mercoledì 29 giugno 2011

Se lo dice lui

“Grazie per quello che hanno fatto oggi nell'interesse del nostro Paese", è stato il commento del ministro dell'Economia Giulio Tremonti. Basta quest’affermazione a far capire che tipo di “accordo” sia stato raggiunto tra i sindacati e la Confindustria. Quando Tremonti parla di paese, non si riferisce certo ai lavoratori della pubblica amministrazione, cui si appresta a bloccare gli stipendi e il turn over. Neanche ai pensionati, cui sta per regalare l’ennesimo innalzamento dell’età pensionabile a sessantacinque anni. Tanto meno ai contribuenti a reddito fisso cui regala l’ennesimo aumento dell’iva e. peggio ancora, la rivoltante tassa sulla salute (ticket) per chi è costretto a ricorrere al pronto soccorso o a fare ricorso a visite specialistiche.
Certamente non può riferirsi a profitti, capitali e patrimoni che rimangono intoccati. Come pure a tassare adeguatamente stock option e prebende per i vari Marchionne (12,5 per cento, mentre i lavoratori pagano il doppio). Di quale Paese parla Tremonti? Quello dei ricchi o quello dei discriminati e dei precari che vedono ancora una volta peggiorare le loro condizioni di vita. Perché il bene del Paese coincide sempre con tagli allo stato sociale e ai diritti economici e normativi dei lavoratori e mai a tasse e tagli per profitti, rendite e patrimoni? Di quale paese sta parlando?
Una trattativa segreta, su punti contrattuali e non solo, non legittimata da nessun mandato democratico, portata avanti dal padronato confindustriale e da una schiera di sindacalisti di professione “nominati” da organismi interni di altri “nominati”, sconosciuti e tanto meno eletti dai lavoratori, tutti preoccupati di dare, come ha detto Bonanni: ”In un momento di crisi, certezze alle imprese sulle intese che si fanno” (non ai lavoratori e ai precari). Infatti ha sottoscritto un “accordo” che ha ottenuto subito il consenso del governo di centrodestra e il sostanziale accordo del Partito democratico. L’unità titola oggi: ”Sindacati e imprese ci provano: accordo su contratti”.
L’intesa emargina volutamente, non solo la Fiom, ma tutte quelle sigle di base, già eliminate “democraticamente” dall’altro accordo capestro che imponeva dall’alto, grazie alla collaborazione (non disinteressata della Confindustria) a tutte le sigle sindacali, comprese quelle che non lo avevano sottoscritto, regole e metodi unilaterali.
L’accordo, che è bene approfondire, getta le basi, per deroghe aziendali ai contratti nazionali, e crea le condizioni perché sia respinto il ricorso presentato dalla Fiom sulle vicende Fiat di Pomigliano, Mirafiori e Grugliasco, sulla legittima rappresentanza aziendale a sottoscrivere intese.
L’ipocrisia di fondo, con l’intento di affossare i contratti nazionali, è rappresentata dal tentativo di presentare l'accordo come la carta vincente per “rimettere il valore del lavoro e la centralità della contrattazione al centro dell'attenzione del paese” come dice Camusso. Ipocrisia e tradimento, perché l’esperienza insegna che solo i contratti nazionali, in una situazione di debolezza dell’iniziativa dei lavoratori, danno un’adeguata e unificante tutela. Dare a intendere che sia possibile intavolare una contrattazione articolata vincente per i lavoratori, in aziende di precari, senza diritti e tutele, che è costretta a misurarsi con delocalizzazioni, cassa integrazione e licenziamenti è mentire sapendo di mentire e preparare la strada per altre firme capestro.
Gli stessi accordi della Fiat, firmati solo da Cisl e Uil, non prevedono forse l’annullamento di diritti fondamentali (malattia e sciopero), turni ininterrotti di otto ore? E’ questo il modo per rimettere il valore del lavoro e la centralità della contrattazione, Camusso? Camusso che sconfessa la Fiom e rinnega la sua non firma con la Fiat.
Ha ragione Cremaschi, presidente del Comitato centrale Fiom, quando afferma: "La Cgil ritiri la firma dall'intesa e Camusso si dimetta". Cremaschi definisce giustamente "liberticida" l'accordo sulla nuova regolamentazione della rappresentanza sindacale e della validità dei contratti sottoscritto ieri da Cgil, Cisl e Uil, perché "apre la via allo smantellamento del contratto nazionale". Firmandolo, la leader della Cgil, Camusso, ha "mancato ai suoi doveri di rappresentanza dell'organizzazione" sindacale.
Ha soprattutto permesso, va detto con forza, di creare le condizioni per nuovi accordi concertativi che faranno compiere altri passi indietro ai lavoratori su diritti, salario e occupazione, esponendoli al ricatto e lasciando indisturbati i padroni e intatti i loro interessi e profitti.

venerdì 24 giugno 2011

Padronato italiano, ovvero il profitto di pochi come interesse di tutti

Dopo decine di anni di “contenimento” dei salari, precarizzazioni, cancellazioni di diritti costituzionali legati al lavoro, tagli ai servizi pubblici, demolizioni progressive del sistema previdenziale e pensionistico pubblico, di chiusura di ospedali, ticket sanitari, privatizzazioni varie anche in settori strategici (ultimo il tentativo di privatizzare l’acqua e le spiagge demaniali), operati in ossequio all’ideologia liberista fatta propria anche dalla “sinistra” nostrana, i meno distratti possono assistere all’ultima (in ordine di tempo) lezione di economia e di rigore morale del risparmio che l’illuminata (e a pancia piena) presidente di Confindustria Emma Marcegaglia elargisce agli “sperperatori”. Ovvero i discriminati a pancia vuota.
Davanti ai dati riguardanti l’economia italiana, al Pil, al debito pubblico nonostante i tagli operati e il crescente carico fiscale gravante solo sul cittadino lavoratore dipendente (mentre sono permesse scappatoie inaccettabili per tutte le altre categorie di cittadini), la “moderna” padrona italiana tira fuori dal suo cilindro l’innovativa ricetta: "Per centrare gli obiettivi ambiziosi ma obbligati di azzeramento del deficit e evitare la stagnazione" è necessario "varare subito misure strutturali", e a fare riforme, a partire dal fisco. Confindustria chiede "misure che siano credibili" e, citando "i documenti dello stesso governo" avverte: senza riforme "diverrebbero necessarie manovre aggiuntive" per l'un per cento del Pil al 2014, "cioè altri 18 miliardi oltre ai 39 previsti. Ed anche "la modesta crescita verrebbe dimezzata allo 0,6 per cento già nel 2012". Conseguentemente propone di operare un taglio strutturale di spesa pubblica e di contenere le retribuzioni pubbliche e di alzare a sessantasette anni l’età pensionabile, annunciando comunque la contemporanea ulteriore perdita di centinaia di migliaia di posti di lavoro a fine 2011.
Tutto questo viene definito politica riformista, che il governo deve avere il coraggio di intraprendere. C’è di che rimanere sbigottiti. Siamo di fronte all’ennesima, manovra tesa a mascherare in responsabilità nazionale e istituzionale, la prepotenza e l’ingordigia degli industriali, che sono invece impegnati a lucrare anche mentre riducono alla fame i lavoratori. Ma anche a trasferire tranquillamente e indisturbati le loro attività in paradisi fiscali o in zone sottosviluppate nelle quali assumere a salari da fame e a condizioni inaccettabili lavoratori più affamati di quelli italiani o a costringerli attraverso “democratici” referendum, col ricatto della delocalizzazione e della disoccupazione, a rinunciare alle conquiste del passato.
Si tenta di spacciare la politica ingorda e di classe degli industriali nostrani, tipica del padronato della prima rivoluzione industriale: compressione delle retribuzioni, aumento dei ritmi di lavoro, come l’ultimo ritrovato in materia economica di una classe dirigente “responsabile” che invita all’austerità, al risparmio (guardandosi bene dal dare l’esempio) per uscire dalla crisi e creare nuova occupazione con il solito strumento dell’annullamento dei diritti dei lavoratori e senza mettere in discussione i profitti (di cui grazie al sistema attuale è impossibile determinare l’entità a differenza dei salari dei lavoratori).
La realtà che viviamo ci racconta un’altra storia. Quella dei sacrifici, dei tagli e rinunce a senso unico per lavoratori e pensionati. Per loro c’è sempre questa sola faccia della medaglia: tirare la cinghia. Da trenta anni va avanti tutto ciò.
I soloni politici del padronato, comunque mascherati dietro promesse di ripresa e di occupazione, mai verificatisi, hanno cancellato le conquiste dei lavoratori costate lacrime e sangue e intendono continuare a farlo ancora a lungo con la mano sul cuore, cantando l’inno nazionale e trasferendo all’estero comunque le loro attività.
Non lo dobbiamo permettere.

mercoledì 15 giugno 2011

La lezione "antiprivatistica" del referendum

L’esito del referendum è una boccata di ossigeno per tutti quelli che mal sopportano il pattume politico attuale, segnato da una destra populista e prepotente e da una finta “sinistra”, che invece di rappresentare gli interessi dei discriminati si schiera col liberismo e ne difende i “valori”.
La partecipazione e l’entità del pronunciamento degli italiani al referendum, manifestatisi con percentuali “bulgare”, segnalano la volontà di cambiamento e di rottura maturata tra i cittadini.
È bocciata innanzitutto la politica rampante del centrodestra che, annusata l’aria, non ha azzardato nemmeno a difendere il proprio operato e le proprie leggi, arrivando addirittura, in molti casi, a votare contro di essi.
È stato dato un segnale dirompente, oltre contro il governo, verso il centro”sinistra” che, dopo aver criticato e ostacolato prima la raccolta di firme dei comitati promotori i referendum, non ha poi avuto scrupoli a tentare di cavalcare l’onda crescente per puri calcoli di bottega.
Il Partito democratico e il centro”sinistra” infatti, sono stati i più insistenti e inaspettati sostenitori delle tesi liberiste e con esse delle privatizzazioni. Senza il loro fattivo contributo, in una sorta di staffetta governativa col centrodestra, non sarebbero passate le logiche privatistiche che hanno fatto diventare strumento di profitto la sanità, la previdenza, la scuola, i trasporti, l’energia, le poste, l’informazione, le banche, ecc.. La stessa liberalizzazione dell’acqua, anch’essa ridotta a strumento di profitto, rientrava a pieno in questo quadro complessivo. Soltanto strumentalmente (e per calcolo politico), nel tentativo di prevalere sul concorrente politico avverso (sostenitore delle stesse politiche liberiste), Bersani e il Pd hanno scelto di sostenere le ragioni del sì all’abrogazione delle norme sulla privatizzazione dell’acqua. Non altro.
Il dato è che i due referendum sull’acqua, anche se di poco, rispetto agli altri hanno ottenuto la maggiore quantità di votanti e di consensi. I cittadini hanno respinto così le tesi di chi sosteneva i vantaggi del privato rispetto il servizio pubblico, rifiutando il mercato e il profitto in settori legati agli aspetti fondamentali della vita, avendo sperimentato i risultati delle altre privatizzazioni.
Viene in conclusione bocciata tutta la politica delle privatizzazioni, prescindendo da chi sia stata decisa.
Lo stesso discorso vale per il nucleare
. Le drammatiche sequenze del disastro nucleare in Giappone, dove è stata nascosta per calcoli economici la reale portata dei danni, determinando l’ulteriore irresponsabile esposizione delle popolazioni alle terribili radiazioni.
Il referendum sul “legittimo impedimento” ha riaffermato con forza che gli italiani respingono il tentativo di sancire la disuguaglianza sociale e la discriminazione davanti alla legge.
Occorre impedire “la privatizzazione” della vittoria referendaria da parte di quei personaggi e forze politiche, Pd e centro”sinistra” in primo luogo, che intendono farne un uso strumentale, per poi tornare a ripresentare le stesse tesi liberiste di prima, come toccasana di tutti i mali. E’ tutto quello che fa chi nega l’esistenza del conflitto sociale e che ha fatto proprie le ragioni del capitale, delle privatizzazioni e dei padroni.

martedì 7 giugno 2011

Israeliani e palestinesi, due pesi e due misure

Venti sono le persone uccise, secondo la tv di stato siriana, ventitré, secondo Al Jazeera e duecentoventicinque i feriti, tutti palestinesi, in occasione delle manifestazioni del quarantaquattresimo anniversario della sconfitta araba del 1967.
Centinaia di palestinesi hanno cercato, in occasione della ricorrenza, di oltrepassare la recinzione sulla linea fissata nel ’67, che ha determinato l’annessione militare e unilaterale delle alture di Golan a Israele.
I manifestanti sono stati gli unici a riportare perdite di vite umane e feriti negli “scontri”, perché il loro tentativo di superare i reticolati su quelle che erano le loro terre, ha coinciso con l’inizio delle operazioni militari. Essi sono diventati i bersagli di un tiro a segno messo in atto dai militari israeliani attraverso un uso massiccio delle armi.
L’esercito militare israeliano non ha avuto bisogno di celebrare alcun processo né di emettere alcuna sentenza di condanna: è passato immediatamente all’esecuzione della sentenza di morte dei “rei”, colpevoli di rivendicare, pacificamente, il proprio diritto su territori strappati loro con la prepotenza e la forza delle armi e trattenuti arbitrariamente da Israele.
Davanti a questi fatti risulta fragoroso il silenzio delle istituzioni italiane e internazionali, delle forze politiche e degli organi di stampa, così sensibili e solleciti, in altre occasioni, nel decidere e sostenere interventi “umanitari” e militari in tutte le aree del mondo dove i popoli sono oggetti della violenza e della dittatura di tiranni liberticidi, che calpestano le più elementari norme di civiltà.
In questo caso non è stata levata alcuna voce di condanna: i rappresentanti delle istituzioni e i partiti tacciono, gli organi d’informazione, nella quasi totalità dei casi, smorzano l’entità del massacro con titoli asettici che nascondono la realtà e le responsabilità, del tipo: ”Vittime al confine con la Siria”; ”Sul Golan si spara (?). Vittime tra i palestinesi e siriani”; “Dopo gli scontri sul Golan Israele accusa Damasco di manipolare i suoi cittadini”.
Questo è il quadro mistificatorio e desolante di come i paesi “democratici” occidentali intendono la libertà e i diritti dei popoli. L’Onu delibera e gli eserciti dei paesi “democratici” intervengono solo se a loro conviene, se ci sono materie prime (leggi petrolio o altre risorse energetiche) o altri tornaconti economici o militari. In assenza di questi, i popoli possono tranquillamente continuare a subire, perché i paesi “democratici” addormentano le loro coscienze e il loro senso del diritto.
A differenza di quanto è successo in altri paesi nessuno si è mai preoccupato, né lo farà in futuro, dei palestinesi, del loro diritto a essere liberi sulla loro terra, con una loro Patria riconosciuta e a non essere continuamente derubati (di ciò che spetta loro) dalla politica degli “insediamenti dei coloni” israeliani.
Nessuno si preoccuperà di libertà e sicurezza in questo caso, mentre il popolo palestinese e i suoi legittimi rappresentanti continueranno a essere etichettati come pericolosi e radicali estremisti, a differenza dei "civili e democratici” governanti israeliani.

sabato 4 giugno 2011

Benefattore incompreso (e milionario)

L'amministratore delegato della Fiat, Marchionne, a margine del Consiglio Italia-Usa, visti i risultati economicamente strabilianti della sua gestione della Chrysler, si è lanciato in una serie d’illuminanti affermazioni: "Non abbiamo alcuna intenzione di spostare il quartier generale da Torino a Detroit"; "Quanto è avvenuto negli Usa deve essere letto in Italia in modo positivo. Se è possibile farlo là è giusto e opportuno farlo anche qui in Italia. Deve cambiare però l'atteggiamento". In ultimo ha affermato: "L’operazione non permette solo alla Fiat di rafforzare la propria posizione in Chrysler, ma accelera anche il nostro progetto d’integrazione mirato a creare un costruttore globale, efficiente e competitivo".
E’ evidente che l’ad della Fiat, fabbrica italiana automobili Torino si ritiene soddisfatto e appagato di quanto avviene negli Usa. Non solo la casa torinese ha restituito, onorabilmente e cavallerescamente, il prestito di Obama per salvare la casa automobilistica americana, ma sta anche lavorando per rilevare la quota canadese della stessa casa automobilistica per la modica cifra di 125 milioni. Questo significa in soldoni che la Fiat, dopo aver usufruito dei soldi degli americani a buon mercato, dietro la promessa di salvare il colosso americano e con esso l’occupazione, potrà per il futuro intascare i guadagni dell’attività della casa automobilistica americana privatamente, mantenendo però invariate le condizioni economiche e normative dei lavoratori, fin troppo fortunati ad avere un lavoro.
Perché la stessa cosa non si può fare in Italia? Perché qualcuno deve cambiare atteggiamento dice Marchionne. Chi deve cambiare atteggiamento? Questo il manager non lo dice, ma è evidente: devono cambiare atteggiamento quei sindacati (Fiom in testa) e quei lavoratori che pretendono cose assurde: di essere trattati come persone e non solo come strumenti di profitto, di percepire salari dignitosi (1.000 o 1.200 euro mensili), orari e pause di lavoro umanamente sopportabili, assistenza in caso di malattia oppure diritto di scioperare. Sono queste le pretese assurde, che bloccano lo sviluppo e l’occupazione. E’ questa l’ingratitudine. La Fiom e i suoi seguaci non vengano poi a lamentarsi pretendendo assurdità incompatibili. Il povero (si fa per dire) e incompreso Marchionne non si capacita che tutto ciò non sia capito: anzi, mentre in America è ringraziato, in Italia, il meschino, viene insultato. Del resto cosa sono i miseri compensi milionari, e stock option multimilionarie, che l'ad percepisce e che ben si guarda dal socializzare con i lavoratori.
A confortare Marchionne ci pensa il ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali, Maurizio Sacconi, il quale ha dichiarato testualmente che all'amministratore delegato del gruppo Fiat “si oppongono, in una non originale sintonia, il sindacato conservatore, settori ideologizzati della magistratura e ambienti delle borghesie bancarie. Un’alleanza minoritaria che più volte ha rallentato il progresso”.
Secondo “l’innovatore e progressista nonché socialista”(?) e mistificatore interessato, ministro del lavoro, sarebbe la Fiom, sindacato conservatore (colpevole di aver la superata, improduttiva e non competitiva abitudine di difendere i lavoratori e i deboli) e settori ideologizzati (forse vetero-comunisti o marxisti-leninisti) o addirittura le banche (?) a rallentare il progresso (di chi?).
I lavoratori sono perciò avvertiti: le loro sofferenze sono causate da loro stessi se si oppongono e non dall’ingordigia e dalla prepotenza dei poveri industriali, amministratori delegati e ministri (non senza portafoglio), che invece sono per il progresso e lo sviluppo. Il loro.