sabato 28 agosto 2010

Il sindacato dei lavoratori o i lavoratori del sindacato?

Da troppi anni il rapporto tra lavoratori e sindacato si è burocratizzato, perché è stato del tutto cancellato o vanificato il sistema di regole chiare e certe che vincolava il sindacato al coinvolgimento dei lavoratori sulle sue strategie, sia sui metodi di lotta che sugli accordi che l'organizzazione stipulava con il padronato e soprattutto col Governo.
Cgil, Cisl e Uil, infatti, avvalendosi della qualifica di sindacati di maggiore rappresentatività, hanno sottoscritto intese (mai migliorative rispetto l’esistente) a nome e per conto dei lavoratori, senza averne però alcuna delega o mandato. I loro accordi non riguardano solo gli iscritti alle tre confederazioni, ma tutti i lavoratori. Compresi quelli che magari sono contrari alle decisioni prese, che in questo modo sono costretti a subire perché non hanno alcuna possibilità di far valere le proprie idee.
Oltre all’assenza del mandato dei non-iscritti a trattare, è venuta meno qualsiasi ratifica democratica degli accordi sottoscritti. Con l’eccezione di Pomigliano, dove si è tenuto un referendum con il ricatto Fiat del mancato investimento in quella realtà, paventando lo spettro della disoccupazione in caso di esito negativo, le tre sigle sindacali non hanno più chiamato i lavoratori a pronunciarsi sugli accordi che a loro nome sottoscrivono. Né quando hanno trattato con i sindacati padronali delle imprese, né con il Governo.
Non sono stati mai consultati i lavoratori, né prima, né durante, né tantomeno dopo le trattative interconfederali sindacato-padronato-Governo che hanno previsto la cancellazione della scala mobile (strumento, che adeguava i salari all’inflazione), lo stravolgimento del sistema delle pensioni, la cancellazione del collocamento, l’instaurazione del precariato, la privatizzazione del Trattamento di fine rapporto (liquidazione), la “riforma” della contrattazione, la regolamentazione del diritto di sciopero, i vari patti sociali, ecc. ecc. ecc. Al contempo hanno introdotto la logica dello scambio nelle trattative. Logica che ha indebolito i lavoratori e rafforzato il padronato, che ha assunto un ruolo rivendicativo nel rinnovo o nella disdetta dei contratti di lavoro (vedi quanto sta succedendo al contratto dei metalmeccanici che la Fiat intende disdire).
Le tre confederazioni si sono assunte la responsabilità, senza alcun mandato e nessuna ratifica, di decidere cosa andasse bene o meno per i lavoratori, i disoccupati, i pensionati e i precari. Cisl e Uil hanno agito in maniera più spedita avendo meno problemi politici interni. La Cgil spesso ha tentennato o resistito ma poi ha sempre capitolato, sottoscrivendo tutto e il contrario di tutto.
Questa condotta sindacale ha sottratto ai lavoratori il ruolo di protagonisti nella società, relegandoli con i loro bisogni e le loro istanze in un cantone, sostituendo alle loro ragioni quelle delle compatibilità capitaliste, del mercato e del profitto. Non ha perciò contrastato, al contrario ha agevolato l’impoverimento degli stipendi e pensioni (più che dimezzati in termini di potere di acquisto) a favore del profitto e del potere padronale. Sono sparite dal vocabolario sindacale parole come uguaglianza o egualitarismo, democrazia dal basso, rivendicazioni economiche, conquiste sociali, lotta.
Il sindacato confederale ha la responsabilità e la colpa di aver agito in maniera da far compiere ai lavoratori un enorme passo indietro e un drammatico arretramento anche nei diritti e nella civiltà. Il solo allungamento di cinque anni dell’età lavorativa (e dello sfruttamento padronale) ha fatto perdere agli interessati cinque anni di pensione, trasformati in anni di lavoro e contributi previdenziali. Con pensioni, oltretutto drammaticamente taglieggiate.
Non destano sorpresa pertanto le affermazioni rilasciate a "Il Sole 24 Ore" dal segretario della Cisl Bonanni, che si dichiara per un sistema di relazioni industriali che superi la logica del conflitto tra capitale e lavoro. Bonanni e i suoi colleghi di Cgil e Uil non hanno alcuna necessità di superare la logica del conflitto: non la conoscono proprio, o l’hanno dimenticata. Grazie infatti alle loro strategie delle compatibilità subalterne al mercato e al profitto, il sistema delle relazioni sindacali che ne è scaturito dimentica le ragioni di chi lavora ed esalta quelle di chi dal lavoro altrui trae guadagno e ricchezza.

giovedì 26 agosto 2010

Lotta di classe altro che ferie

In questa giornata di fine agosto si registrano due interventi che danno la misura, al di là dell’apparenza e della propaganda, del livello elevato che lo scontro sociale ha già raggiunto nel Paese. Alcune frasi di queste esternazioni, svoltesi in piena sintonia e continuità, sintetizzano e qualificano le strategie e i contenuti che si cerca di imporre, peraltro utilizzando argomenti accattivanti o espressioni enfatiche ma demagogiche come "modernità", "efficienza e risparmio", "nuovi orizzonti". Naturalmente a senso unico.
Il primo in ordine di tempo a intervenire è stato il Ministro dell’economia Tremonti che, parlando alla Berghem fest e poi al meeting di Comunione e Liberazione (dove è stato accolto come una star), ha affermato testualmente: "Robe come la 626 (la legge sulla sicurezza sul lavoro) sono un lusso che non possiamo permetterci. Sono l'Unione europea e l'Italia che si devono adeguare al mondo"; e inoltre: "E' utile rileggere gli scritti del 1977 di Enrico Berlinguer sull’austerity, si tratta di un ragionamento sulle responsabilità nelle politiche di bilancio che può costituire una base di riduzione per i prossimi anni in tutta Europa".
Dal canto suo l’Amministratore delegato Fiat, Marchionne, sempre dalla tribuna di Cl, nel ringraziare esplicitamente i segretari generali di Cisl e Uil, Raffaele Bonanni e Luigi Angeletti senza citare la Cgil, ha affermato: "Il sistema italiano deve superare definitivamente il conflitto "operai-padrone", ma soprattutto deve innovarsi, aprirsi alla globalizzazione, capire che non si può investire se i lavoratori non tengono fermi gli impegni assunti. Fino a quando non ci lasciamo alle spalle i vecchi schemi, non ci sarà mai spazio per vedere nuovi orizzonti" ha continuato Marchionne, precisando che "non siamo più negli anni '60 e occorre abbandonare il modello di pensiero che vede una lotta fra capitale e lavoro e fra padroni e operai".
Con riferimento alla vicenda del mancato reintegro dei tre licenziati di Melfi ha affermato: "la Fiat ha rispettato la legge e ha dato pieno seguito alle decisioni della magistratura, abbiamo dato accesso ai lavoratori nell'azienda e pieno esercizio dei diritti sindacali. Adesso siamo in attesa del secondo grado di giudizio, ci auguriamo che siano meno influenzate dall'enfasi mediatica. La dignità e i diritti non possono essere patrimonio esclusivo di tre persone: sono valori che vanno difesi e riconosciuti a tutti; la responsabilità è anche quella di tutelare la dignità della nostra impresa e il diritto al lavoro di tutti i dipendenti"; e ha concluso: ”Quello di cui c'è bisogno è un patto sociale per condividere impegni e sacrifici e dare al paese la possibilità di andare avanti, per costruire il paese che vogliamo lasciare alle prossime generazioni. Troppo spesso l'elogio del cambiamento si ferma alla soglia di casa. Dobbiamo scegliere il cambiamento che vogliamo, il nostro o quello dei nostri vicini di casa".
Questi due “contributi moderni e disinteressati” sono caratterizzati, anche con argomentazioni contraddittorie (Tremonti che cita Berlinguer in materia di austerità e Marchionne che parla del conflitto di classe come di un fenomeno preistorico e superato), da un’unica filosofia: convincere gli italiani che le conquiste di civiltà, come quella della legge 626 in materia di prevenzione infortuni, sono vecchie e superate (per chi? Non per l’operaio che s’infortuna, perde la vita o contrae una malattia professionale sul lavoro) e anche costose. Vanno pertanto superate per permettere alle imprese di poter risparmiare per “competere” nel sistema economico “globalizzato”. Devono fare la fine cioè della scala mobile, del sistema previdenziale (demolito e privatizzato) del Trattamento di fine rapporto o liquidazione (privatizzato), del posto fisso (a favore della flessibilità e precarietà), della rinuncia al diritto di sciopero, della rinuncia all’indennità di malattia, dei nastri lavorativi di otto ore in catena senza pause, della cancellazione della scuola e della sanità pubblica (con la chiusura di scuole e ospedali), della privazione delle libertà sindacali, ecc. ecc. ecc. L'unica cosa che costoro non mettono mai in discussione è l'entità dei loro guadagni e profitti, sui quali non sono disposti a fare economie. Neanche accennate.
Lavoratori e sindacati che si "attardano" su queste questioni sono antimoderni e superati, perché nella nostra epoca se si vuole competere con gli altri e quindi permettere ai volenterosi e disinteressati miliardari nostrani di “investire”, occorre rapportare le nostre retribuzioni e le nostre condizioni di libertà e diritti a quelle dei paesi del Terzo mondo. Ai livelli cioè della prima Rivoluzione industriale, permettendo al padronato di svolgere quel ruolo “sociale” che gli compete. A questo proposito è illuminante quanto affermato da Marchionne sulla vicenda dei tre licenziati di Melfi. La Fiat (sostenuta dall’ineffabile Marcegaglia, che candidamente sostiene che il mancato reintegro dei tre è la “prassi” e la “continuità” dei comportamenti padronali dell'azienda) afferma in ultimo di aver rispettato la legge e di aver dato pieno seguito alle decisioni della magistratura. Chiarendo se ce ne fosse ancora bisogno l’arroganza e la presunzione della sua posizione, che pretende di assegnare a un'azienda privata e parte in causa l’esclusiva giurisdizionale in materia di contenzioso lavorativo, infischiandosi anche di pareri, altre volte molto ascoltati, come quello del Presidente della Repubblica e della Conferenza episcopale italiana.
I nuovi orizzonti di Marchionne assomigliano troppo a quelli esistenti nelle fabbriche all’inizio della Rivoluzione industriale e la modernità che rivendica è troppo confacente e assimilabile ai suoi interessi e alla sua volontà di profitto a ogni costo. I lavoratori italiani, non è retorica, con gli stipendi che percepiscono e con le condizioni che si determinerebbero se si realizzassero i sogni di Tremonti, Marchionne, Marcegaglia e padroni in generale, non avrebbero alcuna eredità da lasciare alle (loro) future generazioni, peraltro già private di prospettive con la precarietà. Se non fame e miseria.
A differenza di quanto faranno Tremonti, Marchionne, Marcegaglia e il Sacro padronato unito.

mercoledì 25 agosto 2010

Con gli operai di Melfi contro la prepotenza

Un’ordinanza del giudice del lavoro, decisa ai primi di agosto, interveniva su una vicenda sindacale accaduta alla Fiat di Melfi. Tre operai erano stati licenziati con l’accusa di aver ostacolato il percorso di un carrello robotizzato durante un corteo interno. L’ordinanza del giudice respinge l’ipotesi di sabotaggio sostenuta dalla Fiat perché il licenziamento dei tre lavoratori, deciso dall'azienda il 13 e 14 luglio scorso, ha avuto carattere di «antisindacalità» e quindi annulla il licenziamento e ordina l'immediato reintegro dei tre lavoratori.
La Fiat, alla ripresa dell’attività lavorativa, prima comunica ai tre lavoratori di rinunciare alla loro collaborazione, con la conservazione della retribuzione, poi li ammette in fabbrica ma li confina in una “stanza sindacale”.
E’ opportuno valutare bene sui motivi che hanno indotto l'azienda a non reintegrare i tre operai licenziati, cosi come previsto dall’ordinanza del giudice pur sapendo di poter andare incontro alle conseguenze previste dall’articolo ventotto dello Statuto dei Lavoratori in materia di repressione della condotta antisindacale: “Il datore di lavoro che non ottempera al decreto, di cui al primo comma, o alla sentenza pronunciata nel giudizio di opposizione è punito ai sensi dell'art. 650 del codice penale”.
Questo comportamento non è stato certamente determinato dall’improvvisazione ma da una precisa strategia che la Fiat intende perseguire. Che tipo di convivenza ci può essere, infatti, al di fuori delle leggi e delle ordinanze o sentenze di chi è chiamato a decidere sulle controversie o di contratti di lavoro condivisi?
A ben vedere il comportamento della Fiat in questa vicenda rispecchia fedelmente ed è in perfetta continuità con l’atteggiamento aggressivo tenuto dall’azienda sulla vicenda di Pomigliano e del relativo “accordo” raggiunto con la collaborazione di Cisl e Uil: attacco al diritto di sciopero e sanzioni al sindacato e Rsu che proclamano iniziative di lotta contro l’accordo con la sospensione dei contributi e dei permessi sindacali; in caso di picchi di assenteismo, l’azienda non verserà i contributi per malattia, a prescindere dai controlli; durante le elezioni, l’azienda non permetterà il recupero dei giorni trascorsi ai seggi dai rappresentanti di lista; per l’azienda si può lavorare anche otto ore di fila senza la mezz’ora di pausa per il pranzo, considerata come straordinario. A questo va aggiunta la volontà della Fiat di disdire il contratto di lavoro dei metalmeccanici e di uscire dalla Confindustria.
Tutto questo rappresenta una palese rottura delle regole consolidate e delle norme e assegna all’azienda un potere spropositato e illegittimo. Come può un’azienda pretendere d'essere lei a poter sanzionare un sindacato o una Rsu? Nello svolgimento della libera (finora) attività sindacale, che proclama uno sciopero contro un accordo (che, in questo caso tra l’altro non li coinvolge), assumendo il ruolo di giudice pur essendo parte in causa? Quale legge o contratto lo permettono? Come può un’azienda non versare le quote malattia, a prescindere (e contro?) i controlli di enti pubblici predisposti se non calpestando leggi e contratti? Quale arbitrio può consentire a un privato di non applicare i trattamenti previsti dalle leggi elettorali? Com’è possibile pretendere che gli addetti a lavori ripetitivi e a catena lavorino otto ore consecutive senza pause? E' una pretesa incivile che favorisce oltretutto gli infortuni. In ultimo quali regole intende sostituire la Fiat al Contratto di lavoro?
La volontà della Fiat, che in questo traccia la strada a tutto il padronato, è quella di sostituire alle norme di leggi e di contratti che regolano il rapporto di lavoro le sue norme, le sue leggi e i suoi contratti (e i suoi sindacati e i suoi lavoratori). Chi si oppone è fuori. Tutto ciò con il pretesto del mercato e della globalizzazione: chi vuole lavorare può farlo solo a condizioni che rendano “competitive” le aziende con i costi del lavoro dei Paesi poveri (India, Serbia, Polonia, Cina, ecc.) con i quali ingaggiare una lotta al ribasso dei costi e dei diritti della manodopera.
A essere tenuti fuori dal lavoro non sono quindi i tre licenziati di Melfi, ma tutti quei lavoratori che non si piegano alla barbarie e alla prepotenza. La lotta dei lavoratori di Melfi deve essere la lotta di tutti i lavoratori. Non è pertanto retorica dire di essere al fianco dei lavoratori licenziati della Fiat di Melfi e contro la prepotenza e l’arbitrio.

sabato 21 agosto 2010

Un diritto per ogni occasione. Il diritto dei padroni oggi

Il diritto del lavoro si occupa di disciplinare tutte le materie riguardanti il rapporto di lavoro. Esso spazia dalla regolamentazione delle relazioni tra imprenditore e lavoratore a quella delle relazioni sindacali tra sigle dei lavoratori e quelle delle imprese, a quella relativa alle assicurazioni sociali e previdenziali. Quella relativa al lavoro è una delle branche del diritto che risente di più dell'influenza della situazione politica generale, perché traduce in norme e leggi le concezioni ideologiche di riferimento che prevalgono. E dominano.
Il diritto dei lavoratori si è modificato in base ai rapporti di forza in campo. E' migliorato e ha portato a conquiste in determinati periodi di iniziativa (anni '60 e '70), ha subito pesanti arretramenti quando è venuta meno l'iniziativa sindacale e se ne sono interessati “politici ed economisti” (dei padroni). Senza pretendere di addentrarsi in una disquisizione giuridica, si può certamente affermare che il diritto non è mai uguale per tutti i cittadini e quindi anche per i lavoratori e imprenditori o padroni.
La conquista di un diritto per i lavoratori equivale alla perdita di un privilegio per gli imprenditori.
Lo Statuto dei diritti dei lavoratori, ad esempio, per legge nel 1980 introdusse dei diritti prima negati ai cittadini-lavoratori nel momento in cui entravano in azienda o in ufficio e vietò alcune prerogative tipiche del padronato: divieto per l’imprenditore di indagare sulle opinioni dei lavoratori; divieto dei controlli sanitari praticati dai medici di fiducia aziendali; diritto per i lavoratori a una procedura certa e non unilaterale in caso di sanzioni disciplinari comminate dall’imprenditore; tutela della salute e dell’integrità fisica del lavoratore; agevolazioni riguardanti il diritto allo studio; libertà di iniziativa assistenziale nei luoghi di lavoro per i patronati; regole certe per l’assegnazione di mansioni e categorie contrattuali; diritto di associazione sindacale in azienda; diritto a non essere discriminato, economicamente o nel lavoro, a seguito di una affiliazione sindacale o della adesione ad uno sciopero; divieto per l’imprenditore di costituire sindacati di comodo o gialli; diritto a essere reintegrato nel posto di lavoro per il lavoratore licenziato per un motivo illegittimo e senza giusta causa; diritto di svolgere attività sindacali in azienda; diritto alle assunzioni numeriche e non alla chiamata nominativa dell’imprenditore; ecc. ecc. ecc. La legge prevedeva inoltre, per la prima volta, la possibilità che potesse essere legalmente represso un comportamento antisindacale eventualmente messo in atto da un imprenditore. Lo Statuto, insieme ad altre leggi e contratti, iniziò a spostare i diritti verso i lavoratori e a limitare il privilegio e l’arbitrio padronale.
Conquiste di civiltà così importanti furono rese possibili grazie alle lotte e alla capacità di protagonismo dei lavoratori degli anni Sessanta e Settanta, senza le quali quei diritti, che erano già riconosciuti sulla carta dalla stessa Costituzione ma non applicati al cittadino italiano al momento di entrare in fabbrica, sarebbero ancora negati. Il padronato fu costretto a rinunciare al proprio totale arbitrio nei posti di lavoro.
Le conquiste ottenute non furono pertanto una gentile e civile concessione padronale né, tantomeno, un democratico riconoscimento di libertà sancito dalla Costituzione, ma il risultato ottenuto sulla spinta di quelle lotte e sui rapporti politici di forza a favore dei lavoratori esistenti in quegli anni. La storia insegna che nessun progresso della civiltà è scontato per sempre. Se non si difendono le conquiste ottenute, si torna indietro. E’ ciò che sta accadendo. A quella stagione di lotte e di conquiste ne è seguita un’altra, tuttora in atto. Molti dei diritti di libertà sono stati vanificati o cancellati. Anzi si mettono esplicitamente in discussione addirittura norme costituzionali, come il diritto di sciopero (basti vedere a quanto è avvenuto alla Fiat di Pomigliano).
Cosa ha reso possibile questo capovolgimento della situazione che ha determinato la riconquista e il recupero da parte del padronato di buona parte dei privilegi ottenuti con le lotte del sessantotto? La scomparsa di quelle forze politiche e sindacali che fondavano la loro azione sulla lotta alle discriminazioni e all'ingiustizia sociale di classe. Tutto questo naturalmente in un quadro di fattori, anche internazionali, legati alla dissoluzione dei sistemi socialisti, a cominciare dall’Urss.
L’abbandono del metodo di analisi di classe ha portato allo snaturamento della Cgil e alla cancellazione del Partito comunista italiano e di quello socialista storico. Al loro posto sono sorti partiti interclassisti che hanno sostituito, al metodo marxista dell’analisi di classe, il liberismo e il mercato. Questo percorso è coinciso con la negazione dell’ingiustizia sociale e con la pretesa esistenza di una libertà e di una democrazia asettiche e immaginarie, svincolate dalla realtà dei rapporti sociali e di classe esistenti.
Era inevitabile a questo punto che il padronato approfittasse della situazione, recuperando il privilegio originario e cancellando buona parte delle conquiste dei lavoratori, anche in termini di diritto del lavoro. Quello che è peggio è che su questa strada il ruolo peggiore sia stato interpretato da personaggi “insospettabili”, provenienti proprio dalle file del Pci o del Psi o della Cgil. “Illuminati” giuslavoristi, un tempo appartenenti proprio alle file di quei partiti e sindacati, adducendo ragionamenti di pretesa democrazia astratta, svincolata dai rapporti sociali e dai bisogni, sostenuti da ragioni di diritto fumose e teoriche (a favore del padronato nella sostanza), prive di qualsiasi riferimento legato all’ingiustizia sociale e di classe, sono arrivati a schierarsi contro le loro stesse posizioni di qualche decennio prima. Fino alla recente vicenda della Fiat di Marchionne, con l'attacco alla Fiom e la condivisione e il sostegno dell’accordo di Pomigliano, con tutti i risvolti giuridici legati ai diritti costituzionali negati e i licenziamenti di Melfi. Anzi addirittura elevando tale accordo a modello e attaccando quella parte di sindacato "attardata" su posizioni e politiche "vecchie e superate", legate alla contrattazione dei lontani anni settanta.
Quei “teorici” del diritto del lavoro, quei partiti e sindacati e i loro dirigenti folgorati sulla strada di Damasco dalle “ragioni” del padronato, del liberismo e del mercato, negando le loro originarie convinzioni (verrebbe da chiedersi quanto sincere e genuine), hanno contribuito a vanificare le lotte dei lavoratori rendendo necessaria e indispensabile una nuova stagione di iniziativa e di conflitto. Costoro, i loro partiti e i loro sindacati, nella loro nuova logica interclassista dell'inesistenza dell'ingiustizia sociale e del privilegio, hanno agevolato e sostengono il padronato nel recupero dei privilegi. E hanno privato i lavoratori degli strumenti politico-organizzativi per la loro sacrosanta battaglia per l'emancipazione e la giustizia sociale.

mercoledì 18 agosto 2010

Venditori di fumo

I gruppi di potere politico ed economico stanno combattendo quello che può essere lo scontro finale di questa legislatura. I recenti scandali, che hanno coinvolto il ceto politico di maggioranza e di “opposizione”, sono il segno più evidente della “qualità” della lotta politica in atto, svolta senza esclusione di colpi fra gruppi di potere attraverso gli espedienti più degradanti elevati a strumento e metodo di “confronto politico”. La dialettica delle idee e delle posizioni è sostituita da campagne personalistiche denigratorie, più o meno fondate, che evidenziano l’assenza di diversità politiche di fondo fra i partiti di governo e quelli di “opposizione” che recitano nel teatrino.
Il loro “confronto democratico” non si occupa dell’estremo disagio in cui si trova la stragrande maggioranza di cittadini, lavoratori con stipendi bassissimi e spremuti dal fisco, giovani precari o disoccupati senza futuro, pensionati costretti a fare i conti con pensioni da fame. Si affanna invece attorno a questioni lontane dai bisogni e dalle attese dei ceti popolari.
Il Partito democratico e altri “oppositori” del morente governo Berlusconi, infatti, si stanno facendo in quattro per formare, in vista di una imminente crisi, un cosiddetto governo “tecnico” di “transizione” a tempo, che dovrebbe affrontare esclusivamente le “emergenze”. Queste per il Pd sarebbero: una nuova legge elettorale, una legge che garantisca realmente il pluralismo e la correttezza dell'informazione con un mandato temporalmente chiaro e un intervento per affrontare l'emergenza economica. A capo di questo governo andrebbe bene chiunque meno che l’attuale Presidente del consiglio. Il Pd è pronto, pur di liberarsi di Berlusconi, anche a “alleanze innaturali” (con i post fascisti?) pur di evitare elezioni anticipate. Sarebbe disposto perfino ad accettare una presidenza di Tremonti, ovvero l’artefice dell’attuale disastro economico per i lavoratori.
Il rimedio individuato dai "democratici" sarebbe, se possibile, peggiore del male (Berlusconi). Il Pd vorrebbe dare a intendere che per affrontare le questioni del sistema elettorale e del pluralismo, nonché quella non meglio definita “dell’emergenza economica” (tutto l’insieme cioè delle questioni fondanti per un sistema democratico) dovrebbe essere un “governo tecnico”. Un governo asettico, cioè “emancipato” dal controllo dei partiti e da interessi economici di parte che agisca per il bene superiore del Paese. Di tutto il Paese: ricchi, poveri, occupati e disoccupati, tutti insieme. Un governo che, alla fine, fungerebbe da specchietto per le allodole per i soliti noti chiamati come sempre a pagare. Il Pd si guarda bene, infatti, dall’avanzare richieste sulle questioni economiche. Per esempio si potrebbe proporre una aliquota sui grandi patrimoni o tassare le rendite e le plusvalenze di borsa, oppure introdurre strumenti di difesa dei redditi con una nuova scala mobile, o una politica per l’occupazione, con l’obbligo di reinvestimento degli utili aziendali e un sostegno economico per i giovani e gli espulsi dai processi produttivi, ecc. ecc. ecc.
I lavoratori, i disoccupati e i pensionati sanno per esperienza che niente di tutto ciò sarà fatto: alla fine saranno sempre loro a pagare e qualsiasi governo (di centrodestra, di centro"sinistra" o "tecnico") alla fine scaricherà su di loro i costi dell’emergenza economica. Queste sono state le politiche economiche di tutti i governi, di qualsiasi colore, che si sono succeduti negli ultimi venticinque anni e che hanno prodotto un immenso spostamento di ricchezza a favore dei più ricchi e a danno dei lavoratori, con stipendi e pensioni più bassi, tasse crescenti per i soli redditi fissi, disoccupazione, precarietà e perfino povertà.
Lo stesso sistema “democratico” del Paese ha subito una pesante involuzione, con il fattivo contributo dei partiti di tutti gli schieramenti, con il sistema maggioritario e l’accentramento dei mezzi di comunicazione di massa che hanno prodotto un sistema “democratico parlamentare” nel quale sono estromesse formazioni politiche alternative che siano espressioni delle istanze dei discriminati e degli sfruttati.
Il “governo tecnico” serve solo a distrarre il popolo dai suoi reali e quotidiani problemi e a dare modo al ceto politico di centrodestra e di centro”sinistra”, portatori sostanzialmente delle stesse politiche, di scontrarsi fra loro per il potere economico e politico e per la supremazia dei rispettivi gruppi economici.

mercoledì 11 agosto 2010

Le lotte dei lavoratori e i sabotaggi dei padroni

Tre operai dello stabilimento Fiat di Melfi, in provincia di Potenza (due dei quali delegati della Fiom), hanno vinto la loro battaglia. Erano stati sospesi e poi licenziati in tronco dalla Fiat, con l'accusa di aver ostacolato il percorso di un carrello robotizzato durante un corteo interno. Il blocco del carrello robotizzato, secondo l'azienda, impediva di lavorare agli operai che non partecipavano allo sciopero e al corteo interno. Ora un giudice del lavoro ha deciso che possono tornare al lavoro. Il giudice ha annullato il provvedimento, ritenendolo "antisindacale" e ha ordinato l'immediato reintegro dei tre nelle rispettive mansioni professionali.
“È una decisione importante - commenta Landini segretario nazionale della Fiom - che rende una grande soddisfazione innanzitutto per aver ripristinato la dignità dei tre lavoratori coinvolti, che vedono il loro reintegro e la clamorosa smentita di tutte le accuse stupide di sabotaggio”. Il secondo motivo di soddisfazione è che, prosegue Landini, “abbiamo fatto bene come Fiom a denunciare la Fiat per comportamento antisindacale perché la condanna espressa dal giudice rende evidente le forzature messe in atto dall'azienda. Il tentativo di mettere in un angolo la Fiom anche con questi licenziamenti”.
Il teorema ”Lotte uguale eversione o sabotaggio” è stato smontato e sarebbe opportuno che si scusassero quanti vi hanno fatto riferimento, a cominciare da personalità istituzionali o rappresentanti degli imprenditori. Il leader sindacalista commenta anche le parole sulla vicenda del presidente della Confindustria, Emma Marcegaglia: “Il presidente Marcegaglia farebbe bene ad informarsi, prima di parlare. I lavoratori hanno difeso il loro diritto al lavoro. Non sono i lavoratori che vanno in giro a sabotare, ma quelli che vogliono violare la Costituzione”. Landini chiede poi al leader degli industriali di attivarsi verso la Fiat: “Farebbe bene che chiedesse alla sua associata Fiat - continua Landini - di tornare sui suoi passi. È un fatto importante e significativo - aggiunge - anche per la vicenda di Pomigliano. In sostanza il messaggio politico è chiaro: la Fiat deve tornare a trattare con i sindacati e soprattutto con la Fiom, per il premio di risultato e le condizioni di lavoro negli stabilimenti. Ma c'è anche un messaggio per i sindacati, che devono essere veramente dalla parte dei lavoratori e non accettare a scatola chiusa pseudo-accordi preconfezionati”.
Davanti a questa sentenza che rappresenta solo una fase, per ora favorevole, della lotta dei lavoratori contro il tentativo prepotente della Fiat di stravolgere le regole, il Contratto di lavoro e gli stessi diritti costituzionali dei lavoratori, non si può non pensare alla violenza personale subita dai tre lavoratori coinvolti in questa vicenda. La sentenza ripristina sì il loro diritto contro il licenziamento ingiusto e motivato dalla volontà antisindacale della Fiat, tesa a dare un esempio e un avvertimento ai lavoratori su chi veramente comanda in azienda e nel Paese; non ripaga però il torto subito e non punisce adeguatamente chi lo ha provocato: il padrone che colpisce i lavoratori privandoli del lavoro.
La legge e il senso comune impediscono a qualsiasi individuo civile comportamenti che arrechino danni o sofferenza ad altri. Perfino gli animali sono tutelati da norme che puniscono anche penalmente un individuo che procura loro sofferenza o li abbandona. Questo non vale per il cittadino quando diventa lavoratore perché evidentemente è titolare di un diritto diverso e minore.
Il giudice nell’emettere la propria sentenza di reintegro dei lavoratori nel proprio posto di lavoro, riconosce il loro diritto e ordina all’azienda che ha posto in essere il comportamento antisindacale di cessare tale comportamento: “Il datore di lavoro che non ottempera al decreto, di cui al primo comma, o alla sentenza pronunciata nel giudizio di opposizione è punito ai sensi dell'articolo 650 del codice penale” (legge 20 maggio 1970 n.300 articolo 28). Nulla però può decidere per il danno e la violenza subita dagli operai, perché lo Statuto dei lavoratori non lo prevede. D’altra parte chi, dopo una esperienza del genere, avrebbe il coraggio e la voglia di agire penalmente contro l’azienda che ti ha colpito e dove continui a lavorare?
Perdere il proprio posto per un lavoratore e la sua famiglia vuole dire perdere il proprio presente e futuro. Non avere più gli strumenti utili a garantire la propria libertà e la propria esistenza. Non è una cosa da poco. E’ facile immaginare come si siano sentiti i tre operai e come abbiano vissuto i giorni che sono passati dal licenziamento alla sentenza. Le loro sofferenza e quelle dei loro familiari rimarranno impunite e personalmente impunito sarà chi le ha causate.
Questa vicenda dimostra quanto sia difficile e faticoso ancora oggi lottare per affermare i diritti di uguaglianza e di libertà, che oggi si tende a dare per scontati mentre non lo sono e quanto cammino ci sia ancora da fare su questa strada.
Con questa sentenza ne è stato percorso solo un piccolo tratto.
P.s. Giunge notizia circa la volontà della Fiat, dopo aver pure presentato apposita denuncia penale sulle circostanza che hanno causato i licenziamenti, di voler ricorrere contro la decisione di reintegro dei tre licenziati di Melfi, in quanto la stessa “non appare coerente con il quadro istruttorio già emerso (?) nella convinzione di aver offerto prove incontrovertibili del blocco volontario delle linee di montaggio, che ha determinato un serio pregiudizio per l'azienda costringendola ad assumere doverosi atti di tutela della libertà di tutti i lavoratori e della propria autonomia imprenditoriale, verrà quindi presentato ricorso in opposizione alla decisione nel più breve tempo possibile”.
La Fiat intende perseverare nella sua condotta, secondo quanto affermato, per tutelare i propri interessi e soprattutto la libertà dei lavoratori, in particolare di quelli che continuano liberamente a lavorare (e a subire) mentre i loro colleghi criminali lottano e “sabotano la produzione”. La Fiat si preoccupa della libertà dunque. Non della libertà di tutti però, ma solo di quella di chi non si oppone ai suoi interessi e si adatta alla sua volontà.

lunedì 9 agosto 2010

L'utilità sociale degli "(im)prenditori di profitto"

I dati macroeconomici confermano costantemente che, mentre l’economia si sta “riprendendo”, questo non si traduce in benefici per lavoratori e disoccupati.
L’Istat rileva che in Italia riparte la crescita sia del Pil (Prodotto interno lordo), che della produzione industriale. Il Pil aumenta dell’1,1 per cento nel secondo trimestre su base annua, dello 0,4 per cento su base mensile. L'incremento su base annua è il valore più alto dall'inizio della crisi. Per trovarne uno superiore bisogna tornare al più 1,5 per cento segnato nel terzo trimestre del 2007. La produzione industriale a giugno ha registrato un aumento dell'8,2 per cento (indice corretto per gli effetti di calendario) rispetto allo stesso mese del 2009 e dello 0,6 per cento rispetto a maggio 2010. Si tratta, comunica l'Istat, del migliore risultato tendenziale dal dicembre del 2000. L'istituto precisa che la variazione dell'indice grezzo su base annua è dell'8,1 per cento.
Questa performance positiva dell’economia non produce però ricadute altrettanto benefiche per i lavoratori. Alla consistente massa di disoccupati, sottoccupati e precari infatti si aggiungeranno, secondo le stime della Cgia (Confederazione generale italiana dell’artigianato) di Mestre, entro la fine dell’anno, altri 70mila posti di lavoro, facendo attestare a 180mila le perdite nel solo anno 2010 (rispetto al 2009) e a 561mila i posti di lavoro bruciati nell’ultimo biennio.
I dati dimostrano che la fase di recupero che sta vivendo l’economia non si traduce, né si tradurrà perlomeno a breve termine, in nuova occupazione. I benefici di questa situazione economica andranno tutti in maggiori introiti per gli industriali e per gli “investitori”. Ai lavoratori rimarranno disoccupazione, meno salario, lavoro precario, maggiori ritmi di lavoro e perdita di diritti consolidati.
L’investimento dei suoi soldi per un capitalista non ha per fine la creazione di posti di lavoro, ma la ricerca del massimo guadagno. L’investimento non è finalizzato alla creazione generosa e disinteressata di posti di lavoro ma allo scopo di incrementare gli utili. Tanto è vero che quando questo incremento non si produce o c’è un decremento dei guadagni, l”imprenditore-investitore” (e non benefattore), riduce il personale e licenzia, venendo meno al ruolo di “datore di lavoro”.
La fase di crisi e di calo di occupazione è stata perciò la conseguenza diretta di una diminuzione di profitti per il grande padronato, che con la crisi non ha visto sfiorato il proprio patrimonio. La crisi ha causato per quest’ultimo solo una diminuzione dei guadagni, ma non ne ha intaccato le ricchezze, che sono continuate a crescere. Questo quadro di generale depressione non ha modificato il suo stile benestante e l’alto tenore di vita. I lavoratori, invece, perdendo il lavoro hanno visto sfumare l’unico strumento di guadagno, col risultato del tracollo delle loro condizioni economiche e delle loro attese per il futuro. I disoccupati rimangono così esclusi dai processi produttivi e dalla possibilità di vivere civilmente. I precari e i lavoratori del sommerso vivono invece al di sotto della soglia di sopravvivenza. Oggi questi generici segnali di “ripresa” non modificano la situazione: i lavoratori continuano a perdere lavoro, soldi, diritti e servizi; gli “imprenditori” invece si arricchiscono comunque, cambiano solo le entità dei guadagni.
I “datori di lavoro”, o i “prenditori di profitto”, hanno la possibilità di fare ciò che riesce loro meglio: approfittare il più a lungo possibile della situazione contingente. Non investono i loro capitali perché guadagnano comunque e, se “investono”, delocalizzano all’estero. Il calo dell’occupazione, mentre il Pil e la produzione industriale crescono, dimostra proprio questo.
In conclusione, contrariamente a quanto riportato nell’articolo quarantuno della Costituzione, l'iniziativa economica privata è certamente libera, ma lungi dallo svolgersi per l’utilità sociale o in modo da non arrecare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana, si caratterizza nei fatti esclusivamente per la ricerca del massimo profitto e tornaconto. Tutto il resto viene dopo.

giovedì 5 agosto 2010

La ripresa economica per il padronato e la crisi per lavoratori e disoccupati

Il padronato continua a manovrare per aumentare i suoi profitti delocalizzando, riducendo il personale (con licenziamenti diretti o indiretti o cassa integrazione) e disdicendo i contratti nazionali di lavoro seguendo l’esempio Fiat-Pomigliano, scaricando sui lavoratori il costo delle riorganizzazioni e delle fusioni con altre aziende.
Unicredit prevede di tagliare 4.700 posti di lavoro nel 2011/2013, oltre alla fuoriuscita dal gruppo di 10mila lavoratori già verificatasi dal 2007 a oggi e di altri 1500 lavoratori che hanno seguito la cessione ad altre banche di 500 sportelli.
Telecom ha annunciato il licenziamento unilaterale di oltre 6.800 lavoratori. Grazie a un'intesa sindacale che prevede “solo” 3.900 uscite, i licenziamenti sono diventati "esuberi volontari". Questo “significativo” passo avanti è stato reputato fondamentale nelle relazioni tra Confindustria e sindacati. E', come ha precisato Emilio Miceli, segretario generale della Slc-Cgil (sindacato di categoria dei lavoratori telefonici iscritti alla Cgil) "un modello possibile di relazioni industriali e di gestione nuova, moderna, degli esuberi". In conclusione o ti caccia l'azienda o te ne vai da solo con alcuni mesi di stipendio concordato e qualche gratifica (a carico di chi?). Il sindacato anche in quest’occasione “accogliendo” le richieste della Telecom “favorisce” l’uscita di questi lavoratori concordando l’uso dei cosiddetti ammortizzatori sociali, che attutiscono l’impatto della cessazione del rapporto di lavoro per i lavoratori interessati, ma certificano di fatto la perdita dei quasi 4mila posti di lavoro. Nell'arco del triennio, inoltre, Telecom s’impegna a non effettuare societarizzazioni o esternalizzazioni per le attività di customer operations e nemmeno l'esternalizzazione di attività informatiche o di staff, comprese Hr Services e Ssc (cioè per il settore delle risorse umane e dell'informatica).
In una fase in cui non si contano gli accordi separati, quello su Telecom vede invece la firma di tutte le sigle. E proprio la forza dell'unità sembra essere stato l'elemento “vincente”: secondo la Cgil, infatti, «la forte tenuta unitaria del sindacato è stata fondamentale per il risultato raggiunto», mentre la Cisl parla di «grande conquista del sindacato». A giudizio della Uil l'intesa segna il ritorno a un «buon sistema di relazioni industriali» e l'Ugl parla di «accordo che rimette al centro il lavoratore». Per l'azienda, infine, l'ad Franco Bernabè ha dichiarato che «la firma di quest’accordo, che realizza interamente i nostri obiettivi di efficienza previsti nel Piano, garantisce il rispetto e la tutela dei lavoratori». Questo “capolavoro”, che il sindacato unito definisce “vincente”, fa passare interamente le “logiche” aziendali di efficienza e profitto a scapito dell’occupazione e si realizza nonostante l’utile netto nel 2009 di Telecom sia stato di 1.578 milioni di euro, pur con un debito colossale di 34 miliardi di euro (di cui sarebbe opportuno approfondire le cause). Perché la Telecom licenzia e riduce i posti di lavoro se è in utile? Forse per incrementare il precariato e con esso gli utili, come avvenuto con i call center?
A questi casi clamorosi di riduzione del lavoro se ne aggiungono innumerevoli altri di piccole aziende che stanno seguendo il contagio Fiat teso a scaricare tutto sulle spalle dei lavoratori. Di questo fenomeno è difficile stabilire le esatte dimensioni, anche se, da quanto è dato sapere, la disoccupazione sta crescendo. Illuminanti sono, a questo proposito, i dati relativi alla Cassa integrazione guadagni straordinaria, cassa sovvenzionata dai contributi previdenziali versati dai lavoratori che viene attivata in caso di crisi aziendali consistenti, per integrare i mancati guadagni dei dipendenti interessati. Le cifre segnalano un aumento del 9,8 per cento a luglio delle richieste di cassa integrazione rispetto al mese precedente.
Licenziamenti, esuberi volontari, cassa integrazione, ma non avevano giurato che la crisi era finita? Forse sì, per loro.

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mercoledì 4 agosto 2010

Mozione di sfiducia all’imperatore e ai suoi cortigiani

L’esclusione della rappresentanza politica della classe dei discriminati e degli oppressi, avvenuta con le ultime elezioni politiche, fa prevalere un “confronto politico”, in Parlamento, ristretto ai soli raggruppamenti politici rappresentanti del blocco sociale che si richiama al liberismo e al mercato. Quello, per intenderci, della grande borghesia e del grande capitale, che delimita il “confronto politico” all’interno del proprio campo, escludendo perciò i partiti portavoce e rappresentanti degli sfruttati, degli oppressi e dei discriminati, privati di voce e di rappresentanza parlamentare.
L’esclusione dal Parlamento di ogni forma di presenza politica alternativa su base di classe è avvenuta grazie a una cooperazione politica congiunta dei partiti di centrodestra con quelli di centro”sinistra”, che alla fine sono riusciti a occupare l’intera rappresentanza parlamentare. In Parlamento sono presenti quindi solo partiti politici che si richiamano al liberismo e al mercato, che esprimono perciò esclusivamente le istanze e gli interessi del padronato, della grande borghesia e della Confindustria, alternandosi nella conduzione del Paese ma mantenendo, con delle marginali differenziazioni, la stessa barra di rotta.
I problemi fondamentali emersi in questi anni hanno visto conseguentemente una sostanziale continuità di azione, a prescindere dal “colore” di chi ha governato: la lotta al “terrorismo internazionale” e gli interventi armati fuori dai confini nazionali; le politiche sociali (pensioni e previdenza, sanità, scuola, ecc.); le tasse; le politiche di tagli a senso unico per il risanamento del debito pubblico; le varie “riforme” istituzionali susseguitesi; la ”riforma” elettorale in senso maggioritario, ecc. ecc. ecc. E’ difficile, su questi e su altri temi, trovare differenze di fondo fra le linee seguite dai governi succedutisi. Tutto ciò è stato agevolato dalla mutazione genetica di quei partiti che sulla carta avrebbero dovuto sostenere linee e tesi politiche sociali diverse e alternative e che invece sono diventati i paladini preziosi del liberismo, del mercato, della flessibilità (precarietà) e delle privatizzazioni, adeguandosi in toto alle linee politiche ed economiche della destra ed entrando cosi, di fatto, in competizione con essa, contendendole la sua stessa base di riferimento sociale. Entrambi gli schieramenti si battono apertamente, senza esclusione di colpi, per ottenere i consensi e i favori di padronato, borghesia e Confindustria, non rinunciando al tempo stesso a politiche demagogiche e populiste per carpire il voto anche di lavoratori, pensionati e disoccupati, ormai privi di rappresentanza politica in Parlamento.
Il loro “agire politico” non è più in difesa di interessi contrapposti a quelli dei privilegiati, ma in rappresentanza di gruppi di potere economico in lotta fra loro per la supremazia, alleati però contro il loro avversario di sempre: i lavoratori e i loro movimenti. Le forme della loro “lotta politica” sono per questo cambiate rispetto a quelle degli anni Ottanta. Non sussistendo contrapposizioni di fondo e di classe, lo “scontro” è trasceso sulla sfera personale dell’onestà e della “morale”, arrivando a livelli di astio, livore, inciviltà, smodatezza inusitati (nel contendersi il posto a capotavola) e da basso impero. Come quei cortigiani che tramavano continuamente contro l’imperatore, non per abbatterne il sistema dittatoriale, ma per sostituirsi all’imperatore stesso.
A questo ha fatto riscontro un fenomeno sconosciuto finora, perlomeno in queste dimensioni, quello dei cambi di campo. Dirigenti politici che appaiono fieri avversari fino all’insulto diventano sodali. Politici di uno schieramento che trasmigrano nell’altro e viceversa. Fino ad arrivare al caso paradossale in cui il principale avversario e oppositore dell’imperatore di turno era nel recente passato il suo più stretto collaboratore e co-dirigente. Un "ex fascista", a quanto pare attuale punto di riferimento e paladino dell’altro schieramento di centro”sinistra”!
Questi “scontri politici” e queste “rese dei conti” lasciano immutata la realtà politica e sociale. La continua riproposizione di governi “tecnici” avanzata oltretutto dal centro”sinistra” dimostra, ancora una volta se ce ne fosse bisogno, che davanti ai problemi economici reali per costoro esiste una sola ricetta “oggettiva” o “tecnica” che vale per tutti gli “schieramenti”: gli interessi del padronato.
Diciamogli basta. Lasciamoli con le loro beghe di bottega mascherate da polita alta. Riprendiamoci la politica e ricostruiamo la presenza e la rappresentanza politica e sindacale di classe dei lavoratori, disoccupati e degli oppressi in generale.

lunedì 2 agosto 2010

L’automobile e la libertà vista dal finestrino

Decenni di martellanti e ripetute campagne pubblicitarie sono riusciti a far considerare l’auto privata come lo strumento principale per la realizzazione e l’appagamento del desiderio di libertà individuale, superiorità e competitività verso e contro gli altri. E’ l’automobile che ci rende liberi, più di ogni altra cosa. Con l’auto sono a casa mia, parto quando voglio e vado dove voglio senza rendere conto a nessuno e spesso contro l’automobilista che mi sta accanto, nell’interminabile coda che anch’io sto facendo.
Lentamente siamo arrivati a non desiderare altra libertà fuori che quella che ci può dare l’auto e non ci accorgiamo che questo simulacro rappresenta invece il simbolo prediletto dei nostri condizionamenti e schiavitù. Quest’operazione di persuasione ci ha indotto a pensare che il mondo che conosciamo, costruito intorno all’auto, sia l’unico e il migliore possibile e realizzabile. Non esistono, né possono esistere stili di vita legati a parametri diversi. Poco importa passare buona parte della nostra vita al lavoro per permetterci una macchina, acquistarla e mantenerla efficiente, revisionarla, fare bollini blu, pagare il bollo, l’assicurazione, il carburante con il suo pesantissimo fardello fiscale, l’Iva, i pedaggi autostradali (sempre più cari a vantaggio di altri privati “imprenditori” che lucrano su autostrade realizzate con i soldi delle tasse che paghiamo). Ma anche le innumerevoli strade locali, comunali, regionali, statali, in perenne crescita, che erodono il verde e la natura e la ricoprono di catrame. Strade che sono lo strumento complementare, pagate anch’esse con i nostri soldi, senza le quali le auto non avrebbero possibilità di esistere. Poco importa respirare gas di scarico invece che aria pulita. Poco importa passare una buona parte di tutte le nostre giornate incolonnati a seguire una libertà che corre più veloce di noi. Paghiamo prezzi così alti, senza rendercene conto, ma l’auto non ci dà la libertà. Al contrario peggiora la nostra vita, dandoci l’illusione di renderci liberi, condizionando nella realtà il nostro tempo e le nostre abitudini.
La macchina privata sopperisce inoltre alla carenza di servizio pubblico, legato ai costi di mercato e senza più l’obiettivo di scoraggiare l’uso di mezzi privati, spesso a causa della sua scadente qualità e dei costi elevati. Proprio oggi però, Federauto segnala preoccupata: “Crollo delle immatricolazioni del 26 per cento. Italia in controtendenza rispetto agli Usa, un vero disastro per tutti!”. E avanza l’ennesima richiesta al Governo di quattrini e di interventi di sostegno, dietro la minaccia della delocalizzazione, con conseguenti licenziamenti: “È importante che Fiat resti a produrre in Italia. Per questo serve un atteggiamento totalmente diverso di certi sindacati. In questo momento produrre in Europa non conviene più e tutti stanno smobilitando gli stabilimenti per delocalizzare”. Alla faccia del libero mercato e della competitività. Per mantenere questo tipo di sviluppo la Fiat e le case costruttrici hanno usufruito nel tempo di finanziamenti, rottamazioni, incentivi, Cassa integrazione guadagni, strade e autostrade e oggi chiedono la cancellazione dei diritti costituzionali dei lavoratori e turni massacranti (Pomigliano). Ma nonostante tutto questo hanno il coraggio di teorizzare il mercato e la competitività più sfrenati.
Perché la Fiat rivendica il mercato e l’autonomia “imprenditoriale” quando si tratta di distribuire sacrifici e “rigore” (o di delocalizzare) e poi bussa a denari pretendendo i soldi di tutti a difesa del ruolo “sociale” delle imprese? Sempre per lo stesso motivo: ”Salvare l’occupazione” dicono. Ci stanno imbrogliando, complici forze politiche e sindacali. Quello che vogliono salvaguardare non sono gli interessi della collettività, ma il loro profitto e i loro utili. Questi si che devono rimanere privati, le perdite possono essere tranquillamente socializzate.
Non li dobbiamo accontentare.
Signori capitalisti, diciamo no alla vostra libertà, al vostro finto modernismo, alla vostra decantata “libera concorrenza” con i nostri soldi e il nostro sudore. Va costruita invece una società dove non ci sia bisogno di avere un’automobile privata per essere liberi. Dove quando si respira non ci si avvelena, dove a prevalere non sia il principio di sopraffazione del più forte, o del più ricco. Con la macchina più grossa. Va costruita una società di uguali, dove non esista la ricchezza sfrenata e la povertà più assoluta. Va costruito un futuro intorno all’uomo, alle sue aspirazioni e ai suoi bisogni e non intorno a falsi e interessati miti di sopraffazione e di affermazione individuale. E soprattutto ai vostri guadagni.