alla lotta invece che disorientati da sindacati e da una sinistra che li hanno svenduti alle ragioni del mercato e delle compatibilità capitaliste. Vanno perciò denunciati come nemici di classe coloro che attuano le politiche di sottomissione culturale, sociale ed economica dei lavoratori. Va denunciato chi, sotto la pelle di pecora di amico dei lavoratori, collabora attivamente per far passare il disegno di classe del padrone. La loro politica mercantile, sia in campo economico sia politico e sociale rappresenta lo strumento di sopraffazione di classe dei capitalisti sui proletari. Contro di essa va costruita la più larga opposizione, mobilitazione e lotta. Contro di essa va costruito il conflitto sociale su basi di classe. Questo sarà possibile se alle teorie incontrastate del mercato e del liberismo, la sinistra e i comunisti vorranno e sapranno contrapporre le loro teorie a partire da quelle dell’uguaglianza e della libertà dal bisogno e dal conseguente superamento della proprietà privata dei mezzi di produzione.

lunedì 28 ottobre 2013

Una sinistra che non cambia è di destra

E’ una battuta a effetto, pronunciata spudoratamente e spavaldamente da un “moderno e innovatore” astro nascente della “sinistra”. Il suo modernismo e la sua innovazione si misurano nelle capacità di svendita e di tradimento dei diritti e degli interessi dei discriminati. E’ l’assenza di una sinistra vera a determinare che personaggi e soggetti politici della destra più retriva passassero per innovatori e artefici di cambiamento. La politica oggi è fatta non da persone o soggetti politici che hanno qualcosa da dire, ma da personaggi di spettacolo, cabarettisti, comici e imbonitori, al servizio dei ricchi e dei privilegiati, che con la maschera di innovatori e per gli interessi del Paese, cercano con ogni mezzo di abbagliare i cittadini per far digerire loro le politiche antipopolari basate sulla discriminazione sociale che hanno condannato e portato la massa degli italiani alla fame, alla miseria e all’assenza di libertà. Tutto questo è stato possibile grazie all’assenza di progetti e soggetti politici alternativi, che avessero gli strumenti di analisi utili a denunciare l’imponente attacco di classe in atto ai danni dei lavoratori. Questo ha fatto si che il modello liberista con le sue leggi spietate delle compatibilità del mercato, le “riforme”, le privatizzazioni, i tagli sulla spesa pubblica, che hanno distrutto e azzerato i diritti e le condizioni economiche dei lavoratori, disoccupati e pensionati, potessero diventare accettabili e quindi considerate necessari per “uscire dalla crisi” nonché strumenti di modernità e innovazione per il bene di tutti. Grazie a questi truffatori sociali sono potute passare politiche antipopolari che in questi ultimi decenni hanno prodotto il più grande spostamento di ricchezza immaginabile a vantaggio di pochi privilegiati e a danno di tanti discriminati. Il ceto politico ed economico si è permesso anzi ha alimentato, privilegi e ricchezze spropositate insultanti a vantaggio di pochi “fortunati”, nello stesso tempo ha condannato la stragrande massa di cittadini alla fame, alla miseria e alla disperazione. I salari e le pensioni, per chi è fortunato di averli, vedono il loro potere di acquisto continuamente eroso dall’inflazione, perché scoperti da indicizzazioni e contingenza. Stipendi e pensioni, in barba alla decantata Costituzione, non sono sufficienti a garantire alcuna vita dignitosa a chi li percepisce. I giovani e chi perde il lavoro non hanno alcuna prospettiva e il loro futuro è azzerato. Essi sono completamente in balia della prepotenza padronale. Padronato che utilizzando l’arma del ricatto economico e del lavoro, approfitta dell’aiuto della “sinistra che cambia e si rinnova” (sindacati e partiti) impone i suoi interessi e convenienze per far passare le proprie linee e politiche. E’ stato così cancellato senza colpo ferire il diritto a una sanità e una scuola gratuite e uguali per tutti. I tagli sulla spesa pubblica, lungi dall’incidere sul debito pubblico che continua a crescere, cancellano servizi e civiltà. Tutto questo mentre il sistema fiscale iniquo e discriminatorio anch’esso, vessa e deruba i redditi fissi con pugno di ferro mentre grazia tutti gli altri redditi. Il lavoro è sempre più condizionato alla rinuncia di diritti e salario. Tutto questo non è determinato dalla crisi. La crisi è il pretesto per legare al carro del capitalismo italiano e mondiale e alle convenienze dei capitalisti e del mercato il tenore di vita, i diritti e le speranze della classe degli oppressi e degli sfruttati. Quello che ai capitalisti conviene, che fa aumentare i loro potere, i loro profitti e guadagni, diventa legge: L’azzeramento del sistema pensionistico, la precarizzazione dei rapporti di lavoro, la cancellazione del sistema sanitario e scolastico nazionali, i diritti dei lavoratori, il diritto alla casa e a un ambiente sano, ecc. Le divisioni e le differenze sociali sono cresciute perché la crisi non ha riguardato tutti ma solo la gran massa di cittadini. Per pochi privilegiati non c’è stata mai crisi. Essi hanno continuato e continuano ad arricchirsi, a percepire profitti, rendite e ricchezze enormi e senza vincolo o limite mentre impongono a tutti gli altri restrizioni e tagli insopportabili. Dove sta la sinistra? Quella sinistra che si batte in difesa degli oppressi e contro gli oppressori. Quella sinistra di classe che si schiera a fianco dei discriminati contro il privilegio e la rendita di cui denuncia l’iniquità e l’ingiustizia. Quella sinistra che individua nel superamento della proprietà privata dei mezzi di produzione, la condizione per la costruzione di una società di diversi e uguali. Quella che non rinnega le sue origini, le sue lotte e le sue bandiere. Quella sinistra che non imbroglia che non inganna i lavoratori, i disoccupati e i pensionati, facendo credere loro di condurli verso il futuro e il benessere, mentre li tradisce e lega i loro bisogni e le loro aspettative al carro degli interessi degli speculatori, profittatori e prevaricatori padronali e dei loro servi politici. Servi capaci di imbonire il popolo facendogli credere che se si muore di fame è per il bene del Paese e per la collettività. La Costituzione non può essere considerata un feticcio immodificabile lasciando solo alla destra conservatrice che mai l’ha digerita e che oggi coglie l’occasione per spostarne l’asse ancora di più a destra, la bandiera del cambiamento. La Costituzione può essere veramente cambiata e innovata anche e soprattutto da sinistra, cancellando ad esempio gli artt.41 e 42 che riconoscono e garantiscono la proprietà privata, e determinano le condizioni e i caratteri della società capitalista attuale che è costruita sull’ineguaglianza, sullo sfruttamento e sull’ingiustizia sociale operati da pochi a danno di tutti gli altri. Questi due articoli cancellano tutti gli altri a partire dall’art. 1 diritto al lavoro (diritto che la Costituzione riconosce ma non garantisce, altra modifica necessaria) e dalla garanzia a una retribuzione equa e capace di assicurare a sé e alla famiglia un'esistenza libera e dignitosa. Questo potrebbe essere un obiettivo di lotta qualificante su cui ricostruire un’identità alternativa e antagonista al sistema su basi di classe e di sinistra.

martedì 17 settembre 2013

Una Costituzione assolutamente meravigliosa

Il tentativo di stravolgere la Costituzione italiana, e di spostarne l’asse su posizioni restauratrici, messo in atto, su incarico del padronato, da parte di una classe politica priva di alcun mandato e completamente screditata nell’opinione pubblica, ha determinato la proliferazione di comitati in difesa della Costituzione. Comitati che coinvolgono anche figure rappresentative e dignitose della sinistra italiana oltre a quei cittadini che vedono in pericolo principi fondamentali della libertà e della democrazia. Difendere la Costituzione dagli attacchi rappresenta, per questi comitati, una battaglia determinante che va combattuta sulla quale tentare di ricostruire una qualche soggettività politica di sinistra. Questa sinistra assume cioè come manifesto la difesa dei principi di libertà, uguaglianza e democrazia sanciti dalla Costituzione che, in questo modo diventa bene assoluto e punto più alto di civiltà e progresso realizzabile. Questa scelta esclude altri modelli costituzionali utili a garantire diverse forme di libertà e di uguaglianza, a partire dal comunismo. Non occorre addentrarsi in un confronto ideologico, come avvenne al decimo congresso del Partito Comunista Italiano con la polemica fra l’allora segretario Togliatti e i dirigenti del Partito Comunista Cinese di Mao Tse Tung, per rendersi conto che certamente qualcosa che non va c’è stato e c’è. La Costituzione italiana è nata dalla Resistenza e afferma solennemente dei principi di libertà, uguaglianza e democrazia assolutamente condivisibili, anche se essa quando fu pensata rappresentò il punto massimo di mediazione e di compromesso specie per quelle forze partigiane che avevano lottato e dato la vita per un obiettivo ben diverso da quello realizzato, quello della nascita di una società socialista in Italia. La realtà ci dimostra che tali principi sono rimasti soltanto delle vuote enunciazioni e non hanno trovato applicazione in Italia in questi 65 anni. Perché le ingiustizie e le differenziazioni o discriminazioni sociali invece che diminuire sono aumentate. Perché i ricchi sono sempre più ricchi e la povertà è in aumento. Perché esiste la disoccupazione che è in continua crescita. Perché sono cancellati principi e diritti elementari di uguaglianza e civiltà come quello al lavoro o a una sanità e una scuola uguali per tutti. Perché è stato precarizzato il rapporto di lavoro. Perché sono state tagliate le pensioni e aumentate le età pensionabili. Perché non si sono mai colpiti i grandi patrimoni, ricchezze e privilegi che sono continuati ad esistere e prosperare. Perché il sistema fiscale colpisce solo i redditi fissi. Si potrebbe continuare. La causa sta nell’art. 42 della Costituzione. Esso prevede testualmente: ” La proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla legge”. Questo semplice articolo ha determinato la completa vanificazione e l’annullamento di quei principi di libertà e uguaglianza che la Costituzione stessa sancisce. Com’è possibile solo pensare che ci possa essere uguaglianza fra chi possiede beni e chi non ne possiede? Fra chi è in lotta per la sopravvivenza e non ha nemmeno i mezzi per garantire a se stesso e ai propri cari un’esistenza dignitosa e chi non sa nemmeno a quanto ammontano le proprie ricchezze? E’ vero che esistono articoli appositi che prevedono l’intervento dello Stato a favore di chi è costretto a lavorare perché non possiede affatto proprietà o ne possiede in misura insufficiente per consentire a questi di essere ugualmente liberi o addirittura consentire loro l’accesso al diritto alla proprietà. L’art. 36 recita infatti: ” Il lavoratore ha diritto a una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un'esistenza libera e dignitosa. La durata massima della giornata lavorativa è stabilita dalla legge. Il lavoratore ha diritto al riposo settimanale e a ferie annuali retribuite, e non può rinunziarvi”. All’apparenza sembrerebbe che la Costituzione non tuteli solo il diritto della proprietà ma anche quello di coloro che proprietà non hanno! Il principio sembrerebbe giusto. Solo che nella realtà mentre la proprietà, a partire da quella sui mezzi di produzione è effettivamente garantita dalla legge e dalle forze dell’ordine; il diritto a un lavoro e a una retribuzione equa e sufficiente, no e tantomeno quello del godimento di ferie riposi, malattie, maternità, ecc. no. Ne sa qualcosa chi lavora oggi in condizioni economiche e normative che sono state rese flessibili e compatibili con le esigenze di guadagno delle imprese e dei padroni, e del mercato. E’ un dato di fatto che anche chi ha la fortuna di avere un lavoro percepisce una retribuzione di sotto il livello di povertà e comunque insufficiente. I lavoratori non hanno più diritto al posto fisso. I licenziamenti individuali sono tornati a essere arbitrari. Per licenziare non sono più necessari giusta causa o giustificato motivo. Con queste norme reintrodotte tutti i lavoratori sono diventati precari, senza un salario adeguato e senza quei diritti conquistati a prezzo di dure lotte. Con queste “riforme” il “datore di lavoro” ha svelato il suo vero volto: Quello di padrone. Addirittura il padronato è tornato a scegliersi gli interlocutori sindacali che più gli aggradano con la complicità fattiva di Cgil, Cisl e Uil che hanno tradito i lavoratori lasciandoli privi di tutela e hanno collaborato con il padronato nell’opera di smantellamento delle conquiste sindacali. Ne sanno qualcosa anche i pensionati le cui pensioni, la maggioranza, sono al di sotto del limite di povertà e scoperte anch’esse da ogni strumento di tutela contro l’inflazione. Se però per alcuni la libertà è diminuita, è aumentata quella degli altri, di quelli che essendo esenti dal bisogno, non hanno la necessità di lavorare alle dipendenze di qualcuno: Essi anzi impongono a tutti i propri voleri e interessi. L’art. 3 della Costituzione recita: ”È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e la uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese” E’ quanto sta avvenendo? Se esistono ostacoli che limitano la libertà e l’uguaglianza…, a partire dal diritto al lavoro, lo Stato cosa ha fatto finora per l’occupazione? Ha tagliato i salari, pensioni e diritti ha cancellato la scala mobile e annullato lo stato sociale, mentre ha favorito il profitto, la ricchezza e il privilegio di pochi. L’uguaglianza che il padronato e i governi che si sono succeduti intendono realizzare parte proprio da ciò. Il diritto al lavoro dei discriminati si può realizzare solo attraverso il loro arretramento economico, politico e sociale. E’ così che secondo costoro si rispetta il dettato costituzionale. Le leggi Treu e Biagi che precarizzano il lavoro non vanno forse in questa direzione? La “Riforma delle pensioni” ultima quella operata dal Governo Monti, non è forse in linea con questa politica di classe che sposta la ricchezza dalle tasche di molti in quelle di pochi? Rapportare cioè il tenore di vita, le retribuzioni, le pensioni e i diritti alle compatibilità economiche di chi possiede proprietà, alle sue brame insaziabili di arricchimento e profitto, rappresenta la priorità del diritto alla proprietà, alla sua integrità e al suo incremento rispetto a quello di tutti gli altri cittadini privi di proprietà e di mezzi per vivere e quindi condannati per questo al continuo arretramento sociale e alla povertà. L’art. 4 riconosce certo il diritto al lavoro: ”La Repubblica riconosce a tutti i cittadini, il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto”. Nel mentre il diritto alla proprietà e al profitto sono garantiti dallo Stato, questo non avviene per il diritto al lavoro che non è garantito ma solo riconosciuto. Non garantire il diritto al lavoro, significa impedire al singolo cittadino privo di proprietà di essere eguale agli altri a causa delle sue condizioni personali e condannarlo ad una perenne subalternità sociale. Perché nessun Presidente della Repubblica, figura garante della Costituzione, è intervenuto a difesa del diritto al lavoro del singolo cittadino, se questo è lo strumento della sua libertà? In sostanza se esistono differenze economiche e di reddito, questo vuole dire che le libertà e i diritti dei cittadini dipendono solo dalla loro condizione economica e che essi sono detentori di libertà e di diritti differenti, direttamente rapportati alla quantità o meno delle proprietà possedute. In questo modo, l’impegno teorico della Repubblica di rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che limitano la libertà e l’uguaglianza …. dove va a finire? Si accetta semplicemente la differenziazione sociale come un dato di fatto immutabile. Come d’altra parte è sostanzialmente avvenuto dal 1948 in poi. I principi di uguaglianza della Costituzione si stanno dimostrando per quello che realmente sono: Affermazioni valide ma solamente teoriche e completamente inapplicate. Chi e cosa ha impedito la loro realizzazione? Chi è che cosa ha permesso che della Costituzione prevalesse su tutti gli altri solo il diritto alla proprietà? Si perché è un dato di fatto che è prevalso il diritto alla proprietà. Questo diritto liberista è antitetico con il diritto all’uguaglianza, alla libertà e alla democrazia per i cittadini privi di proprietà. I partigiani hanno combattuto nella Resistenza per realizzare questo? Difendere semplicemente la Costituzione da chi vorrebbe addirittura modificarla in senso peggiorativo, diventa perciò una battaglia perdente di difesa e di retroguardia che oltretutto nega la possibilità di altre forme di stato possibili, a partire dal comunismo. Occorre modificare la Costituzione. Occorre garantire il diritto alla libertà e all’uguaglianza dei cittadini e questo può avvenire solo slegandolo dalle condizioni economiche e sociali. Eliminando pertanto il diritto alla proprietà a partire da quella dei mezzi di produzione.

lunedì 3 giugno 2013

Confindustria si sceglie i sindacati che più gli convengono: Cgil Cisl Uil

Il 31 maggio 2013 è stato sottoscritto un cosiddetto “accordo interconfederale” fra le confederazioni “dei lavoratori” e quelle dei “datori di lavoro”. Un accordo di questo tipo poteva essere giustificato negli anni ’60 o ’70, quando il sindacato, in particolare la Cgil, era controparte del padronato. Quando la Cgil tutelava e rappresentava appieno i diritti dei lavoratori e da questi era riconosciuta e non c’era bisogno, come ora di organizzazioni sindacali diverse o di base come ora. Quando non era necessario stabilire dei criteri di rappresentanza, perché l’adesione al sindacato avveniva non tramite delega, ma con un contatto diretto e continuo. Quando l’iscritto pesava nelle decisioni da prendere. Quando era la partecipazione alle lotte e agli scioperi contro le logiche di sfruttamento padronali a stabilire il livello di rappresentatività dei singoli sindacati e a dimostrare il reale seguito e rappresentatività di ogni sindacato. Il padrone non poteva scegliersi, come ora, la controparte con accordi interconfederali. Certo le discriminazioni e le persecuzioni sindacali erano molte, ciononostante il padrone era costretto a contrattare con chi altrimenti decideva ed aveva la forza di bloccargli la produzione colpendolo sul suo punto debole: I soldi. Non certo questo avveniva con chi aveva più deleghe di pagamento della quota sindacale come avviene ora e come si rafforza con l’ultimo “accordo interconfederale”. L’avvento della riscossione delle quote sindacali per delega ha coinciso con l’inizio della burocratizzazione del sindacato, del suo distacco dai lavoratori, con la fine delle lotte e dell’antagonismo sindacale, con l’arretramento economico e sociale dei lavoratori e la loro sconfitta. Il sistema delle deleghe ha tolto ai lavoratori la possibilità di incidere nella vita del sindacato, negli accordi con la controparte padronale, nella costruzione delle linee sindacali e nell’individuazione degli stessi vertici sindacali ai vari livelli. I risultati si toccano oggi con mano. Le certezze economiche garantite dal regolare afflusso di fondi unito ai distacchi sindacali, determinarono lo svilupparsi di un ceto sindacale che non rispondeva più ai lavoratori, ma ai vertici sindacali e tramite di essi era ed è riconosciuto dagli “interlocutori” imprenditoriali. Il meccanismo della delega è degenerato al punto che, in alcuni settori sindacali come i braccianti e i pensionati, l’iscrizione avviene da sempre senza il consenso esplicito dell’interessato, ma con la presentazione di semplici prestazioni d’assistenza (domande di disoccupazione, di pensione, ecc.) mentre per tutti gli altri settori, dagli edili, le deleghe sottoscritte valgono e vita, a meno di un’esplicita revoca e non subiscono alcuna verifica, nemmeno in caso di contrattazioni sindacali di qualsiasi tipo. Questo ha determinato, nel tempo, il distacco del sindacato dai lavoratori, il lento crescere di logiche burocratiche di componente politica o di gruppo, ed ha reso indipendenti i funzionari dai lavoratori, legandoli ai livelli sindacali immediatamente superiori, cui rendere conto, perché da questo dipende lo stipendio o la conferma o meno del distacco sindacale. A loro volta i massimi vertici sindacali sono riconosciuti e determinati, non dai lavoratori, ma dalla controparte che li riconosce o meno e che costruisce con essi, anche con il sistema degli organismi paritetici, una politica sindacale “moderata” più confacente ai loro interessi e convenienze. Chi possiede questi pacchetti di tessere controlla organismi e determina le strategie sindacali, le trattative, gli “accordi” e l’esito di consultazioni, quelle rare volte che vengono attuate. In base a queste “strategie” di “relazioni sindacali” c’è bisogno di finanziare il sindacato attraverso un meccanismo staccato dal consenso, e dalla partecipazione dei lavoratori: Le deleghe. A questo si aggiungono altre fonti di finanziamento del sindacato che rendono, economicamente, quasi superfluo il pagamento della tessera d’iscrizione dei lavoratori al sindacato. I patronati sindacali inoltre sono finanziati dallo Stato, in base alle pratiche lavorate. Lo stesso dicasi per i Caaf, centri di assistenza fiscale. E’ chiaro che, grazie a queste entrate certe e garantite, si può fare a meno del consenso. E’ chiaro che con questi sistemi di costruzione dei “dirigenti” o del “consenso” sindacali è stata decretata la fine delle lotte e con essa della difesa degli interessi dei lavoratori, con grande gioia della Confindustria. “L’accordo interconfederale” si guarda bene dal mettere in discussione le deleghe, e non poteva essere diversamente, prevedendone ad esempio la verifica attraverso l’obbligatorietà del loro rinnovo. Oppure legando il livello di rappresentatività di ciascuna organizzazione solo ai voti ottenuti in occasione dei rinnovi delle RSU. Al contrario proprio sulle deleghe esistenti si costruisce la base della “nuova forma di rappresentatività sindacale”. Proprio grazie a ciò si garantisce alla Confindustria “l’interlocutore” che più gli aggrada premiandolo. Nel testo dell’accordo si prevede, infatti, che esso possa riguardare esclusivamente “ le organizzazioni sindacali (federazioni di categoria) aderenti alle Confederazioni firmatarie della presente intesa, o che comunque a essa aderiscano” escludendo dalla possibilità di essere riconosciuta come soggetto trattante, qualsiasi organizzazione sindacale di base o al di fuori dei sindacati riconosciuti e sgraditi al padronato. La stessa costruzione della “trattativa” è avvenuta senza alcun mandato e coinvolgimento dei lavoratori. “L’accordo” sindacale è stato raggiunto clandestinamente e non sarà sottoposto all’approvazione e giudizio di essi. La realtà è che questo è l’ennesimo “accordo sindacale” che passa sulla testa e sulla pelle dei lavoratori, dei pensionati e dei disoccupati perché accentua l’istituzionalizzazione e il corporativismo di un sindacato che ha dimenticato e tradito gli interessi di chi lavora e dei discriminati e che tenta di impedire loro la costruzione di sindacato che stiano veramente dalla loro parte e non da quella del mercato e dei capitalisti.

venerdì 24 maggio 2013

SQUINZI (Presidente Confindustria): NON SIAMO LA CASTA MA LA CASA DEL CAPITALISMO REALE

La rivendicazione fatta dal presidente Confindustria è eclatante ma non inedita. Il padronato presenta con brutalità la realtà: Se il Paese vuole uscire dalla crisi, occorre dare mano libera agli industriali, campioni dell’innovazione e del sistema produttivo. Non solo occorre diminuire ancora il costo del lavoro, ma in più va contrastata “la mancanza del lavoro è la madre di ogni male sociale”, ha tuonato ancora Squinzi. Essa va affrontata in maniera strutturale e con equilibrio, intervenendo anche sulla produttività e le regole. Le imprese “sono pronte a supportare l'azione del governo con investimenti e occupazione” Occorre, ha aggiunto, “riformare” poi il fisco italiano “punitivo” per le imprese. Un fisco che è "quanto di peggio si possa immaginare” e che "scoraggia gli investimenti e la crescita". “Chiediamo un fisco a supporto di chi crea ricchezza e la distribuisce, trasparente e rispettoso dei diritti dei cittadini e delle imprese. Questo lo aspettiamo e il paese lo merita” ha aggiunto Squinzi. Infine le banche. Negli ultimi 18 mesi lo stock di prestiti erogati alle imprese è calato di 50 miliardi: un taglio senza precedenti nel dopoguerra. Quasi un terzo delle imprese ha liquidità insufficiente rispetto alle esigenze operative. Dobbiamo contrastare la terza ondata di credit crunch. Il premier Enrico Letta, intervenuto subito dopo, ha replicato: “Siamo dalla stessa parte (del capitalismo reale), la politica forse troppo tardi ha capito la lezione, ma ora deve applicare quello che ha capito”. Il presidente della Confindustria, in un solo fiato con i rappresentanti del Governo e una schiera di ministri ossequianti, ha potuto presentare in sostanza all’intero Paese e per l’ennesima volta, la sua lista dei desideri, condita con un demagogico, finto e insultante nazionalismo, proprio mentre rivendica i meriti di classe (?) dei capitalisti italiani. Il tentativo è di dare ad intendere ai discriminati, che gli imprenditori sono colpiti dalla crisi e dal fisco proprio come tutti gli altri cittadini. Se c’è la crisi, se il nord è sull’orlo del baratro, a rimetterci sarebbero tutti, padroni e sfruttati, perché tutti sarebbero sulla stessa barca e condividerebbero lo stesso destino. La falsità e la demagogia di tutto ciò sono enormi: Squinzi nel rivendicare l’appartenenza alla casa del capitalismo reale, dimentica volutamente di dire che sono proprio il mercato e il capitalismo reale a determinare la crisi e che approfittando di essa il padronato ha operato un’enorme redistribuzione della ricchezza a danno di lavoratori e pensionati e a vantaggio di pochi capitalisti. Squinzi si lamenta per la mancanza di lavoro. Non sono proprio le politiche del padronato protese alla ricerca massimo profitto ad ogni costo, anche attraverso le speculazioni finanziarie, distruggendo l’ambiente e la salute dei cittadini o riducendo in schiavitù chi lavora, a determinare la mancanza di lavoro? Perché la Fiat invece di costruire macchine in Serbia, Polonia, Usa, ecc, sottopagando la manodopera non le fabbrica in Italia? Perché le imprese tessili italiane, che rivendicano il marchio e il made in Italy, invece di confezionare i capi in Bangladesh con manodopera a trenta euro al mese per 18 ore giornaliere di lavoro e in condizioni disumane non producono i loro capi in Italia nel rispetto delle regole, dei contratti di lavoro e dei diritti dei lavoratori? La "fuga" o il tradimento degli “imprenditori” nostrani è sotto gli occhi di tutti. Le aziende italiane “emigrate” all'estero, da un’elaborazione realizzata dall'Ufficio studi della CGIA di Mestre, svela che il numero delle imprese italiane che al 31-12-2011 (ultimo dato disponibile) hanno trasferito all'estero una parte dell'attività produttiva, è superiore alle 27.100 unità. Non dipende anche da questo l’incremento della disoccupazione? Non dipendono proprio dalle spietate regole del mercato, del capitalismo e del profitto, grazie alle quali il padronato si arricchisce, le sofferenze e le privazioni che masse crescenti di discriminati sono costretti a subire in misura sempre maggiore? La rivendicazione di Squinzi circa l’appartenenza alla ”casa del capitalismo reale” risulta arrogante e provocatoria perché nasconde l’ingiustizia e la discriminazione sociali che sono cresciute nel paese. Il padronato italiano, che la Confindustria rappresenta, ha potuto ottenere enormi profitti grazie ai sindacati asserviti e governi di ogni colore che hanno imposto sacrifici e tagli a senso unico ai lavoratori e ai pensionati italiani, azzerando i contratti di lavoro, legando il salario alle convenienze del mercato e mettendo di nuovo in mano al padrone le redini del lavoro con la cancellazione del collocamento, dell’art. 18 e istituendo il lavoro precario a vita. Essi hanno tutti collabora toto nel cancellare diritti e nel calpestare gli stessi principi costituzionali di uguaglianza e libertà tanto più decantati quanto sempre più teorici e mai veramente applicati in Italia. La Confindustria porta avanti la politica del padronato di sempre: Calo del costo del lavoro (meno salari), produttività (più lavoro) e meno fisco per le imprese. In soldoni meno salario e più lavoro e sfruttamento per i lavoratori, più profitto per i padroni e meno tasse per le imprese, quindi più tasse per i redditi fissi. Non si tratta per niente di una folgorante innovazione ma è la solita trita politica padronale della ricerca del massimo profitto. Il padronato italiano vuole presentarsi come paladino del lavoro e dei lavoratori, innovatore e lungimirante a differenza dei partiti e del sistema politico italiano corrotto e privilegiato. Se però il sistema politico italiano è corrotto chi lo corrompe? Chi sono i corruttori che intestano case agli ignari politici, chi è che corrompe, finanzia (vedi anche il recente scandalo dei soldi dati ai rappresentanti del Parlamento dai manager del gioco d’azzardo). Chi è che apre conti nei paradisi fiscali? Chi è che usufruisce dei condoni o degli scudi fiscali? Chi è che evade? Chi è che si arricchisce mentre condanna i redditi fissi al “rigore” a senso unico e alla fame? L’ultimo caso, in ordine di tempo, è quello illuminante dell’Ilva di Taranto e dei suoi proprietari la famiglia Riva. Nei loro confronti sono stati operati due sequestri di beni mobili e immobili e disponibilità economiche, per un valore di 8,1 miliardi di euro dal tribunale di Taranto con l’ipotesi accusatoria, di associazione a delinquere finalizzata alla commissione di reati ambientali plurimi e Frode fiscale, riciclaggio, intestazione fittizia e truffa ai danni dello Stato con un altro ordine di sequestro di beni per 1 miliardo e 200 milioni euro: immobili, titoli e disponibilità finanziarie “bloccati nel paradiso fiscale di Jersey” (tanto per cambiare). Somme che dovrebbero corrispondere al danno prodotto. Secondo quanto accertato nel corso delle indagini i Riva, mediante l’interposizione fittizia di alcuni trust in Italia e Svizzera, e di altre società, avrebbero nascosto la reale titolarità delle disponibilità finanziarie create con i soldi dell’Ilva, facendo risultare all’estero beni che, invece, sono nella loro disponibilità in Italia. L’obiettivo, secondo l’accusa, era di rendere applicabili i vantaggi derivanti dallo scudo fiscale: secondo le prime informazioni almeno otto operazioni. Al di la della fondatezza o meno delle ipotesi accusatorie è insultante e immorale che in una Repubblica di cittadini che, sulla carta dovrebbero essere uguali, esistano e convivano soggetti detentori ricchezze di enormi dimensioni (pochi) insieme ad altri privi di reddito o con redditi insufficienti (la maggioranza). Come si può giustificare il possesso di ricchezze così grandi di fronte alla disoccupazione, alla fame e alla miseria? E’ questo il capitalismo reale? Altro che “siamo” sull’orlo del baratro, come dice Squinzi: Siete.