lunedì 16 dicembre 2013

La sinistra e le classi

Alcune considerazioni attorno all’evoluzione politica di Rifondazione Comunista. Il partito è nato con l’obiettivo di rifondare il comunismo, arriva a registrare però, nel documento conclusivo del suo IX Congresso “l’assenza del conflitto sociale organizzato”. Non è questa una considerazione di secondaria importanza, ma il sintomo di una grave sconfitta per un partito di classe che ha l’ambizioso progetto di cui sopra. Allora o non esistono i presupposti di un conflitto sociale o il partito è incapace di interpretarlo, orientarlo e dirigerlo, visto che periodicamente questo conflitto esplode, anche se in forme e modi non sempre ortodossi come ad esempio con il “fenomeno Grillo “ o con quello dei forconi. Questa incapacità ha determinato il rischio che la protesta sia cavalcata dalla destra più becera e nera o da un populismo interclassista da uomo qualunque. A proposito delle ricorrenti difficoltà dei gruppi dirigenti dei partiti è utile rileggere un testo di Antonio Gramsci che sembra scritto oggi (Quaderno 3, nota 48. Passato e presente. Spontaneità e direzione consapevole) afferma: "... Trascurare o peggio disprezzare i movimenti cosi detti "spontanei", cioè rinunciare a dare loro una direzione consapevole, a elevarli a un piano superiore, inserendoli nella politica, può avere spesso conseguenze molto serie e gravi. Avviene quasi sempre che ad un movimento "spontaneo" delle classi subalterne si accompagna un movimento reazionario della destra della classe dominante, per motivi concomitanti. Una crisi economica, per esempio, determina malcontento nelle classi subalterne e movimenti spontanei di massa da una parte e dall'altra complotti dei gruppi reazionari che approfittano dell'indebolimento obiettivo del governo per tentare colpi di stato. Tra le cause efficienti è da porre la rinuncia dei gruppi responsabili a dare una direzione consapevole." Rinuncia dovuta " alla paura delle responsabilità concrete, nessuna riunione con la classe rappresentata, nessuna comprensione dei suoi bisogni fondamentali, delle sue aspirazioni, delle sue energie latenti, c'è un partito paternalistico di piccoli borghesi che fanno le mosche cocchiere..." “Il comunismo è un insieme di idee economiche, sociali e politiche, accomunate dalla prospettiva di una stratificazione sociale egualitaria, che presuppone la comunanza dei mezzi di produzione e l'organizzazione collettiva del lavoro, spesso affiancando a questi fondamenti anche opzioni internazionaliste”. Questa è una definizione data dalle enciclopedie al termine comunismo. Secondo questa definizione compito dei comunisti è costruire linee e azioni politiche, sociali ed economiche tese al perseguimento dell’uguaglianza fra i cittadini e i lavoratori di un paese e del mondo partendo dal presupposto che uguaglianza non c’è. Questa necessità si evidenzia oggi più che mai perché le differenze sociali invece di diminuire crescono e si cristallizzano. Compito dei comunisti sarebbe allora analizzare la realtà sociale ed economica e attivare tutte le iniziative necessarie per perseguire l’obiettivo dell’uguaglianza. Vedere come la realtà sociale influisce nel determinare o meno le differenze sociali, quali classi ne subiscono le conseguenze e quali invece ne traggono benefici. Nel documento del IX congresso di RC si evidenzia l’esistenza della crisi: “Una crisi che vede drammaticamente crescere il divario e insopportabili disuguaglianze fra aree del paese e classi sociali. Una crisi che colpisce le fasce più deboli della popolazione, fra cui giovani, donne, con una disoccupazione ai massimi storici e una precarietà divenuta esistenziale”. Viene individuato poi il che fare, in cosa si deve impegnare cioè RC:” Nella costruzione di un movimento di massa contro l’austerità, il PRC deve impegnarsi nel ridare centralità al conflitto sociale e di classe. I caratteri della crisi dimostrano l’attualità della critica marxista dell’economia politica e delle teorie economiche dominanti, della centralità del conflitto di classe, pur nelle rinnovate forme derivate dalla nuova composizione sociale del blocco sociale di riferimento”. E’ proprio in queste affermazioni che si rivela la debolezza dell’impianto di analisi. Si denuncia cioè l’esistenza di un conflitto di classe, ma non sono individuate le classi in conflitto, né in che modo si manifesta il conflitto stesso. Non si individua soprattutto chi è che determina la crescita della disuguaglianza sociale che si denuncia. Se la crisi fa crescere il divario sociale significa che c’è chi vede peggiorare le proprie condizioni economiche e sociali, mentre altri invece le migliorano. Chi sono gli uni e chi gli altri? Quali sono le classi in conflitto? Come si manifesta inoltre il conflitto stesso? E’ sufficiente individuare come fasce deboli i giovani, le donne e i disoccupati? Tutti i giovani?, Tutte le donne? A prescindere dalla loro condizione economica e sociale? La crisi ha inciso allo stesso modo su tutti i giovani e su tutte le donne oppure alcuni di loro non hanno risentito per niente della crisi, anzi hanno migliorato le proprie condizioni economiche? Se è così allora la crisi non ha colpito tutti i giovani e le donne ma solo alcuni. Ai giovani e alle donne vanno, però aggiunti tutti quelli che, a prescindere dall’età e dal sesso, non sono più in condizione di garantire a se stessi e ai propri cari un’esistenza libera dal bisogno e dignitosa: I disoccupati, i cassintegrati, i licenziati o i collocati in mobilità, i pensionati e tutti quelli che anche se hanno un lavoro sono costretti alla fame e alla miseria. Si può sostenere che tutti quelli che hanno pagato i costi della crisi appartengano alla stessa classe dei discriminati o dei nuovi proletari mentre quelli che hanno approfittato appartengano a un’altra classe: quella dei privilegiati perennemente in lotta per mantenere la condizione acquisita? La crisi, come dicono tutti gli indicatori economici, ha determinato un immenso spostamento di ricchezza a danno dei discriminati e a vantaggio dei vecchi e nuovi ricchi: I capitalisti di sempre, gli industriali, i ricchi e i padroni. Come hanno fatto questi ultimi a imporre “democraticamente”: Il taglio dei salari e delle pensioni, la disoccupazione, un sistema fiscale iniquo e di classe che dissangua i redditi fissi, il taglio non degli sprechi e delle ruberie ma della spesa pubblica a partire dallo stato sociale, sanità scuola, servizi e del decentramento amministrativo, senza scatenare un conflitto sociale. La politica economica di costoro si è imposta perché non è stata contrastata ne sul piano politico ne sul piano sociale. Non è stato denunciato l’egoismo e l’ingordigia che ha determinato il loro privilegio. Essi infatti spostano i loro capitali e aziende senza una opposizione di classe. E’ diventato prassi normale, grazie alla loro propaganda di classe, che un giovane sia senza lavoro, senza salario e futuro, mentre un vecchio sia costretto a subire con salari di fame e a lavorare fino alla fine dei suoi giorni. E’ diventato normale che anche davanti a una disoccupazione a limiti insopportabili, le aziende possano sotto pagare, precarizzare o condizionare il lavoro in base alla militanza politica dei propri dipendenti. Nessuno ha pensato di proporre, al momento del taglio delle pensioni, ad esempio, un limite ai profitti o imporne il reinvestimento per creare posti di lavoro. Il Parlamento di tecnici e partiti, al soldo dei capitalisti, con il loro operato e la loro demagogia fintamente interclassista, hanno tagliato solo da una parte, salari e diritti ai lavoratori per “salvare il Paese”, dall’altra hanno invece consentito alle imprese e ai padroni e ai privilegiati in generale, la massima libertà di azione e sfruttamento, per piegare i lavoratori a salari e condizioni di lavoro ai limiti della schiavitù. Se diminuisce il “costo del lavoro”, non si incrementa l’occupazione ma il profitto e si è visto. Le “riforme” Treu e Biagi, che precarizzano il lavoro, la “riforma” Fornero, che demolisce lo stato sociale, non sono leggi sbagliate, che alla luce dei fatti non hanno risolto il problema dell’occupazione giovanile, tutt’altro. Sono operazioni di classe attraverso le quali il padronato, servendosi del ceto politico e delle istituzioni, toglie diritti, libertà e reddito ai lavoratori per destinarli al profitto dei capitalisti che spadroneggiano nelle loro aziende e aumentano i loro profitti con i risparmi connessi. Queste, e tutte le altre “riforme”, che hanno peggiorato le condizioni dei lavoratori e pensionati, non sono il risultato di una politica di austerità per tutti. Sono viceversa gli strumenti attraverso i quali il padronato ha imposto i propri interessi, con il beneplacito di quella sinistra che si ostina a parlare di austerità o di quella che ha tradito. E’ prevalsa incontrastata sia sul piano culturale sia economico una linea di classe che ha favorito i ricchi e i padroni e danneggiato i nuovi proletari. La sinistra non ha inciso nei processi o si è invischiata in discorsi fumosi, da salotto e da elite. Ad affossare le condizioni economiche e i diritti dei discriminati non è l’austerità come è affermato nel documento congressuale Rc: “ L’austerità colpisce i diritti sociali anche attraverso il patto di stabilità imposto agli enti locali”. L’austerità è dovuta certamente alle politiche finanziarie dell’UE e delle banche, ma è soprattutto il risultato di un sistema economico, egoista e di classe che agisce con le logiche del mercato e che ritiene giusto e possibile che ci sia chi si possa arricchire a dismisura mentre altri non siano costretti a vivere senza nemmeno il necessario. Sono le leggi del mercato. Non va costruito quindi un movimento di massa contro l’austerità, ma contro coloro che determinano la crisi e la sfruttano a proprio vantaggio. Questi sono i grandi industriali a partire dalla Fiat e tutti quelli che, per il loro profitto e tornaconto, chiudono le loro aziende e de localizzano per andare a sfruttare discriminati (proletari) di altri paesi. Sono le banche e il capitale assicurativo e finanziario che investono se e dove a loro conviene. Costoro non sono costretti ad alcuna austerità e non subiscono la crisi. Invece di socializzare le perdite e privatizzare i profitti, come è stato fatto, va lanciata una politica di alternativa sociale e di classe. Va lanciata una campagna per la redistribuzione della ricchezza, vanno tassati i patrimoni, vanno rinnovati i CCNL con forti aumenti contrattuali, va ripristinata la scala mobile, va abolito il sostituto di imposta per i soli redditi fissi e vanno fissate imposte fortemente progressive sui patrimoni, vanno abolite le leggi Treu e Biagi, va cancellata la “riforma” delle pensioni Fornero, va ripristinato l’art. 18, ecc. Questo potrà essere possibile solo attraverso la chiara denuncia dell’esistenza dell’ingiustizia sociale e dello scontro di classe in atto e la costruzione di una forte opposizione sociale. Scontro sociale che vede il padronato all’attacco deve vedere i lavoratori alla riscossa e alla lotta invece che disorientati da sindacati e da una sinistra che li hanno svenduti alle ragioni del mercato e delle compatibilità capitaliste. Vanno perciò denunciati come nemici di classe coloro che attuano le politiche di sottomissione culturale, sociale ed economica dei lavoratori. Va denunciato chi, sotto la pelle di pecora di amico dei lavoratori, collabora attivamente per far passare il disegno di classe del padrone. La loro politica mercantile, sia in campo economico sia politico e sociale rappresenta lo strumento di sopraffazione di classe dei capitalisti sui proletari. Contro di essa va costruita la più larga opposizione, mobilitazione e lotta. Contro di essa va costruito il conflitto sociale su basi di classe. Questo sarà possibile se alle teorie incontrastate del mercato e del liberismo, la sinistra e i comunisti vorranno e sapranno contrapporre le loro teorie a partire da quelle dell’uguaglianza e della libertà dal bisogno e dal conseguente superamento della proprietà privata dei mezzi di produzione.

lunedì 28 ottobre 2013

Una sinistra che non cambia è di destra

E’ una battuta a effetto, pronunciata spudoratamente e spavaldamente da un “moderno e innovatore” astro nascente della “sinistra”. Il suo modernismo e la sua innovazione si misurano nelle capacità di svendita e di tradimento dei diritti e degli interessi dei discriminati. E’ l’assenza di una sinistra vera a determinare che personaggi e soggetti politici della destra più retriva passassero per innovatori e artefici di cambiamento. La politica oggi è fatta non da persone o soggetti politici che hanno qualcosa da dire, ma da personaggi di spettacolo, cabarettisti, comici e imbonitori, al servizio dei ricchi e dei privilegiati, che con la maschera di innovatori e per gli interessi del Paese, cercano con ogni mezzo di abbagliare i cittadini per far digerire loro le politiche antipopolari basate sulla discriminazione sociale che hanno condannato e portato la massa degli italiani alla fame, alla miseria e all’assenza di libertà. Tutto questo è stato possibile grazie all’assenza di progetti e soggetti politici alternativi, che avessero gli strumenti di analisi utili a denunciare l’imponente attacco di classe in atto ai danni dei lavoratori. Questo ha fatto si che il modello liberista con le sue leggi spietate delle compatibilità del mercato, le “riforme”, le privatizzazioni, i tagli sulla spesa pubblica, che hanno distrutto e azzerato i diritti e le condizioni economiche dei lavoratori, disoccupati e pensionati, potessero diventare accettabili e quindi considerate necessari per “uscire dalla crisi” nonché strumenti di modernità e innovazione per il bene di tutti. Grazie a questi truffatori sociali sono potute passare politiche antipopolari che in questi ultimi decenni hanno prodotto il più grande spostamento di ricchezza immaginabile a vantaggio di pochi privilegiati e a danno di tanti discriminati. Il ceto politico ed economico si è permesso anzi ha alimentato, privilegi e ricchezze spropositate insultanti a vantaggio di pochi “fortunati”, nello stesso tempo ha condannato la stragrande massa di cittadini alla fame, alla miseria e alla disperazione. I salari e le pensioni, per chi è fortunato di averli, vedono il loro potere di acquisto continuamente eroso dall’inflazione, perché scoperti da indicizzazioni e contingenza. Stipendi e pensioni, in barba alla decantata Costituzione, non sono sufficienti a garantire alcuna vita dignitosa a chi li percepisce. I giovani e chi perde il lavoro non hanno alcuna prospettiva e il loro futuro è azzerato. Essi sono completamente in balia della prepotenza padronale. Padronato che utilizzando l’arma del ricatto economico e del lavoro, approfitta dell’aiuto della “sinistra che cambia e si rinnova” (sindacati e partiti) impone i suoi interessi e convenienze per far passare le proprie linee e politiche. E’ stato così cancellato senza colpo ferire il diritto a una sanità e una scuola gratuite e uguali per tutti. I tagli sulla spesa pubblica, lungi dall’incidere sul debito pubblico che continua a crescere, cancellano servizi e civiltà. Tutto questo mentre il sistema fiscale iniquo e discriminatorio anch’esso, vessa e deruba i redditi fissi con pugno di ferro mentre grazia tutti gli altri redditi. Il lavoro è sempre più condizionato alla rinuncia di diritti e salario. Tutto questo non è determinato dalla crisi. La crisi è il pretesto per legare al carro del capitalismo italiano e mondiale e alle convenienze dei capitalisti e del mercato il tenore di vita, i diritti e le speranze della classe degli oppressi e degli sfruttati. Quello che ai capitalisti conviene, che fa aumentare i loro potere, i loro profitti e guadagni, diventa legge: L’azzeramento del sistema pensionistico, la precarizzazione dei rapporti di lavoro, la cancellazione del sistema sanitario e scolastico nazionali, i diritti dei lavoratori, il diritto alla casa e a un ambiente sano, ecc. Le divisioni e le differenze sociali sono cresciute perché la crisi non ha riguardato tutti ma solo la gran massa di cittadini. Per pochi privilegiati non c’è stata mai crisi. Essi hanno continuato e continuano ad arricchirsi, a percepire profitti, rendite e ricchezze enormi e senza vincolo o limite mentre impongono a tutti gli altri restrizioni e tagli insopportabili. Dove sta la sinistra? Quella sinistra che si batte in difesa degli oppressi e contro gli oppressori. Quella sinistra di classe che si schiera a fianco dei discriminati contro il privilegio e la rendita di cui denuncia l’iniquità e l’ingiustizia. Quella sinistra che individua nel superamento della proprietà privata dei mezzi di produzione, la condizione per la costruzione di una società di diversi e uguali. Quella che non rinnega le sue origini, le sue lotte e le sue bandiere. Quella sinistra che non imbroglia che non inganna i lavoratori, i disoccupati e i pensionati, facendo credere loro di condurli verso il futuro e il benessere, mentre li tradisce e lega i loro bisogni e le loro aspettative al carro degli interessi degli speculatori, profittatori e prevaricatori padronali e dei loro servi politici. Servi capaci di imbonire il popolo facendogli credere che se si muore di fame è per il bene del Paese e per la collettività. La Costituzione non può essere considerata un feticcio immodificabile lasciando solo alla destra conservatrice che mai l’ha digerita e che oggi coglie l’occasione per spostarne l’asse ancora di più a destra, la bandiera del cambiamento. La Costituzione può essere veramente cambiata e innovata anche e soprattutto da sinistra, cancellando ad esempio gli artt.41 e 42 che riconoscono e garantiscono la proprietà privata, e determinano le condizioni e i caratteri della società capitalista attuale che è costruita sull’ineguaglianza, sullo sfruttamento e sull’ingiustizia sociale operati da pochi a danno di tutti gli altri. Questi due articoli cancellano tutti gli altri a partire dall’art. 1 diritto al lavoro (diritto che la Costituzione riconosce ma non garantisce, altra modifica necessaria) e dalla garanzia a una retribuzione equa e capace di assicurare a sé e alla famiglia un'esistenza libera e dignitosa. Questo potrebbe essere un obiettivo di lotta qualificante su cui ricostruire un’identità alternativa e antagonista al sistema su basi di classe e di sinistra.

martedì 17 settembre 2013

Una Costituzione assolutamente meravigliosa

Il tentativo di stravolgere la Costituzione italiana, e di spostarne l’asse su posizioni restauratrici, messo in atto, su incarico del padronato, da parte di una classe politica priva di alcun mandato e completamente screditata nell’opinione pubblica, ha determinato la proliferazione di comitati in difesa della Costituzione. Comitati che coinvolgono anche figure rappresentative e dignitose della sinistra italiana oltre a quei cittadini che vedono in pericolo principi fondamentali della libertà e della democrazia. Difendere la Costituzione dagli attacchi rappresenta, per questi comitati, una battaglia determinante che va combattuta sulla quale tentare di ricostruire una qualche soggettività politica di sinistra. Questa sinistra assume cioè come manifesto la difesa dei principi di libertà, uguaglianza e democrazia sanciti dalla Costituzione che, in questo modo diventa bene assoluto e punto più alto di civiltà e progresso realizzabile. Questa scelta esclude altri modelli costituzionali utili a garantire diverse forme di libertà e di uguaglianza, a partire dal comunismo. Non occorre addentrarsi in un confronto ideologico, come avvenne al decimo congresso del Partito Comunista Italiano con la polemica fra l’allora segretario Togliatti e i dirigenti del Partito Comunista Cinese di Mao Tse Tung, per rendersi conto che certamente qualcosa che non va c’è stato e c’è. La Costituzione italiana è nata dalla Resistenza e afferma solennemente dei principi di libertà, uguaglianza e democrazia assolutamente condivisibili, anche se essa quando fu pensata rappresentò il punto massimo di mediazione e di compromesso specie per quelle forze partigiane che avevano lottato e dato la vita per un obiettivo ben diverso da quello realizzato, quello della nascita di una società socialista in Italia. La realtà ci dimostra che tali principi sono rimasti soltanto delle vuote enunciazioni e non hanno trovato applicazione in Italia in questi 65 anni. Perché le ingiustizie e le differenziazioni o discriminazioni sociali invece che diminuire sono aumentate. Perché i ricchi sono sempre più ricchi e la povertà è in aumento. Perché esiste la disoccupazione che è in continua crescita. Perché sono cancellati principi e diritti elementari di uguaglianza e civiltà come quello al lavoro o a una sanità e una scuola uguali per tutti. Perché è stato precarizzato il rapporto di lavoro. Perché sono state tagliate le pensioni e aumentate le età pensionabili. Perché non si sono mai colpiti i grandi patrimoni, ricchezze e privilegi che sono continuati ad esistere e prosperare. Perché il sistema fiscale colpisce solo i redditi fissi. Si potrebbe continuare. La causa sta nell’art. 42 della Costituzione. Esso prevede testualmente: ” La proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla legge”. Questo semplice articolo ha determinato la completa vanificazione e l’annullamento di quei principi di libertà e uguaglianza che la Costituzione stessa sancisce. Com’è possibile solo pensare che ci possa essere uguaglianza fra chi possiede beni e chi non ne possiede? Fra chi è in lotta per la sopravvivenza e non ha nemmeno i mezzi per garantire a se stesso e ai propri cari un’esistenza dignitosa e chi non sa nemmeno a quanto ammontano le proprie ricchezze? E’ vero che esistono articoli appositi che prevedono l’intervento dello Stato a favore di chi è costretto a lavorare perché non possiede affatto proprietà o ne possiede in misura insufficiente per consentire a questi di essere ugualmente liberi o addirittura consentire loro l’accesso al diritto alla proprietà. L’art. 36 recita infatti: ” Il lavoratore ha diritto a una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un'esistenza libera e dignitosa. La durata massima della giornata lavorativa è stabilita dalla legge. Il lavoratore ha diritto al riposo settimanale e a ferie annuali retribuite, e non può rinunziarvi”. All’apparenza sembrerebbe che la Costituzione non tuteli solo il diritto della proprietà ma anche quello di coloro che proprietà non hanno! Il principio sembrerebbe giusto. Solo che nella realtà mentre la proprietà, a partire da quella sui mezzi di produzione è effettivamente garantita dalla legge e dalle forze dell’ordine; il diritto a un lavoro e a una retribuzione equa e sufficiente, no e tantomeno quello del godimento di ferie riposi, malattie, maternità, ecc. no. Ne sa qualcosa chi lavora oggi in condizioni economiche e normative che sono state rese flessibili e compatibili con le esigenze di guadagno delle imprese e dei padroni, e del mercato. E’ un dato di fatto che anche chi ha la fortuna di avere un lavoro percepisce una retribuzione di sotto il livello di povertà e comunque insufficiente. I lavoratori non hanno più diritto al posto fisso. I licenziamenti individuali sono tornati a essere arbitrari. Per licenziare non sono più necessari giusta causa o giustificato motivo. Con queste norme reintrodotte tutti i lavoratori sono diventati precari, senza un salario adeguato e senza quei diritti conquistati a prezzo di dure lotte. Con queste “riforme” il “datore di lavoro” ha svelato il suo vero volto: Quello di padrone. Addirittura il padronato è tornato a scegliersi gli interlocutori sindacali che più gli aggradano con la complicità fattiva di Cgil, Cisl e Uil che hanno tradito i lavoratori lasciandoli privi di tutela e hanno collaborato con il padronato nell’opera di smantellamento delle conquiste sindacali. Ne sanno qualcosa anche i pensionati le cui pensioni, la maggioranza, sono al di sotto del limite di povertà e scoperte anch’esse da ogni strumento di tutela contro l’inflazione. Se però per alcuni la libertà è diminuita, è aumentata quella degli altri, di quelli che essendo esenti dal bisogno, non hanno la necessità di lavorare alle dipendenze di qualcuno: Essi anzi impongono a tutti i propri voleri e interessi. L’art. 3 della Costituzione recita: ”È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e la uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese” E’ quanto sta avvenendo? Se esistono ostacoli che limitano la libertà e l’uguaglianza…, a partire dal diritto al lavoro, lo Stato cosa ha fatto finora per l’occupazione? Ha tagliato i salari, pensioni e diritti ha cancellato la scala mobile e annullato lo stato sociale, mentre ha favorito il profitto, la ricchezza e il privilegio di pochi. L’uguaglianza che il padronato e i governi che si sono succeduti intendono realizzare parte proprio da ciò. Il diritto al lavoro dei discriminati si può realizzare solo attraverso il loro arretramento economico, politico e sociale. E’ così che secondo costoro si rispetta il dettato costituzionale. Le leggi Treu e Biagi che precarizzano il lavoro non vanno forse in questa direzione? La “Riforma delle pensioni” ultima quella operata dal Governo Monti, non è forse in linea con questa politica di classe che sposta la ricchezza dalle tasche di molti in quelle di pochi? Rapportare cioè il tenore di vita, le retribuzioni, le pensioni e i diritti alle compatibilità economiche di chi possiede proprietà, alle sue brame insaziabili di arricchimento e profitto, rappresenta la priorità del diritto alla proprietà, alla sua integrità e al suo incremento rispetto a quello di tutti gli altri cittadini privi di proprietà e di mezzi per vivere e quindi condannati per questo al continuo arretramento sociale e alla povertà. L’art. 4 riconosce certo il diritto al lavoro: ”La Repubblica riconosce a tutti i cittadini, il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto”. Nel mentre il diritto alla proprietà e al profitto sono garantiti dallo Stato, questo non avviene per il diritto al lavoro che non è garantito ma solo riconosciuto. Non garantire il diritto al lavoro, significa impedire al singolo cittadino privo di proprietà di essere eguale agli altri a causa delle sue condizioni personali e condannarlo ad una perenne subalternità sociale. Perché nessun Presidente della Repubblica, figura garante della Costituzione, è intervenuto a difesa del diritto al lavoro del singolo cittadino, se questo è lo strumento della sua libertà? In sostanza se esistono differenze economiche e di reddito, questo vuole dire che le libertà e i diritti dei cittadini dipendono solo dalla loro condizione economica e che essi sono detentori di libertà e di diritti differenti, direttamente rapportati alla quantità o meno delle proprietà possedute. In questo modo, l’impegno teorico della Repubblica di rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che limitano la libertà e l’uguaglianza …. dove va a finire? Si accetta semplicemente la differenziazione sociale come un dato di fatto immutabile. Come d’altra parte è sostanzialmente avvenuto dal 1948 in poi. I principi di uguaglianza della Costituzione si stanno dimostrando per quello che realmente sono: Affermazioni valide ma solamente teoriche e completamente inapplicate. Chi e cosa ha impedito la loro realizzazione? Chi è che cosa ha permesso che della Costituzione prevalesse su tutti gli altri solo il diritto alla proprietà? Si perché è un dato di fatto che è prevalso il diritto alla proprietà. Questo diritto liberista è antitetico con il diritto all’uguaglianza, alla libertà e alla democrazia per i cittadini privi di proprietà. I partigiani hanno combattuto nella Resistenza per realizzare questo? Difendere semplicemente la Costituzione da chi vorrebbe addirittura modificarla in senso peggiorativo, diventa perciò una battaglia perdente di difesa e di retroguardia che oltretutto nega la possibilità di altre forme di stato possibili, a partire dal comunismo. Occorre modificare la Costituzione. Occorre garantire il diritto alla libertà e all’uguaglianza dei cittadini e questo può avvenire solo slegandolo dalle condizioni economiche e sociali. Eliminando pertanto il diritto alla proprietà a partire da quella dei mezzi di produzione.

lunedì 3 giugno 2013

Confindustria si sceglie i sindacati che più gli convengono: Cgil Cisl Uil

Il 31 maggio 2013 è stato sottoscritto un cosiddetto “accordo interconfederale” fra le confederazioni “dei lavoratori” e quelle dei “datori di lavoro”. Un accordo di questo tipo poteva essere giustificato negli anni ’60 o ’70, quando il sindacato, in particolare la Cgil, era controparte del padronato. Quando la Cgil tutelava e rappresentava appieno i diritti dei lavoratori e da questi era riconosciuta e non c’era bisogno, come ora di organizzazioni sindacali diverse o di base come ora. Quando non era necessario stabilire dei criteri di rappresentanza, perché l’adesione al sindacato avveniva non tramite delega, ma con un contatto diretto e continuo. Quando l’iscritto pesava nelle decisioni da prendere. Quando era la partecipazione alle lotte e agli scioperi contro le logiche di sfruttamento padronali a stabilire il livello di rappresentatività dei singoli sindacati e a dimostrare il reale seguito e rappresentatività di ogni sindacato. Il padrone non poteva scegliersi, come ora, la controparte con accordi interconfederali. Certo le discriminazioni e le persecuzioni sindacali erano molte, ciononostante il padrone era costretto a contrattare con chi altrimenti decideva ed aveva la forza di bloccargli la produzione colpendolo sul suo punto debole: I soldi. Non certo questo avveniva con chi aveva più deleghe di pagamento della quota sindacale come avviene ora e come si rafforza con l’ultimo “accordo interconfederale”. L’avvento della riscossione delle quote sindacali per delega ha coinciso con l’inizio della burocratizzazione del sindacato, del suo distacco dai lavoratori, con la fine delle lotte e dell’antagonismo sindacale, con l’arretramento economico e sociale dei lavoratori e la loro sconfitta. Il sistema delle deleghe ha tolto ai lavoratori la possibilità di incidere nella vita del sindacato, negli accordi con la controparte padronale, nella costruzione delle linee sindacali e nell’individuazione degli stessi vertici sindacali ai vari livelli. I risultati si toccano oggi con mano. Le certezze economiche garantite dal regolare afflusso di fondi unito ai distacchi sindacali, determinarono lo svilupparsi di un ceto sindacale che non rispondeva più ai lavoratori, ma ai vertici sindacali e tramite di essi era ed è riconosciuto dagli “interlocutori” imprenditoriali. Il meccanismo della delega è degenerato al punto che, in alcuni settori sindacali come i braccianti e i pensionati, l’iscrizione avviene da sempre senza il consenso esplicito dell’interessato, ma con la presentazione di semplici prestazioni d’assistenza (domande di disoccupazione, di pensione, ecc.) mentre per tutti gli altri settori, dagli edili, le deleghe sottoscritte valgono e vita, a meno di un’esplicita revoca e non subiscono alcuna verifica, nemmeno in caso di contrattazioni sindacali di qualsiasi tipo. Questo ha determinato, nel tempo, il distacco del sindacato dai lavoratori, il lento crescere di logiche burocratiche di componente politica o di gruppo, ed ha reso indipendenti i funzionari dai lavoratori, legandoli ai livelli sindacali immediatamente superiori, cui rendere conto, perché da questo dipende lo stipendio o la conferma o meno del distacco sindacale. A loro volta i massimi vertici sindacali sono riconosciuti e determinati, non dai lavoratori, ma dalla controparte che li riconosce o meno e che costruisce con essi, anche con il sistema degli organismi paritetici, una politica sindacale “moderata” più confacente ai loro interessi e convenienze. Chi possiede questi pacchetti di tessere controlla organismi e determina le strategie sindacali, le trattative, gli “accordi” e l’esito di consultazioni, quelle rare volte che vengono attuate. In base a queste “strategie” di “relazioni sindacali” c’è bisogno di finanziare il sindacato attraverso un meccanismo staccato dal consenso, e dalla partecipazione dei lavoratori: Le deleghe. A questo si aggiungono altre fonti di finanziamento del sindacato che rendono, economicamente, quasi superfluo il pagamento della tessera d’iscrizione dei lavoratori al sindacato. I patronati sindacali inoltre sono finanziati dallo Stato, in base alle pratiche lavorate. Lo stesso dicasi per i Caaf, centri di assistenza fiscale. E’ chiaro che, grazie a queste entrate certe e garantite, si può fare a meno del consenso. E’ chiaro che con questi sistemi di costruzione dei “dirigenti” o del “consenso” sindacali è stata decretata la fine delle lotte e con essa della difesa degli interessi dei lavoratori, con grande gioia della Confindustria. “L’accordo interconfederale” si guarda bene dal mettere in discussione le deleghe, e non poteva essere diversamente, prevedendone ad esempio la verifica attraverso l’obbligatorietà del loro rinnovo. Oppure legando il livello di rappresentatività di ciascuna organizzazione solo ai voti ottenuti in occasione dei rinnovi delle RSU. Al contrario proprio sulle deleghe esistenti si costruisce la base della “nuova forma di rappresentatività sindacale”. Proprio grazie a ciò si garantisce alla Confindustria “l’interlocutore” che più gli aggrada premiandolo. Nel testo dell’accordo si prevede, infatti, che esso possa riguardare esclusivamente “ le organizzazioni sindacali (federazioni di categoria) aderenti alle Confederazioni firmatarie della presente intesa, o che comunque a essa aderiscano” escludendo dalla possibilità di essere riconosciuta come soggetto trattante, qualsiasi organizzazione sindacale di base o al di fuori dei sindacati riconosciuti e sgraditi al padronato. La stessa costruzione della “trattativa” è avvenuta senza alcun mandato e coinvolgimento dei lavoratori. “L’accordo” sindacale è stato raggiunto clandestinamente e non sarà sottoposto all’approvazione e giudizio di essi. La realtà è che questo è l’ennesimo “accordo sindacale” che passa sulla testa e sulla pelle dei lavoratori, dei pensionati e dei disoccupati perché accentua l’istituzionalizzazione e il corporativismo di un sindacato che ha dimenticato e tradito gli interessi di chi lavora e dei discriminati e che tenta di impedire loro la costruzione di sindacato che stiano veramente dalla loro parte e non da quella del mercato e dei capitalisti.

venerdì 24 maggio 2013

SQUINZI (Presidente Confindustria): NON SIAMO LA CASTA MA LA CASA DEL CAPITALISMO REALE

La rivendicazione fatta dal presidente Confindustria è eclatante ma non inedita. Il padronato presenta con brutalità la realtà: Se il Paese vuole uscire dalla crisi, occorre dare mano libera agli industriali, campioni dell’innovazione e del sistema produttivo. Non solo occorre diminuire ancora il costo del lavoro, ma in più va contrastata “la mancanza del lavoro è la madre di ogni male sociale”, ha tuonato ancora Squinzi. Essa va affrontata in maniera strutturale e con equilibrio, intervenendo anche sulla produttività e le regole. Le imprese “sono pronte a supportare l'azione del governo con investimenti e occupazione” Occorre, ha aggiunto, “riformare” poi il fisco italiano “punitivo” per le imprese. Un fisco che è "quanto di peggio si possa immaginare” e che "scoraggia gli investimenti e la crescita". “Chiediamo un fisco a supporto di chi crea ricchezza e la distribuisce, trasparente e rispettoso dei diritti dei cittadini e delle imprese. Questo lo aspettiamo e il paese lo merita” ha aggiunto Squinzi. Infine le banche. Negli ultimi 18 mesi lo stock di prestiti erogati alle imprese è calato di 50 miliardi: un taglio senza precedenti nel dopoguerra. Quasi un terzo delle imprese ha liquidità insufficiente rispetto alle esigenze operative. Dobbiamo contrastare la terza ondata di credit crunch. Il premier Enrico Letta, intervenuto subito dopo, ha replicato: “Siamo dalla stessa parte (del capitalismo reale), la politica forse troppo tardi ha capito la lezione, ma ora deve applicare quello che ha capito”. Il presidente della Confindustria, in un solo fiato con i rappresentanti del Governo e una schiera di ministri ossequianti, ha potuto presentare in sostanza all’intero Paese e per l’ennesima volta, la sua lista dei desideri, condita con un demagogico, finto e insultante nazionalismo, proprio mentre rivendica i meriti di classe (?) dei capitalisti italiani. Il tentativo è di dare ad intendere ai discriminati, che gli imprenditori sono colpiti dalla crisi e dal fisco proprio come tutti gli altri cittadini. Se c’è la crisi, se il nord è sull’orlo del baratro, a rimetterci sarebbero tutti, padroni e sfruttati, perché tutti sarebbero sulla stessa barca e condividerebbero lo stesso destino. La falsità e la demagogia di tutto ciò sono enormi: Squinzi nel rivendicare l’appartenenza alla casa del capitalismo reale, dimentica volutamente di dire che sono proprio il mercato e il capitalismo reale a determinare la crisi e che approfittando di essa il padronato ha operato un’enorme redistribuzione della ricchezza a danno di lavoratori e pensionati e a vantaggio di pochi capitalisti. Squinzi si lamenta per la mancanza di lavoro. Non sono proprio le politiche del padronato protese alla ricerca massimo profitto ad ogni costo, anche attraverso le speculazioni finanziarie, distruggendo l’ambiente e la salute dei cittadini o riducendo in schiavitù chi lavora, a determinare la mancanza di lavoro? Perché la Fiat invece di costruire macchine in Serbia, Polonia, Usa, ecc, sottopagando la manodopera non le fabbrica in Italia? Perché le imprese tessili italiane, che rivendicano il marchio e il made in Italy, invece di confezionare i capi in Bangladesh con manodopera a trenta euro al mese per 18 ore giornaliere di lavoro e in condizioni disumane non producono i loro capi in Italia nel rispetto delle regole, dei contratti di lavoro e dei diritti dei lavoratori? La "fuga" o il tradimento degli “imprenditori” nostrani è sotto gli occhi di tutti. Le aziende italiane “emigrate” all'estero, da un’elaborazione realizzata dall'Ufficio studi della CGIA di Mestre, svela che il numero delle imprese italiane che al 31-12-2011 (ultimo dato disponibile) hanno trasferito all'estero una parte dell'attività produttiva, è superiore alle 27.100 unità. Non dipende anche da questo l’incremento della disoccupazione? Non dipendono proprio dalle spietate regole del mercato, del capitalismo e del profitto, grazie alle quali il padronato si arricchisce, le sofferenze e le privazioni che masse crescenti di discriminati sono costretti a subire in misura sempre maggiore? La rivendicazione di Squinzi circa l’appartenenza alla ”casa del capitalismo reale” risulta arrogante e provocatoria perché nasconde l’ingiustizia e la discriminazione sociali che sono cresciute nel paese. Il padronato italiano, che la Confindustria rappresenta, ha potuto ottenere enormi profitti grazie ai sindacati asserviti e governi di ogni colore che hanno imposto sacrifici e tagli a senso unico ai lavoratori e ai pensionati italiani, azzerando i contratti di lavoro, legando il salario alle convenienze del mercato e mettendo di nuovo in mano al padrone le redini del lavoro con la cancellazione del collocamento, dell’art. 18 e istituendo il lavoro precario a vita. Essi hanno tutti collabora toto nel cancellare diritti e nel calpestare gli stessi principi costituzionali di uguaglianza e libertà tanto più decantati quanto sempre più teorici e mai veramente applicati in Italia. La Confindustria porta avanti la politica del padronato di sempre: Calo del costo del lavoro (meno salari), produttività (più lavoro) e meno fisco per le imprese. In soldoni meno salario e più lavoro e sfruttamento per i lavoratori, più profitto per i padroni e meno tasse per le imprese, quindi più tasse per i redditi fissi. Non si tratta per niente di una folgorante innovazione ma è la solita trita politica padronale della ricerca del massimo profitto. Il padronato italiano vuole presentarsi come paladino del lavoro e dei lavoratori, innovatore e lungimirante a differenza dei partiti e del sistema politico italiano corrotto e privilegiato. Se però il sistema politico italiano è corrotto chi lo corrompe? Chi sono i corruttori che intestano case agli ignari politici, chi è che corrompe, finanzia (vedi anche il recente scandalo dei soldi dati ai rappresentanti del Parlamento dai manager del gioco d’azzardo). Chi è che apre conti nei paradisi fiscali? Chi è che usufruisce dei condoni o degli scudi fiscali? Chi è che evade? Chi è che si arricchisce mentre condanna i redditi fissi al “rigore” a senso unico e alla fame? L’ultimo caso, in ordine di tempo, è quello illuminante dell’Ilva di Taranto e dei suoi proprietari la famiglia Riva. Nei loro confronti sono stati operati due sequestri di beni mobili e immobili e disponibilità economiche, per un valore di 8,1 miliardi di euro dal tribunale di Taranto con l’ipotesi accusatoria, di associazione a delinquere finalizzata alla commissione di reati ambientali plurimi e Frode fiscale, riciclaggio, intestazione fittizia e truffa ai danni dello Stato con un altro ordine di sequestro di beni per 1 miliardo e 200 milioni euro: immobili, titoli e disponibilità finanziarie “bloccati nel paradiso fiscale di Jersey” (tanto per cambiare). Somme che dovrebbero corrispondere al danno prodotto. Secondo quanto accertato nel corso delle indagini i Riva, mediante l’interposizione fittizia di alcuni trust in Italia e Svizzera, e di altre società, avrebbero nascosto la reale titolarità delle disponibilità finanziarie create con i soldi dell’Ilva, facendo risultare all’estero beni che, invece, sono nella loro disponibilità in Italia. L’obiettivo, secondo l’accusa, era di rendere applicabili i vantaggi derivanti dallo scudo fiscale: secondo le prime informazioni almeno otto operazioni. Al di la della fondatezza o meno delle ipotesi accusatorie è insultante e immorale che in una Repubblica di cittadini che, sulla carta dovrebbero essere uguali, esistano e convivano soggetti detentori ricchezze di enormi dimensioni (pochi) insieme ad altri privi di reddito o con redditi insufficienti (la maggioranza). Come si può giustificare il possesso di ricchezze così grandi di fronte alla disoccupazione, alla fame e alla miseria? E’ questo il capitalismo reale? Altro che “siamo” sull’orlo del baratro, come dice Squinzi: Siete.

lunedì 29 aprile 2013

Capitalismo reale

Bangladesh MORTE NELLA FABBRICA DEI NOSTRI JEANS. Oltre 300 operaie uccise. L'edificio formicaio chiamato Rana Plaza, secondo alcune fonti era omologato per cinque piani ( tre abusivi), dentro di esso operavano cinque ditte (in tutto 3.122 dipendenti, in gran parte donne) con produzione di 3 milioni di capi di abbigliamento all'anno per grandi (e piccoli) marchi occidentali, dall'Inghilterra agli Usa (dall'Italia Benetton ha smentito ogni rapporto con le ditte coinvolte nel crollo). In qualche modo la Phantom, una delle cinque ditte, e le sue migliaia di sorelle (il Bangladesh è il secondo esportatore al mondo di tessile dopo la Cina) sono davvero aziende «fantasma», di cui tutti (autorità, committenti, clienti) si dimenticano fino a quando non accade una nuova tragedia. Le fabbriche-formicaio sono spesso ricavate da palazzine pseudo-residenziali, con vie di uscita inadatte o chiuse dall'esterno per impedire l'allontanamento dei lavoratori e delle lavoratrici. Nel palazzo si producono le T-shirt e i jeans che troviamo nei nostri negozi o a prezzi scontati o magari con la griffe e prezzi altissimi, l'orario di lavoro può lievitare dalle 8 ore di contratto alle 18 a ridosso della consegna, con uno stipendio (talvolta di 30 euro) che non è certo ogni mese. Il giorno prima del crollo sulle pareti del Plaza erano apparse crepe minacciose, nonostante ciò i manager delle ditte di abbigliamento avevano diffuso messaggi rassicuranti: “Venite a lavorare, tutto a posto” aggiungendo però una minaccia più grande di una crepa: “Altrimenti vi lasciamo a casa e vi scordate gli arretrati”. Il risultato è che allo stato attuale si contano 381 morti e sono calcolati circa 600 dispersi in gran parte donne. Le aziende occidentali che si riforniscono in Bangladesh a ogni tragedia rispondono lanciando proclami per condizioni di lavoro migliori. Anche questa volta dall'estero è arrivata una raffica di condoglianze e dinieghi che sembrano fatti apposta per non sporcarsi l'immagine e, passata l’emozione e lo sdegno del momento, tutto come prima per continuare a intascare i denari lucrati sulla pelle delle lavoratrici. Lo scorso novembre un incendio bruciò vive 112 operaie che facevano golf e calzoncini per il mercato estero. Altri 41 «incidenti» si sono si sono susseguiti nel 2013. L'Europa è il maggior mercato del tessile prodotto in Bangladesh. Quello che emerge da eventi di questo genere è che sono calpestate tutte le norme e precauzioni a difesa della salute e dell’incolumità di ci lavora. Per 18 ore di lavoro sono corrisposti circa 30 €, pari a circa 0,075 € l’ora, per produrre beni che poi sono venduti in occidente a prezzo di mercato, garantendo così agli “imprenditori” profitti altissimi. Queste vicende fanno emergere con brutalità il vero volto del capitalismo e i mezzi che esso mette in piedi per aumentare i propri profitti. Essi sono quelli di sempre. Quelli che si manifestarono agli albori della prima rivoluzione industriale: Giornate di lavoro lunghissime ed estenuanti in condizioni inumane, anche per donne e bambini, salari di fame e, in conclusione schiavitù. In queste realtà la vita di chi lavora vale meno di niente. Quali considerazioni possono essere fatte a questo punto: 1) Queste attività erano svolte prima nei paesi occidentali; 2) Sono state de localizzate in aree povere sfruttando manodopera affamata e disponibile; 3) Conseguenza a tutto ciò la chiusura progressiva e inesorabile, nei paesi “sviluppati” di aziende simili che hanno preferito trasferire le loro attività in aree a più basso costo di manodopera (delocalizzazioni selvagge operate dal padronato italiano con in testa la Fiat); 4) Incremento verticale della disoccupazione nelle aree abbandonate da queste ditte. La risposta che a questa politica aggressiva dei pescecani padronali (altro che datori di lavoro) è stata data, nei paesi capitalisti e in Italia è stata esemplare: Mano libera, e quindi nessun ostacolo alle imprese per le delocalizzazioni e politica di riduzione drastica dei salari e degli oneri riflessi (contributi previdenziali, ecc.). I salari non sono stati ridotti in cifra ma in potere di acquisto. Questo è stato possibile grazie a sindacati concertativi e alla sinistra nostrana, che hanno cancellato e rinnegato gli interessi dei lavoratori e si sono schierati per il mercato e il profitto concordando e concedendo ai loro alleati padronali l’azzeramento del meccanismo di difesa delle retribuzioni davanti all’inflazione. La scala mobile o contingenza. La politica di tradimento dei sindacati e dei partiti della cosiddetta sinistra è proseguita con la svendita dei contratti nazionali di lavoro e gli aumenti di salari irrisori, l’art. 18, le leggi Treu e Biagi, le controriforme previdenziali, ecc. La ricetta che costoro hanno portato avanti, per compiacere il padronato, è stata solo quella di abbassare i salari e le condizioni di lavoro dei lavoratori italiani per renderle competitive con quelle di aree del terzo mondo dove i lavoratori sono totalmente privi di ogni tutela e ridotti allo stato di schiavitù. Questo è il libero mercato. Libero per chi? Non certo per chi lavora, costretto a sottostare a salari di fame, contratti di lavoro capestro, licenziabile in ogni momento senza giusta causa, totalmente flessibile al profitto padronale, senza ferie, malattia, festività, maternità, disoccupazione, liquidazione, pensione a 70 anni, ecc. avendo come alternativa le delocalizzazioni e la disoccupazione. A questo il sindacato e la sinistra asservita alle ragioni del profitto stanno lavorando da troppo tempo indisturbati. La libertà del mercato e del padrone corrisponde alla sottomissione e mancanza di libertà per chi è costretto a sottostare a questo meccanismo di sfruttamento, prepotenza e prevaricazione. L’unica risposta che si può dare a tutto questo è acquisire la consapevolezza che il capitalismo significa, oggi come ieri, prepotenza, prevaricazione, discriminazione e sfruttamento per chi lavora dalla lotta di classe, questo è il mercato. Occorre pertanto ripartire da questa consapevolezza di classe perché gli interessi dei padroni, dei privilegiati e dei loro cortigiani non sono gli stessi di quelli dei discriminati ma configgono irriducibilmente con questi. Solo quando prenderemo coscienza di tutto ciò potremo finalmente iniziare una nuova stagione di lotta e di riscossa sociale.

domenica 28 aprile 2013

Ci siamo

Hanno fatto finta di litigare, hanno imbrogliato spudoratamente per vent’anni gli italiani fingendo di essere fra loro alternativi ma hanno sempre lavorato per le stesse politiche classiste e padronali che sono servite a depredare i lavoratori dei loro salari, i pensionati delle loro pensioni, i giovani del loro presente e del loro futuro e tutti dei loro diritti e delle loro libertà civili, sociali e del lavoro. I partiti della cosiddetta sinistra italiana hanno collaborato con i partiti della destra per determinare l’impoverimento dei discriminati che sono sempre più strozzati da un fisco di classe agevolato dal sostituto di imposta, mentre hanno elargito, tutti insieme, finanziamenti a piene mani alle banche e a imprenditori privati cui hanno permesso esenzioni ed evasioni fiscali legalizzate, condoni, scudi e privilegi vari. Essi hanno sostituito indisturbati e incontrastati oltretutto, alle politiche sociali quelle militari e di guerra, proprie del capitalismo e dell’imperialismo. E’ prosperata la corruzione che è insita e propria del sistema capitalista e del libero mercato. Essa riguarda in forme sempre più insultanti gli imprenditori ed i ricchi corruttori e i partiti dell’intera area governativa, sempre più impegnati a cancellare le residue forme di “democrazia”. Il voto popolare non conta nulla: I referendum sono ignorati ( energia nucleare, finanziamento ai partiti, acqua pubblica, ecc), e le “coalizioni” che si presentano alle elezioni, con i loro roboanti programmi elettorali, sono cancellate subito dopo. Le istituzioni sono umiliate ed i massimi rappresentanti delle istituzioni della Repubblica, nata dalla Resistenza sono piegati agli interessi e ai giochi speculativi di banche e imprenditori più o meno grandi. La classe padronale ed i privilegiati di tutti i colori spadroneggiano e si arricchiscono mentre affamano il popolo e costringono gli sfruttati e gli oppressi alla fame, alla miseria gettandoli nella disperazione più nera perché negano loro qualsiasi prospettiva futura. I ricchi, le banche, gli imprenditori ed i loro politici di ogni “colore” costituiscono la neo classe di privilegiati che opprime e discrimina tutti gli altri ceti e classi facendo passare per interessi generali e di tutti i loro comodi e le loro convenienze. Oggi la classe dei privilegiati e dei padroni non ha più bisogno di partiti che fingano di litigare fra di loro, mentre invece vanno sottobraccio, perché sono riusciti a convincere i cittadini che alla situazione attuale e a questo quadro politico non c’è alternativa, perlomeno al momento. Quindi basta centrodestra e centro”sinistra”, non c’è più bisogno della maschera, del resto le politiche dei vari governi “tecnici” che si sono succeduti (Amato, Dini e Monti) e dei governi “politici” (Prodi, Berlusconi ed ora Letta)si sono alternati in perfetta identità, sintonia e continuità nelle loro politiche economiche e sociali, tutelando gli stessi interessi e gli stessi ceti sociali privilegiati a danno delle masse popolari. Allo stato attuale non c’è alternativa. I partiti che ancora si definiscono di sinistra come Sel o fanno riferimento al comunismo, come Rifondazione ed il Partito dei comunisti italiani, non mettono in discussione il capitalismo, il mercato e la proprietà dai mezzi di produzione. In due decenni di restaurazione di classe padronale essi si sono confusi in dialoghi “unitari” col Pd cui hanno testardamente e colpevolmente continuato ad attribuire una collocazione a sinistra. Sel si è candidata alle elezioni con il Pd e Rifondazione ed il Pdci hanno dubitato fino all’ultimo se partecipare o meno alla demagogica farsa delle primarie. Queste aggregazioni sono palesemente interclassiste e più arretrate dello stesso Partito socialista riformista di Nenni Esse hanno cancellato dal loro agire la lotta di classe ed hanno sostituito ad essa il politicismo esasperato. Al conflitto economico e sociale hanno sostituito generiche battaglie “progressiste” sui diritti sociali o sull’ambiente, senza dare loro una lettura classe. Questi partiti non sono stati capaci di difendere minimamente gli interessi degli sfruttati, che hanno condannato, con le loro analisi ed il loro agire, ad una serie ininterrotta di sconfitte e di arretramenti. Esse hanno la responsabilità di non aver saputo o voluto affrontare lo scontro di classe in atto su basi marxiste impedendo così ai discriminati di disporre di uno strumento di analisi diverso e alternativo su basi sociali. Tutto questo è avvenuto in momento in cui lo scontro di classe si è accentuato ed in cui avrebbe dovuto essere più semplice la denuncia. La crisi di questi anni avrebbe dovuto far crescere consensi ed adesioni verso di loro. Questo non è avvenuto perché ne Rifondazione, ne il Pdci e ne tantomeno Sel sono stati percepiti come diversi dal sistema, come è invece avvenuto, a torto o a ragione, con il Movimento cinque stelle che almeno oggi e con tutte le sue contraddizioni è percettibilmente alternativo al sistema ed ai suoi giochetti. I gruppi dirigenti di queste formazioni si sono completamente inglobati nel meccanismo politico parlamentare ed ai meccanismi di potere di classe a questo collegati. Sostituire, a questo punto, ai loro fallimenti ed alle loro responsabilità, una neo politica “unitaria” che porti ad unire le debolezze di Sel, Rifondazione e Pdci servirebbe solo a prorogare l’agonia. Oggi più che mai c’è bisogno di un partito Comunista che stia veramente dalla parte dei discriminati e della loro classe e che alle analisi fumose ed interclassiste, di salotto o pseudointellettuali sostituisca la lotta di classe e gli interessi dei discriminati schierandosi contro l’ingiustizia, la discriminazione sociale e il privilegio insita nel mercato e nel sistema capitalista. Nel momento in cui sparisce, anche formalmente, ogni differenza fra false sinistre e destra si possono creare le condizioni per las ricostruzione della lotta e della vera alternativa sociale e di classe.

domenica 31 marzo 2013

Scelta di campo

Gli ultimi anni sono stati dominati da politiche finanziarie e di mercato che hanno demolito le condizioni economiche e i diritti sociali e civili dei discriminati. Il collocamento e la scala mobile sono stati cancellati, i rinnovi dei contratti di lavoro sono stati trasformati da strumento di redistribuzione del reddito a favore dei lavoratori a fasi di scambi sindacali in perdita e cedimenti; il lavoro è stato precarizzato con l’abolizione dell’art. 18, le leggi Treu e Biagi, con i contratti “atipici”, la flessibilità, le delocalizzazioni; i sindacati più combattivi, la Fiom e le organizzazioni di base sono stati emarginati con i contratti separati. Le contro”riforme” delle pensioni, la cancellazione del diritto alla salute e all’istruzione, ecc. sono tutte fasi di un’operazione trentennale condotta da governi di ogni colore ma sotto la dettatura del padronato, unico beneficiario delle “riforme”. Tutto questo è stato possibile grazie all’apporto costruttivo delle confederazioni sindacali che hanno consentito questo scempio annullando le lotte e smorzando qualsiasi velleità di protesta emergesse, spianando la strada alla sconfitta dei lavoratori. Il risultato prodotto è la totale dipendenza degli interessi e delle condizioni di vita dei lavoratori dallo spread e dai mercati. I loro salari e pensioni, il lavoro, i loro diritti sono diventati man mano una variabile condizionata e dipendente da interessi economici sovranazionali accettati quasi come sovrannaturali e inevitabili. Questo ha determinato il progressivo e inarrestabile peggiorare delle loro condizioni di vita e dei loro diritti. La disoccupazione, la povertà e la sfiducia sul futuro gettano in uno stato di disperazione, masse crescenti di cittadini e di giovani che non riescono a intravvedere alcuna via di uscita. I sacrifici imposti non hanno dato risultati e gli indici economici continuano a essere negativi: è inarrestabile la crescita della disoccupazione, dell’inflazione e lo spread e a calare i redditi e i consumi. Nuovi sacrifici vengono imposti e le nubi all’orizzonte sono sempre più nere. Non vengono però individuate, da nessuna forza politica, le responsabilità chiare e certe della crescente sofferenza cui sono condannate senza speranza le masse sempre più vaste di lavoratori, giovani e pensionati. L’unico nemico individuato è il ceto politico contemporaneo, colpevole di prebende, vitalizi, corruzioni, amoralità, leggi ad personam e persino di mafia. Verso costoro non sono sufficienti i peggiori epiteti immaginabili. Oltre a loro, però, non sono individuate altre responsabilità. In questo modo è naturale che al massimo si verifichi solo una protesta generica e qualunquista, pur sacrosanta: Sono tutti uguali, mangiano tutti, si arricchiscono alle nostre spalle. E’ stato impedito volutamente e scientificamente alle masse di discriminati di utilizzare la chiave di lettura del conflitto di classe per analizzare la realtà attuale. Non sono individuate ad esempio, anzi si sono nascoste le responsabilità del padronato. Addirittura c’è pure chi in questo lavoro di confusione e di mistificazione, pur dichiarandosi comunista, ha messo nel suo programma elettorale insieme ad altri che ” Vanno premiate fiscalmente le imprese che investono in ricerca, innovazione e creano occupazione a tempo indeterminato” (Rivoluzione Civile). Cioè vanno destinati alle imprese “meritorie” finanziamenti derivati dalle tasse che solo i redditi fissi pagano. E’ proprio il colmo. Non basta più il profitto. Sono invece le aziende capitaliste e i padroni che hanno richiesto e preteso le “riforme” di cui sopra. Imprese che hanno potuto usufruire così di manodopera a basso costo, senza diritti e licenziabile in ogni momento anche senza giustificato motivo, sottoscrivere accordi con sindacati di comodo, licenziare lavoratori e discriminare sindacati combattivi, precarizzare e delocalizare, godere dei cunei e scudi fiscali, condoni, sanatorie ecc., ecc., ecc. Esse attraverso tutto questo hanno accumulato ricchezze e ingrossato i loro capitali concentrando nelle mani dei loro proprietari quanto tolto alla stragrande maggioranza di cittadini e giovani. Nessun partito della pseudo sinistra o sindacato riconosce o denuncia le responsabilità del padronato. Tutti costoro vogliono dare ad intendere che la crisi non dipenda da loro e dal loro sistema. Hanno impedito così di far capire chi ha la vera responsabilità della crisi: il mercato liberista e la finanza internazionale di speculatori senza scrupoli. Per far digerire le loro “riforme” hanno dato ad intendere che la crisi tocchi tutti allo stesso modo, poveri e ricchi e che il privilegio riguardi unicamente il ceto politico e istituzionale. Sappiamo invece che la crisi è servita a produrre un gigantesco spostamento di ricchezza a favore dei più ricchi. Ricchi che con la crisi hanno fatto enormi affari, imponendo una lettura dei dati economici a loro conveniente. Questo attacco di classe è stato facilitato dalla totale mancanza di qualsiasi denuncia sulla natura di classe della crisi e sull’uso che se ne è fatto. Del fatto cioè che se molti con la crisi hanno pagato sia in termini economici che di diritti e libertà, altri si sono serviti di essa per arricchirsi di più e aumentare il proprio potere politico e sociale. La speculazione capitalista e finanziaria nazionale e internazionale, messa in atto da chi detiene capitali e banche, è riuscita a imporre i propri interessi a tutti. Interessi che determinano la vita e la morte di aree nazionali e di interi popoli (vedi la Grecia e Cipro, per il momento). Alle visioni economiche, monetarie e di speculazione finanziaria non si è contrapposta alcuna visione alternativa e diversa su basi di classe. Le lotte, pur giuste contro l’abolizione dell’art. 18, se non inquadrate in un’analisi di classe sono incomprensibili. Quello che è successo a questo proposito sarebbe dipeso solo dalla “cattiveria” di una ministra piagnucolosa e non da un padronato prepotente e arrogante che così riprende saldamente il comando nei posti di lavoro e può finalmente liberarsi o minacciare di farlo dei lavoratori più combattivi che pretendono i loro diritti, dei malati, degli invalidi, delle donne in maternità, ecc. Nessuno mette in discussione il capitalismo e le forme sociali a esso connesse. A partire da quelle formazioni politiche che continuano a definirsi comuniste. Le comuni enciclopedie alla parola comunismo danno questo significato: “insieme di dottrine e movimenti politici le cui basi sono la parità civile e sociale, l'abolizione della proprietà privata, la comunanza dei mezzi di produzione. Condizione unica e indispensabile per l’ottenimento di parità civile e sociale, per un comunista, è l’abolizione della proprietà privata e dei mezzi di produzione”. Sono nate e si sono moltiplicate formazioni “comuniste” che hanno abbandonato ogni riferimento o analisi scientifica di classe sui processi in atto. Hanno più o meno volutamente confuso i ruoli e le responsabilità e impedito la nascita di una coscienza di classe fra i discriminati disorientandoli perché hanno cancellato col loro agire il metodo di analisi e di lettura dei processi economici e sociali su base di classe. Esse, pur rivendicando la matrice comunista hanno dimenticato, rinunciato o addirittura rinnegato l’opzione economica a essa collegata: La socializzazione dei mezzi di produzione. Esse sono responsabili del disorientamento e della confusione e hanno contribuito all’arretramento economico e sociale proprio dei discriminati. La conseguenza di questa impostazione è stata la disgregazione sociale e di classe dei discriminati cui non è rimasto altro che affidarsi a movimenti di protesta generici o, peggio, accettare il mercato come unica forma sociale possibile. Altro risultato è stato il crescente scollamento e consenso dei comunisti dai discriminati e la quasi totale scomparsa dei comunisti dallo scenario politico italiano. La socializzazione dei mezzi di produzione è un principio che si può condividere o no. Se si condivide, si è comunisti altrimenti no. Non si tratta di un approccio ideologico o dogmatico. Si tratta invece di chiamare le cose con il loro vero nome. Del resto la stessa cosa avviene per chi si colloca nel campo del mercato e del capitale. Costui è liberale, non vede discriminazioni su basi sociali e di classe per questo motivo non può essere favorevole alla socializzazione dei mezzi di produzione. Si può essere comunisti senza mettere in discussione la proprietà dei mezzi di produzione? E’ quanto avvenuto però negli ultimi decenni. Tanti partiti o personaggi politici hanno fatto fortune politiche e carriere istituzionali, usurpando l’appellativo di comunista. Essi si sono appropriati di questo termine svuotandolo di tutti i suoi contenuti. Avere chiaro quali errori sono stati commessi serve per individuare la strada da intraprendere per tentare di ricominciare il cammino e lottare con forza e determinazione per costruire una realtà di liberi e uguali.

giovedì 28 febbraio 2013

Il voto di protesta che i comunisti non hanno saputo intercettare

E’ innegabile che chi ha votato la lista Cinque stelle di Grillo, abbia voluto esprimere un radicale dissenso dalla politica attuale. Questa domanda che saliva dal popolo non è stata capita dirigenti della cosiddetta “sinistra radicale”, perché troppo occupati a costruire alleanze anche nell’illusione di garantirsi un posto al sole. Essi hanno assunto verso il fenomeno Grillo, atteggiamenti di superiorità e di snobismo parlando sempre solo di fascismo e di matite ciucciate senza tentare di analizzare seriamente il programma di quel movimento i cui punti, per la stragrande maggioranza, potevano essere condivisi: 1) Legge anticorruzione; 2) Reddito di cittadinanza; 3) Abolizione della legge Biagi; 4) Riduzione dell’orario di lavoro fino a 30 ore settimanali con la conseguente redistribuzione del lavoro garantito a tutti; 5) Pensione a 60 anni e taglio delle pensioni sopra 4-5 mila euro; 6) Ritiro immediato delle missioni “di pace” nel mondo; 7) Introduzione di un tetto per gli stipendi del management delle aziende quotate in Borsa e di quelle con partecipazione rilevante o maggioritaria dello Stato e abolizione delle stock option; 8) Abolizione dei contributi pubblici ai partiti e ai giornali; 9) Verifica degli arricchimenti illeciti da parte della classe politica negli ultimi venti anni; 10) Massimo due mandati elettivi; 6) Legge sul conflitto d’interessi; 11) Ripristino dei fondi tagliati alla Sanità e alla scuola pubblica con tagli alle grandi opere inutili come la Tav; 12) Accesso gratuito alla rete per cittadinanza; 13) Abolizione Imu sulla prima casa. Questo solo per citarne alcuni. Certo erano presenti alcuni punti meno condivisibili per i comunisti, fra questi la richiesta di sostenere le società no profit per creare occupazione. Del resto sullo stesso argomento Rivoluzione civile avanzava una proposta peggiorativa considerando da incentivare anche imprese profit: ” Vanno premiate fiscalmente le imprese che investono in ricerca, innovazione e creano occupazione a tempo indeterminato”. E’ proprio la richiesta di finanziamenti alle aziende, anche a quelle cosiddette “meritorie” che determina la contraddizione discriminante per i comunisti: Considerare cioè positiva e finanziabile con i soldi pubblici, delle tasse, l’attività di quelle imprese private a patto che rispondono a determinati requisiti. Non basta il profitto? Sparisce o meglio si cancellano così le differenze e le discriminazioni sociali e con esse la lotta di classe perché si riconosce implicitamente che l’imprenditore non è più padrone e soggetto di sfruttamento e di profitto sulla pelle di chi lavora ma è un benefattore sociale e “datore di lavoro” da premiare e incentivare, dimenticando appunto il profitto che trae a tutti i costi compreso quello di discriminare i lavoratori che aderiscono alla Fiom. L’imprenditore lucra sul lavoro dipendente e per questo diminuisce i salari, precarizza, licenzia, de localizza, riduce le libertà dei lavoratori (art. 18) e quelle sindacali, è così che aumenta i propri utili in maniera spropositata infischiandosi della richiesta di lavoro dei disoccupati e della disperazione dei suoi dipendenti licenziati o de localizzati per risparmiare sulla manodopera. Niente di tutto questo, l’imprenditore viene trasformato da padrone sfruttatore a “datore di lavoro” che deve essere finanziato con i soldi delle tasse sui redditi fissi che sono gli unici a pagare, e non deve essere tassato per la sua opera “sociale e benemerita”. Si cancella così il conflitto e si da ad intendere, questa volta insieme a Grillo, che il privilegio riguardi i soli parlamentari super pagati davanti ai quali non esistono differenze sociali perché il loro privilegio penalizzerebbe allo stesso modo lavoratori e padroni. Un’assurdità. Il movimento cinque stelle ha posto al centro della sua battaglia dei punti condivisibili. L’ha fatto però al di fuori di una visione dei rapporti sociali e di classe. La discriminazione sociale non è messa in atto dal solo ceto politico ma soprattutto da quello economico e padronale che per arricchirsi affama i lavoratori e le loro famiglie e condanna alla disoccupazione e alla disperazione i giovani, mentre taglia le pensioni. Visti gli esiti elettorali la segreteria nazionale di Rifondazione Comunista nel rassegnare le proprie dimissioni afferma: ”Al di là di ogni altra considerazione, l’insuccesso della lista (Rivoluzione Civile) ha quindi una precisa ragione politica nell’incapacità di interpretare e intercettare il forte disagio sociale e il largo dissenso verso le politiche di austerità.” Il forte disagio sociale che Rc non è stato capace di intercettare, nella vicenda politica attuale, non è causato dal largo dissenso verso le politiche di austerità, che di per se possono anche essere un valore, ma dal fatto che tutte le misure economiche di “rigore” adottate colpiscono a senso unico i discriminati, lavoratori, giovani e pensionati, facendo tracollare i loro redditi e le loro condizioni di vita e cancellano anche i loro diritti come quello alla sanità e all’istruzione. Al di la di altri ragionamenti, come si può pensare di alzare l’età pensionabile fino a 70 anni con una disoccupazione giovanile al 37%? A quali logiche risponde tutto ciò? A quali interessi? Non certo quello di chi lavora e, nel rischiare il proprio posto di lavoro deve continuare a farlo fino a 67-70 anni, o di chi è disoccupato che, in questo modo, non ha alcuna possibilità di trovare lavoro. La realtà è che mentre i discriminati sono ridotti sul lastrico dalla cosiddetta crisi, altri non sono stati toccati per niente, anzi hanno approfittato della crisi per imporre la loro egemonia sul piano economico incrementando a dismisura i propri patrimoni e questo è l’aspetto più odioso sostituendo al benessere dei cittadini quello dello spread. Un’analisi di questo tipo non può essere pretesa da Grillo. Doveva essere pretesa da chi, come Rifondazione continua a definirsi Comunista. Non si tratta quindi solo di una questione di simbolo o di bandiera che i dirigenti si ostinano, per timore o per una convinzione sbagliata e perdente, a non mostrare nelle campagne elettorali. Rivoluzione Civile ha perso perché, proseguendo una vecchia prassi, non ha dato, e non poteva farlo per la diversità delle sue componenti, una lettura ed interpretazione di classe, della classe degli sfruttati, delle vicende del Paese e delle cose da fare. Mancanza di visione che isola i discriminati, lasciandoli privi di tutela e disorientati. Non vengono cioè più messe in discussione le basi di questa società capitalista, che difende i suoi valori e il liberismo più selvaggio ed impone i suoi modelli culturali unici e approfitta dell’assenza sostanziale di altri progetti forti da parte di chi si ostina ad accreditare come di sinistra, seppur moderata quella del Partito Democratico che invece ha votato tutte le misure antipopolari del Governo Monti e che, insieme a Sinistra ecologia e libertà si proponeva se eletta di proseguire su quella strada. Negli ultimi anni ed alle elezioni l’avversario di classe ed il padronato senza alcun significativo contrasto hanno potuto far emergere egemonia culturale del capitalismo e delle classi dominanti, perché è mancata una forza politica apertamente alternativa su basi di classe ed anticapitalista. E’ questo il motivo per cui gli italiani hanno scelto Grillo. Per manifestare la propria avversione alle politiche economiche imposte si sono affidati a chi hanno ritenuto al di fuori dei giochi politici, riconoscendo Grillo e il suo movimento, non in altri o in Rivoluzione Civile, come gli unici veramente alternativi al sistema capaci credibilmente opporsi e lottare contro le ingiustizie attuali. Occorre riconoscere onestamente questo, rimboccandosi, ancora una volta le maniche per ricostruire una forte iniziativa politica imperniata su una linea di classe alternativa non alla politica di austerità, ma alla politica del padronato che vuole, coadiuvato anche da falsi amici dei lavoratori, far credere ai discriminati che per salvarsi debbono morire.

martedì 5 febbraio 2013

FIAT, LANDINI: PRONTI A AZIONI LEGALI

"La scelta di Fiat di pagare 19 lavoratori purché non lavorino conferma come sia in atto un’esplicita politica di discriminazione nei confronti dei lavoratori che scelgono di iscriversi alla Fiom". Così il segretario Fiom Landini che parla di "schiaffo alla dignità dell'Italia". Quello della Fiat, dice, è "un atto di arroganza inaccettabile di fronte al quale la Fiom pensa a azioni giuridiche e sindacali". Quello con la Fiat "non è più un problema sindacale, perché si violano le leggi e la Costituzione: governo e forze politiche intervengano, il silenzio non è più accettabile".E su Fabbrica Italia: "Non errore ma truffa". Questo comunicato è presente sul Televideo Rai di oggi. Si riferisce alla volontà della Fiat di proseguire nella sua scelta padronale di estromettere da Pomigliano tutti coloro (lavoratori e sindacati) che ostacolano i suoi interessi e autorità. E’ in atto una discriminazione nei confronti degli iscritti fiom, che sono stati reintegrati dal Giudice del lavoro, ma che, poi, non solo non sono stati ripresi al lavoro ma sono stati umiliati nella propria dignità dall’obbligo imposto dalla Fiat di dover ricevere il proprio salario senza lavorare. Attraverso il suo comportamento, la Fiat, storico capofila del padronato italiano, vuole far capire chiaramente a tutti i lavoratori, chi veramente comanda in fabbrica e nel Paese. La protervia e la prepotenza della Fiat ricordano quella del padronato precedente alla prima rivoluzione industriale. Quando cioè la legge non permetteva il diritto di associazione sindacale perché ai lavoratori non era consentito organizzarsi per difendere i propri interessi, pena il licenziamento e la galera. Oggi il padronato tollera la presenza di sindacati in azienda ma solo di quelli asserviti e sottoposti alle sue volontà e interessi. Le leggi, sempre più sfavorevoli ai lavoratori, le sentenze e la stessa Costituzione sono per il padronato carta straccia e le istituzioni cui spetta il compito di intervenire, non lo fanno e tacciono. Per convenienza e complicità. Finora non si è vista infatti alcuna “autorità” costituita intervenire a difesa dei discriminati nonostante masse crescenti di lavoratori e di giovani siano costretti alla disoccupazione, alla precarietà o a salari indecenti e indecorosi, per far applicare i dettami (teorici) previsti dalla Costituzione. L’art. 3 ad esempio recita: “È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e la uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese”, ancora l’art.4 “La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto”, o l’art 36: “Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un'esistenza libera e dignitosa” per citarne alcuni senza poi parlare delle disposizioni Costituzionali in materia di “libertà” e diritto “libero” di associazione sindacale. Mantenere i lavoratori, reintegrati dal Giudice, a casa rappresenta il manifesto politico e il messaggio sonoro del padronato in Italia che spiega a chiare note chi veramente comanda nel Paese, chi fa e applica le leggi. Siamo arrivati a questo punto grazie a sindacati che hanno tradito il proprio ruolo e a una “sinistra” che ha mantenuto in qualche caso un riferimento nominativo alla vera sinistra storica, ma che ha poi accettato, in forma più o meno esplicita il mercato, il liberismo e l’interclassismo, ed ha dimenticato o cancellato dal suo orizzonte politico, la lotta di classe e il superamento della proprietà privata dei mezzi di produzione, unico strumento per la costruzione di una società nuova di liberi e uguali.

giovedì 24 gennaio 2013

Confindustria presenta la sua piattaforma rivendicativa

Una volta erano le organizzazioni sindacali che presentavano al padronato e al Governo le rivendicazioni per migliorare le condizioni di lavoro e vita dei lavoratori: Richieste di miglioramenti economici e normativi, di lotta all’inflazione, conquista e miglioramento di un sistema d’indicizzazioni di salari e pensioni per tutelare i redditi di lavoratori e pensionati, lotta per l’occupazione per costringere il padronato a investire i capitali per creare lavoro, di lotta alla rendita parassitaria, di detassazione dei generi di prima necessità (contro aumenti di sole 10 lire il litro erano proclamati scioperi generali di 24 ore), di nuovi servizi e potenziamento della sanità pubblica, di riforme migliorative del sistema sociale, ecc. Oggi, davanti alla connivente assenza e tradimento dei “sindacati ufficiali dei lavoratori” è il padronato, tramite Confindustria, che presenta le sue richieste e batte cassa. Le richieste di Confindustria, contenute in un documento da un titolo altisonante e ammiccante ”Il progetto CONFINDUSTRIA per l’ITALIA: crescere si può, si deve” non rappresentano novità ma ricalcano sostanzialmente le posizioni tipiche che il padronato ha da sempre. Di queste i punti più rilevanti sono: 1) Trattamento agevolato per le imprese nei pagamenti dello Stato; 2) Detassazione Irap e taglio dell’8% del costo del lavoro (somme che le aziende versano all’Inps per ogni lavoratore occupato in base al tempo di lavoro). Questi soldi sono salario dei lavoratori differito e non delle imprese. Confindustria vuole ottenere, dal futuro Governo un 8% di risparmio, mentre dal Governo di centro “sinistra” Prodi ottenne un taglio del 5%. Dare alle imprese i risparmi ottenuti attraverso tagli del costo del lavoro significa togliere salario e soldi ai lavoratori per darli ai padroni; 3) Aumento dell’orario annuale di lavoro (40 ore); 4) Lo Stato con i soldi dei contribuenti deve aumentare del 50% gli investimenti per le infrastrutture (servizi per le imprese), finanziare le imprese per la ricerca e abbassare loro i costi dell’energia, dando soldi e incentivazioni pubbliche agli industriali (naturalmente l’utile e il profitto restano privati); ridurre il peso del fisco sulle imprese; ridurre le regole e gli “ostacoli” al fare impresa; 5) Rendere effettivamente flessibile il mercato del lavoro in entrata e in uscita; Tutto questo in cinque anni porterebbe all’aumento dell’occupazione e dei salari, con ricadute positive sui consumi e sui dati economici dello Stato. Il padronato presenta, con questo suo documento, ai partiti e ai suoi dirigenti candidati alle elezioni negli schieramenti di centrodestra, centro e centro”sinistra” i suoi desideri e chiede a gran voce che essi siano esauditi, non per i loro interessi e profitti ma per il bene dell’Italia, naturalmente. Sembra di rileggere l’accordo sindacale “Sulla politica dei redditi, la lotta all'inflazione e il costo del lavoro” del 31/7/1992. Con questo accordo il sindacato accettava consentiva l’abolizione dello strumento di difesa dei salari, la scala mobile, e legava i redditi dei lavoratori non più alle condizioni di vita dei lavoratori, ma a una famigerata “politica dei redditi”. Politica che doveva essere di contenimento di tutti i redditi in base “all’inflazione programmata” ma che ha determinato, grazie anche all’euro e alle politiche di aggressione del padronato e di tradimento dei sindacati ufficiali, l’arretramento e il taglio dei salari (a oggi tornati ai livelli del 1986) con il conseguente impoverimento dei chi lavora e l’aumento dei profitti con la conseguente crescente concentrazione della ricchezza nelle mani di pochi peperoni. Il nuovo vangelo liberale vincente finora grazie alle politiche di cedimento del sindacato e di una sinistra scopertasi liberale e mercantilistica si impone trionfalmente. Tutta la campagna elettorale sarà centrata sui diktat padronali. La CGIL che non si è opposta alle “riforme” liberticide per i lavoratori, del Governo Monti, non chiede ne ha chiesto la cancellazione di nessuna delle controriforme del lavoro e delle pensioni di questi anni, ma solo qualche correzione e misure aggiuntive che però partono dall’accettazione di quanto sanzionato. Questo sindacato ha in programma una sua conferenza programmatica nel contesto della campagna e dei messaggi elettorali. A questa conferenza partecipano come invitati Bersani, segretario del Partito Democratico, Vendola, segretario di Sinistra ecologia e libertà e …. Giuliano Amato colui che ha varato da Presidente del Consiglio la “politica dei redditi” e la cancellazione della scala mobile, nonché pensionato di platino e futuro candidato alla presidenza della Repubblica. E’ proprio un bel programma. I lavoratori possono stare tranquilli c’è chi pensa per loro e …. li sistema definitivamente.