lunedì 16 dicembre 2013

La sinistra e le classi

Alcune considerazioni attorno all’evoluzione politica di Rifondazione Comunista. Il partito è nato con l’obiettivo di rifondare il comunismo, arriva a registrare però, nel documento conclusivo del suo IX Congresso “l’assenza del conflitto sociale organizzato”. Non è questa una considerazione di secondaria importanza, ma il sintomo di una grave sconfitta per un partito di classe che ha l’ambizioso progetto di cui sopra. Allora o non esistono i presupposti di un conflitto sociale o il partito è incapace di interpretarlo, orientarlo e dirigerlo, visto che periodicamente questo conflitto esplode, anche se in forme e modi non sempre ortodossi come ad esempio con il “fenomeno Grillo “ o con quello dei forconi. Questa incapacità ha determinato il rischio che la protesta sia cavalcata dalla destra più becera e nera o da un populismo interclassista da uomo qualunque. A proposito delle ricorrenti difficoltà dei gruppi dirigenti dei partiti è utile rileggere un testo di Antonio Gramsci che sembra scritto oggi (Quaderno 3, nota 48. Passato e presente. Spontaneità e direzione consapevole) afferma: "... Trascurare o peggio disprezzare i movimenti cosi detti "spontanei", cioè rinunciare a dare loro una direzione consapevole, a elevarli a un piano superiore, inserendoli nella politica, può avere spesso conseguenze molto serie e gravi. Avviene quasi sempre che ad un movimento "spontaneo" delle classi subalterne si accompagna un movimento reazionario della destra della classe dominante, per motivi concomitanti. Una crisi economica, per esempio, determina malcontento nelle classi subalterne e movimenti spontanei di massa da una parte e dall'altra complotti dei gruppi reazionari che approfittano dell'indebolimento obiettivo del governo per tentare colpi di stato. Tra le cause efficienti è da porre la rinuncia dei gruppi responsabili a dare una direzione consapevole." Rinuncia dovuta " alla paura delle responsabilità concrete, nessuna riunione con la classe rappresentata, nessuna comprensione dei suoi bisogni fondamentali, delle sue aspirazioni, delle sue energie latenti, c'è un partito paternalistico di piccoli borghesi che fanno le mosche cocchiere..." “Il comunismo è un insieme di idee economiche, sociali e politiche, accomunate dalla prospettiva di una stratificazione sociale egualitaria, che presuppone la comunanza dei mezzi di produzione e l'organizzazione collettiva del lavoro, spesso affiancando a questi fondamenti anche opzioni internazionaliste”. Questa è una definizione data dalle enciclopedie al termine comunismo. Secondo questa definizione compito dei comunisti è costruire linee e azioni politiche, sociali ed economiche tese al perseguimento dell’uguaglianza fra i cittadini e i lavoratori di un paese e del mondo partendo dal presupposto che uguaglianza non c’è. Questa necessità si evidenzia oggi più che mai perché le differenze sociali invece di diminuire crescono e si cristallizzano. Compito dei comunisti sarebbe allora analizzare la realtà sociale ed economica e attivare tutte le iniziative necessarie per perseguire l’obiettivo dell’uguaglianza. Vedere come la realtà sociale influisce nel determinare o meno le differenze sociali, quali classi ne subiscono le conseguenze e quali invece ne traggono benefici. Nel documento del IX congresso di RC si evidenzia l’esistenza della crisi: “Una crisi che vede drammaticamente crescere il divario e insopportabili disuguaglianze fra aree del paese e classi sociali. Una crisi che colpisce le fasce più deboli della popolazione, fra cui giovani, donne, con una disoccupazione ai massimi storici e una precarietà divenuta esistenziale”. Viene individuato poi il che fare, in cosa si deve impegnare cioè RC:” Nella costruzione di un movimento di massa contro l’austerità, il PRC deve impegnarsi nel ridare centralità al conflitto sociale e di classe. I caratteri della crisi dimostrano l’attualità della critica marxista dell’economia politica e delle teorie economiche dominanti, della centralità del conflitto di classe, pur nelle rinnovate forme derivate dalla nuova composizione sociale del blocco sociale di riferimento”. E’ proprio in queste affermazioni che si rivela la debolezza dell’impianto di analisi. Si denuncia cioè l’esistenza di un conflitto di classe, ma non sono individuate le classi in conflitto, né in che modo si manifesta il conflitto stesso. Non si individua soprattutto chi è che determina la crescita della disuguaglianza sociale che si denuncia. Se la crisi fa crescere il divario sociale significa che c’è chi vede peggiorare le proprie condizioni economiche e sociali, mentre altri invece le migliorano. Chi sono gli uni e chi gli altri? Quali sono le classi in conflitto? Come si manifesta inoltre il conflitto stesso? E’ sufficiente individuare come fasce deboli i giovani, le donne e i disoccupati? Tutti i giovani?, Tutte le donne? A prescindere dalla loro condizione economica e sociale? La crisi ha inciso allo stesso modo su tutti i giovani e su tutte le donne oppure alcuni di loro non hanno risentito per niente della crisi, anzi hanno migliorato le proprie condizioni economiche? Se è così allora la crisi non ha colpito tutti i giovani e le donne ma solo alcuni. Ai giovani e alle donne vanno, però aggiunti tutti quelli che, a prescindere dall’età e dal sesso, non sono più in condizione di garantire a se stessi e ai propri cari un’esistenza libera dal bisogno e dignitosa: I disoccupati, i cassintegrati, i licenziati o i collocati in mobilità, i pensionati e tutti quelli che anche se hanno un lavoro sono costretti alla fame e alla miseria. Si può sostenere che tutti quelli che hanno pagato i costi della crisi appartengano alla stessa classe dei discriminati o dei nuovi proletari mentre quelli che hanno approfittato appartengano a un’altra classe: quella dei privilegiati perennemente in lotta per mantenere la condizione acquisita? La crisi, come dicono tutti gli indicatori economici, ha determinato un immenso spostamento di ricchezza a danno dei discriminati e a vantaggio dei vecchi e nuovi ricchi: I capitalisti di sempre, gli industriali, i ricchi e i padroni. Come hanno fatto questi ultimi a imporre “democraticamente”: Il taglio dei salari e delle pensioni, la disoccupazione, un sistema fiscale iniquo e di classe che dissangua i redditi fissi, il taglio non degli sprechi e delle ruberie ma della spesa pubblica a partire dallo stato sociale, sanità scuola, servizi e del decentramento amministrativo, senza scatenare un conflitto sociale. La politica economica di costoro si è imposta perché non è stata contrastata ne sul piano politico ne sul piano sociale. Non è stato denunciato l’egoismo e l’ingordigia che ha determinato il loro privilegio. Essi infatti spostano i loro capitali e aziende senza una opposizione di classe. E’ diventato prassi normale, grazie alla loro propaganda di classe, che un giovane sia senza lavoro, senza salario e futuro, mentre un vecchio sia costretto a subire con salari di fame e a lavorare fino alla fine dei suoi giorni. E’ diventato normale che anche davanti a una disoccupazione a limiti insopportabili, le aziende possano sotto pagare, precarizzare o condizionare il lavoro in base alla militanza politica dei propri dipendenti. Nessuno ha pensato di proporre, al momento del taglio delle pensioni, ad esempio, un limite ai profitti o imporne il reinvestimento per creare posti di lavoro. Il Parlamento di tecnici e partiti, al soldo dei capitalisti, con il loro operato e la loro demagogia fintamente interclassista, hanno tagliato solo da una parte, salari e diritti ai lavoratori per “salvare il Paese”, dall’altra hanno invece consentito alle imprese e ai padroni e ai privilegiati in generale, la massima libertà di azione e sfruttamento, per piegare i lavoratori a salari e condizioni di lavoro ai limiti della schiavitù. Se diminuisce il “costo del lavoro”, non si incrementa l’occupazione ma il profitto e si è visto. Le “riforme” Treu e Biagi, che precarizzano il lavoro, la “riforma” Fornero, che demolisce lo stato sociale, non sono leggi sbagliate, che alla luce dei fatti non hanno risolto il problema dell’occupazione giovanile, tutt’altro. Sono operazioni di classe attraverso le quali il padronato, servendosi del ceto politico e delle istituzioni, toglie diritti, libertà e reddito ai lavoratori per destinarli al profitto dei capitalisti che spadroneggiano nelle loro aziende e aumentano i loro profitti con i risparmi connessi. Queste, e tutte le altre “riforme”, che hanno peggiorato le condizioni dei lavoratori e pensionati, non sono il risultato di una politica di austerità per tutti. Sono viceversa gli strumenti attraverso i quali il padronato ha imposto i propri interessi, con il beneplacito di quella sinistra che si ostina a parlare di austerità o di quella che ha tradito. E’ prevalsa incontrastata sia sul piano culturale sia economico una linea di classe che ha favorito i ricchi e i padroni e danneggiato i nuovi proletari. La sinistra non ha inciso nei processi o si è invischiata in discorsi fumosi, da salotto e da elite. Ad affossare le condizioni economiche e i diritti dei discriminati non è l’austerità come è affermato nel documento congressuale Rc: “ L’austerità colpisce i diritti sociali anche attraverso il patto di stabilità imposto agli enti locali”. L’austerità è dovuta certamente alle politiche finanziarie dell’UE e delle banche, ma è soprattutto il risultato di un sistema economico, egoista e di classe che agisce con le logiche del mercato e che ritiene giusto e possibile che ci sia chi si possa arricchire a dismisura mentre altri non siano costretti a vivere senza nemmeno il necessario. Sono le leggi del mercato. Non va costruito quindi un movimento di massa contro l’austerità, ma contro coloro che determinano la crisi e la sfruttano a proprio vantaggio. Questi sono i grandi industriali a partire dalla Fiat e tutti quelli che, per il loro profitto e tornaconto, chiudono le loro aziende e de localizzano per andare a sfruttare discriminati (proletari) di altri paesi. Sono le banche e il capitale assicurativo e finanziario che investono se e dove a loro conviene. Costoro non sono costretti ad alcuna austerità e non subiscono la crisi. Invece di socializzare le perdite e privatizzare i profitti, come è stato fatto, va lanciata una politica di alternativa sociale e di classe. Va lanciata una campagna per la redistribuzione della ricchezza, vanno tassati i patrimoni, vanno rinnovati i CCNL con forti aumenti contrattuali, va ripristinata la scala mobile, va abolito il sostituto di imposta per i soli redditi fissi e vanno fissate imposte fortemente progressive sui patrimoni, vanno abolite le leggi Treu e Biagi, va cancellata la “riforma” delle pensioni Fornero, va ripristinato l’art. 18, ecc. Questo potrà essere possibile solo attraverso la chiara denuncia dell’esistenza dell’ingiustizia sociale e dello scontro di classe in atto e la costruzione di una forte opposizione sociale. Scontro sociale che vede il padronato all’attacco deve vedere i lavoratori alla riscossa e alla lotta invece che disorientati da sindacati e da una sinistra che li hanno svenduti alle ragioni del mercato e delle compatibilità capitaliste. Vanno perciò denunciati come nemici di classe coloro che attuano le politiche di sottomissione culturale, sociale ed economica dei lavoratori. Va denunciato chi, sotto la pelle di pecora di amico dei lavoratori, collabora attivamente per far passare il disegno di classe del padrone. La loro politica mercantile, sia in campo economico sia politico e sociale rappresenta lo strumento di sopraffazione di classe dei capitalisti sui proletari. Contro di essa va costruita la più larga opposizione, mobilitazione e lotta. Contro di essa va costruito il conflitto sociale su basi di classe. Questo sarà possibile se alle teorie incontrastate del mercato e del liberismo, la sinistra e i comunisti vorranno e sapranno contrapporre le loro teorie a partire da quelle dell’uguaglianza e della libertà dal bisogno e dal conseguente superamento della proprietà privata dei mezzi di produzione.