giovedì 30 dicembre 2010

La nuova "democrazia"

In democrazia ognuno può decidere se e da chi, se necessario, farsi rappresentare. All’interno del tanto decantato “libero” mercato è consentito, anzi garantito alle aziende, il diritto di farsi rappresentare in qualunque sede da rappresentanti di propria fiducia.
Questo ai lavoratori non è concesso. Essi, da oggi, dopo la firma dell’accordo su Pomigliano, possono essere rappresentati solo da chi decide il padrone. Cioè solo da sindacati e da sindacalisti che accettano e fanno propri la volontà e gli interessi padronali, barattandoli per quelli dei lavoratori, in barba all’articolo 19 dello Statuto che disciplina l’elezione e la vita delle strutture sindacali aziendali (Costituzione delle rappresentanze sindacali aziendali - Rappresentanze sindacali aziendali possono essere costituite a iniziativa dei lavoratori in ogni unità produttiva nell'ambito: a) delle associazioni aderenti alle confederazioni maggiormente rappresentative sul piano nazionale; b) delle associazioni sindacali, non affiliate alle predette confederazioni, che siano firmatarie di contratti collettivi nazionali o provinciali di lavoro applicati nella unità produttiva. Nell'ambito di aziende con più unità produttive le rappresentanze sindacali possono istituire organi di coordinamento).
”L’accordo sindacale” su Pomigliano, sottoscritto da Fiat Ugl, Fim Cisl, Uilm Uil, Fismic e l'associazione dei quadri Fiat, stabilisce una regola “innovativa”, secondo la quale nel posto di lavoro sono riconosciute come rappresentanze sindacali aziendali solo quelle aderenti alle sigle che hanno sottoscritto l’accordo (che definire capestro è riduttivo). Escludendo, in questo modo, i sindacati non firmatari o contrari all'accordo (in questo caso la Fiom) e tutti i lavoratori che a queste organizzazioni aderiscono condividendone le linee e le strategie. Poco importa, democraticamente parlando, se la Fiom è il sindacato di categoria più grande, perché raccoglie più iscritti di Fim e Uilm messe insieme.
Con questa intesa s’instaura un “moderno” sistema di “relazioni industriali”, che obbliga i lavoratori ad adeguarsi a tutti i costi a prescindere dai contenuti: se viene raggiunto un accordo, pur se sottoscritto da sindacati che rappresentano una minoranza di lavoratori, questo permette all’azienda di disconoscere ed ignorare la rappresentanza sindacale ed il sindacato dissenziente, pure se maggioritario in termini di consenso. Si cancella così l’esistenza stessa del conflitto sociale e d’interessi fra lavoratori e padrone, obbligandoli tutti ad essere uniti in un unico afflato patriottico a difesa del posto di lavoro e con esso (per le condizioni imposte) degli interessi padronali, unica garanzia di impiego e di progresso. Superamento di una visione dogmatica e massimalista vecchia ed ideologica o prevalenza degli interessi di una parte, quella capitalista? Sono ammesse solo le libere logiche del mercato, della competitività e del capitale, (cioè quelle del padronato): se si accettano queste si viene ammessi al tavolo delle trattative. Chiunque non si pieghi a ciò è escluso insieme ai suoi iscritti e deve stare fuori dai cancelli delle fabbriche.
Per Marchionne, Marcegaglia, Berlusconi, Bonanni, Angeletti, Fassino e D’Alema queste sono le nuove e moderne “regole democratiche”. Per Cisl e Uil non costituisce problema firmare un accordo che comporta l'esclusione di un altro sindacato.
Poco importa che queste “innovative” concezioni urtano violentemente anche con quanto riportato nell’articolo 17 dello stesso Statuto dei lavoratori, che in riferimento all’attività sindacale afferma: “È fatto divieto ai datori di lavoro e alle associazioni di datori di lavoro di costituire o sostenere, con mezzi finanziari o altrimenti, associazioni sindacali di lavoratori”. Associazioni che la stessa legge definisce: “sindacati di comodo”.
Nessun problema, basterà introdurre qualche “moderna e innovativa riforma” e il gioco è fatto.
E’ evidente che in gioco non c’è solo una disquisizione su ciò che è democratico e ciò che non lo è. Sono in discussione libertà e regole di convivenza. Leggi che tornano a essere anche in via di principio non più uguali per tutti, spostandosi ancora di più a favore del padronato che, sotto il ricatto del lavoro e della sua libertà di investire dove più gli torna comodo e gli conviene, toglie ai lavoratori e ai disoccupati libertà e diritti, coadiuvato da sindacati e forze politiche subalterni e di comodo, che operano per piegare i loro rappresentati al ricatto e all’interesse del capitalista di turno. Per il loro stesso tornaconto.
Afferma soddisfatto il leader della Cisl, Raffaele Bonanni: “Il Sud ha bisogno come il pane di accordi come quello di Pomigliano. Mentre un sindacato minoritario pensa solo al conflitto e a organizzare scioperi, tutti gli altri sindacati pensano a come far uscire i lavoratori e le loro famiglie dalla precarietà e dall'incertezza”. La mistificazione e la povertà di queste affermazioni tentano di coprire la nuova filosofia che questi “rappresentati dei lavoratori” tentano di far passare: per uscire dalla precarietà e dalla fame occorre rinunciare alla libertà.
Spostare i diritti significa stracciare i principi di libertà e di uguaglianza teorizzati in leggi (come lo Statuto dei lavoratori) e la stessa Costituzione, determinando una condizione “nuova”. Non la libertà di tutti i cittadini, ma quella di una fascia ristretta di ricchi che impongono e fanno prevalere le loro logiche anche sui principi fondamentali di uguaglianza e di libertà, spacciandoli per convenienze generali.
E’evidente che tutto ciò serve a spostare anche il potere politico e la ricchezza, instaurando un sistema diverso impostato non sull’uguaglianza ma sulla condizione economica, unica e vera fonte di potere, diritto e classificazione sociale.

Dediche di fine 2010

Per i metalmeccanici. Ma anche per gli studenti, per chi non avrà una pensione e un lavoro dignitoso, per chi è sommerso dalla spazzatura, dalle alluvioni e dalle macerie di un terremoto. Per chi non ha mai voce in questa "democrazia". Per i diritti di tutti noi.

giovedì 23 dicembre 2010

I regali di Natale per metalmeccanici e studenti

Si avvicinano le festività, tutti sono più buoni. Marchionne e i sindacati “democratici” (Fim-Cisl, Uilm-Uil, Fismic e Ugl), compenetrati dallo spirito natalizio, hanno garantito che l’impegno per «una soluzione positiva entro Natale» può essere mantenuto. Mentre Uilm e Fim sono ottimiste per una conclusione rapida, la Fismic addirittura annuncia che va a firmare e non a discutere.
Del resto cosa c’è da discutere? Non viene mica affossato il Contratto di lavoro dei metalmeccanici. Non vengono nemmeno cancellati diritti indisponibili e di civiltà.
Del resto il “democratico” Marchionne ha parlato chiaro: non sarà certo lui a imporsi. Dopo l’accordo la parola andrà in ogni caso al referendum vincolante già annunciato dalla Uilm. E a Marchionne, questa volta, basterà “il 51 per cento dei consensi e non se ne andrà”.
Questa si che è democrazia. Ma quale ricatto? Semplicemente verrà chiusa Mirafiori se “l’accordo innovativo e moderno” non verrà votato dalla maggioranza dei lavoratori. Sarà sufficiente che questi ultimi (in tutti i sensi) rinuncino ai propri diritti e l’investimento di un miliardo di euro rimarrà in Italia. In questo modo potranno continuare a dipendere dalla meravigliosa Fabbrica italiana automobili Torino, altrimenti l’azienda sarà "costretta" poverina ad emigrare e loro a diventare democraticamente disoccupati.
Evviva la libertà. Evviva la democrazia.
Dato che è tempo di feste, le buone notizie non vengono mai da sole. Illuminata dallo spirito natalizio l’eccelso ministro Gelmini ha affermato che con la sua “riforma” si cancella definitivamente il 1968 e si agevolano gli studenti nello studio. Cos'hanno da protestare tanto gli studenti? I rappresentanti del popolo in Parlamento decidono per il "loro bene e il loro futuro" (non quello degli studenti: letteralmente il loro, quello dei politici).
E poi dicono che si tratta di una riforma politica e di classe.
Ultima buona notizia, una somma complessiva di oltre 3 miliardi di euro è stata chiesta dall'Agenzia delle entrate della Toscana ad Alberto Aleotti, 87 anni, patron dell'industria farmaceutica Menarini, come risultato di un "processo verbale di constatazione" notificato all'interessato lunedì scorso. Nell'atto si dà conto dei rilievi emersi da verifiche effettuate sul patrimonio personale di Aleotti (non di quello dell'azienda di cui è titolare), a seguito di un'inchiesta della procura di Firenze per truffa allo Stato e frode fiscale sui titolari e i dirigenti della Menarini. La richiesta di 3 miliardi di euro fatta dall'Agenzia delle entrate (a titolo di sanzioni, mancati interessi e mancato versamento di imposte) ad Aleotti, riguarda capitali del suo patrimonio personale trasferiti all'estero e poi fatti rientrare in Italia con lo scudo fiscale.
E poi dicono che non c’è giustizia e che gli imprenditori non soffrono. Non è vero, essi sono accomunati, nelle loro sofferenze, ai disoccupati e ai precari che pretendono di averne l’esclusiva. Altro che storie. Per fortuna che ci sono personaggi politici e ministri che ci insegnano la democrazia e le regole del bon ton nelle nostre proteste. Che in questo momento sono, francamente, poco in sintonia con lo spirito del Natale.
A quale democrazia, a quale libertà e a quali regole si riferiscano costoro (alcuni dei quali anche dal passato politico da picchiatori fascisti), è facile capire: libertà di subire, di essere privati della dignità, di essere licenziati, di essere espulsi dai processi formativi, di essere discriminati, di non avere un futuro. Tutto qui.
E poi ci lamentiamo.

sabato 18 dicembre 2010

14 dicembre, i “democratici” e gli “estremisti”

C’è un gran parlare attorno alle violenze del 14 dicembre, giorno delle manifestazioni studentesche davanti al Parlamento. Violenze avvenute, sostengono in molti, senza alcuna plausibile giustificazione.
Ministri e personaggi politici del governo (ma anche dell’opposizione), si sono esercitati in una parata di condanna della "violenza cieca di gruppi di studenti" e di richiami al "rispetto delle regole democratiche" esistenti nel Paese. Quale Paese è facile capirlo: il loro.
Da costoro è stata anche criticata la decisione dei giudici di mettere in libertà provvisoria i giovani trattenuti in stato di fermo ed è stata inviata addirittura una commissione per valutare la "correttezza" dell’operato degli stessi giudici. L’intenzione, neanche troppo velata, è quella di avvertire gli studenti e gli "estremisti" che qualora quanto successo tornasse a verificarsi, qualora venisse rimesso in discussione l’ordine esistente (in occasione ad esempio del passaggio della "riforma Gelmini" al Senato), la risposta delle forze dell’ordine sarà ben diversa e dura.
Tutto questo trambusto ha il preciso obiettivo di etichettare come estremista chiunque si batta per una scuola e un'università pubblica, accessibile a tutti, per la sicurezza degli edifici scolastici e per i diritti degli studenti.
Più in generale il tentativo è quello di affibbiare l’etichetta di estremista a chiunque si batta per difendere i propri diritti. Sia che si tratti di studenti che di lavoratori, cui viene negato persino il diritto di dissentire e di contestare sindacalisti asserviti alla volontà dei padroni e della Confindustria, che usurpando il ruolo ricoperto pretendono di decidere per i lavoratori stessi e sulla loro pelle. Non si sa sulla base di quale mandato.
A molti di questi moderni garantisti a senso unico e poco credibili assertori del rispetto delle regole democratiche si potrebbe ricordare il loro assai poco coerente passato. Passato che evidentemente hanno dimenticato o fingono di farlo. Di quando ad esempio prendevano a morsi i rappresentanti delle forze dell’ordine e per questo venivano condannati per resistenza a pubblico ufficiale; oppure di quando alcuni di loro andavano insieme ai camerati fuori dalle scuole e nelle piazze milanesi armati di catene e coltelli; o ancora delle vicende legate addirittura all’uso di bombe a mano, che provocarono la morte di un agente di polizia di ventidue anni. Ancora, si potrebbe parlare delle minacce di rivolta armata lanciate in innumerevoli occasioni dal partito dell’attuale ministro dell’Interno. Si potrebbe parlare della violenza esercitata verso le famiglie delle vittime di attentati terroristici tuttora senza giustizia per i propri morti, perché i processi svolti non sono riusciti a individuare esecutori e mandanti. Magari anche a causa della copertura, su alcune circostanze, offerta dal segreto di stato.
Si potrebbe parlare della violenza esercitata dal sistema padronale verso i lavoratori e i padri di famiglia, privati del lavoro e con esso del diritto di poter dignitosamente garantire la vita ai propri cari. Lavoratori costretti a proteste clamorose sui tetti o sulle ciminiere delle proprie fabbriche chiuse perché il padrone ha delocalizzato per guadagnare di più all’estero. Lavoratori che attendono come regalo di Natale la lettera di licenziamento o di cassa integrazione per rendere più competitiva, ma senza di loro, l’azienda in cui lavoravano.
Si potrebbe parlare della violenza esercitata da quegli evasori fiscali (imprenditori, o personaggi pubblici) con uno stile di vita da nababbi e possessori di barchette da varie decine di metri, che evadono le tasse e fanno la bella vita. Quanto siamo orgogliosi di quel tenore, evasore fiscale, che patteggia le sue imposte con tanto di frecce tricolori al funerale, alla faccia dei redditi fissi tartassati dallo Stato, con la gentile collaborazione del sostituto di imposta?
Si potrebbe parlare dei pensionati costretti alla povertà da pensioni da fame continuamente taglieggiate; oppure dei ticket sulle ricette e sulle medicine, degli ospedali in chiusura, dei tempi lunghissimi per avere prestazioni sanitarie specialistiche (ottenibili nelle stesse strutture sanitarie in poco tempo, solo se a pagamento).
Si potrebbe parlare della violenza brutale verso i giovani disoccupati e precari cui non saranno rinnovati i contratti a termine, o degli studenti che saranno costretti ad abbandonare scuole e università, perché non più in grado di sostenerne i costi. Tutti quanti derubati del proprio futuro: la violenza più grande.
Si potrebbe parlare anche della violenza esercitata da chi, al sicuro della propria ricchezza e del proprio benessere, con il pretesto del bene superiore del Paese (il loro Paese) predica sacrifici, rassegnazione a senso unico, riforme solo in senso antipopolare e taccia di estremismo chiunque non si rassegni a sopportare l’attuale stato delle cose e l’attuale distribuzione delle risorse.
Si potrebbe parlare anche della violenza esercitata dal ceto politico che si costruisce un sistema di privilegi con regole e leggi su misura a danno del resto dei cittadini. Un ceto politico eversore, che attacca ferocemente altri organi come la magistratura, sicuro della propria impunità in spregio della Costituzione.
Gli studenti e i lavoratori non vogliono essere etichettati come estremisti, violenti o antidemocratici. Ma se lottare ogni giorno per una scuola e un'università pubblica e accessibile a tutti, per la sicurezza degli edifici scolastici, per i diritti degli studenti e dei lavoratori, per salari e pensioni dignitosi e per un futuro per i giovani e i precari è da estremisti, allora questa etichetta può essere accettata.
Si, loro sono estremisti. Siamo tutti estremisti.

giovedì 16 dicembre 2010

domenica 12 dicembre 2010

Alcune domande senza democratiche risposte

La manifestazione di ieri ha consentito (forse) al Partito democratico, di acquisire un po’ di visibilità e consenso in vista dello scontro di martedì 14 dicembre dove si verificherà l’esistenza o meno di una maggioranza di centrodestra in Parlamento.
La manifestazione è stata tutta incentrata sulla invocata cacciata dell’attuale governo e del suo presidente e massimo dei mali.
Non si può certo non convenire sulla necessità di far cadere un governo di destra e cancellare le leggi che ha prodotto nel suo, troppo lungo, cammino.
Non si è capito bene (o purtroppo si è capito) cosa dovrà sostituire il governo Berlusconi. Al di là delle chiacchiere e del fumo, questo non è emerso. Se cioè va cacciato l'attuale presidente, male assoluto e novello satana, oppure se va impostata una nuova politica fondata sugli interessi dei discriminati, degli sfruttati e dei precari. Questo Bersani non l’ha detto.
Che cosa intende fare il Pd, qualora potesse incidere, rispetto “all’accordo di Pomigliano”, alla New co e alla distruzione dei diritti insita della manovra antioperaia di Marchionne e Confindustria di cancellare contratti nazionali di lavoro? Che cosa intende fare rispetto al collegato lavoro elaborato dal governo che prosegue nell’opera di smantellamento delle conquiste dei lavoratori? E’ disponibile il Pd a mettere fine alla logica dello scambio e delle deroghe ai contratti e a operare per un rinnovo dei Ccnl che preveda aumenti salariali consistenti, per una diversa distribuzione della ricchezza e per il ripristino delle norme contrattuali cancellate per le logiche delle compatibilità? Rispetto alle ripetute “riforme delle pensioni” decise da governi di ogni colore che tagliano le pensioni da lavoro e non consentono ai giovani di costruirsi una posizione assicurativa, il Pd come crede di operare? Il Pd intende adoperarsi per garantire un lavoro e un salario a tutti i disoccupati ripristinando il sistema d’indicizzazione dei salari e il controllo amministrativo dei prezzi dei generi di prima necessità? Per consentire un futuro ai giovani è disponibile il Pd a procedere alla cancellazione delle leggi Treu e Biagi, che istituzionalizzano il precariato? Che cosa farà il Pd governativo rispetto alla “riforma Gelmini” e ai finanziamenti alle scuole private o religiose? Intende cancellarli? Ritiene il Pd che la sanità e la scuola debbano essere gratuite e uguali per tutti i cittadini, a prescindere dal reddito e dalle convinzioni religiose e politiche? Cosi come i trasporti per lavoratori, disoccupati, pensionati e studenti? Ritiene il Pd che vada cancellata la figura del sostituto d’imposta e che il sistema fiscale debba essere fortemente progressivo e più pesante sui redditi più alti? Che si debbano eliminare le imposte locali e soprattutto quelle indirette che penalizzano solo i redditi fissi? Che vada istituita un’apposita tassazione sui patrimoni immobiliari, sulle rendite parassitarie e sui profitti? E che sia istituita una tassa forte per i prodotti di aziende delocalizzate con il divieto per quest’ultime di usare la dicitura con il marchio "Made in Italy”? Che si debba procedere, in ultimo in materia fiscale, all’abolizione delle norme che consentono l’intestazione di beni a società? Che in materia d’immigrazione e clandestinità vadano cancellate tutte le leggi che rendono gli immigrati clandestini, ispirando la propria politica in materia alla solidarietà? Che debbano essere ritirati tutti i contingenti militari armati italiani da tutte le aree del mondo? Che vada detto no al nucleare anche per usi civili?
Questo solo per fare alcuni esempi.
Senza adeguate risposte a queste domande il 14 dicembre si verificherà solo uno scontro di potere e di palazzo fra due padroni e fra i rappresentanti di due borghesie in lotta fra loro, per contendersi lo scettro usando la demagogia di cui dispongono. Per carpire il consenso del “popolo caprone” per i propri fini classe e di parte.

martedì 7 dicembre 2010

Lettera di un comunista fuori moda ma attuale

(In risposta all'articolo di Valerio De Nardo su TusciaWeb: "Se il Pd è suonato...")

Allo “Sporco comunista”.

Leggendo la tua opinione ho sentito la necessità di esprimere la mia sulle conclusioni che trai davanti alle questioni interne a quel partito.
Mi hanno spinto a scrivere le mie convinzioni che, in maniera simile alle tue, inducono anche me a dichiararmi comunista nonostante questo sia, oggi, fuori moda.
Le tue conclusioni, davanti al quadro desolante rappresentato da questo partito, che ritengo siano tali non solo a livello locale, ma anche a quello nazionale, ti portano a concludere che non è poi così sorprendente se Sinistra Ecologia e libertà voli nei sondaggi.
Lungi da me l’idea di intavolare un qualsiasi confronto o polemica su basi partitiche in proposito. Non servirebbe perché oggi ritengo sia più necessario confrontarsi sui contenuti e non sulle sigle.
L’approdo sulle sponde del liberismo e delle logiche interclassiste, deciso dal Pd, ha determinato la modifica delle linee e delle strategie di quel partito che nonostante tutto tenta di presentarsi, con una buona dose di contraddittorietà, come un partito delle forze “sane” e progressiste e di sinistra includendo però, in quest’ambito imprenditori, benestanti, lavoratori, disoccupati, precari e pensionati.
E’ proprio questo tentativo teso a dimostrare che è possibile una coesistenza e un equilibrio sociale ed economico fra soggetti detentori di diritti e di libertà differenti, a determinare le difficoltà, per quel partito, ad assumere posizioni precise e nette per non scontentare nessuno dei soggetti sociali cui pensa di rivolgersi.
Il suo percorso travagliato, iniziato con il passaggio dal Pci al Pds poi ai Ds e oggi al Pd, coincise con la caduta del muro di Berlino.
Non è mia intenzione tornare su questioni e analisi che ci hanno coinvolto a lungo. Sono convinto però, che le ragioni che hanno determinato la caduta di sistemi che al socialismo si richiamavano, non abbiano fatto venir meno l’ingiustizia e con essa la disuguaglianza sociale.
Esistono ancora oggi, ed in misura maggiore di venticinque anni fa, le disparità e le discriminazioni sociali fra i cittadini. Queste, ancora oggi, sono determinate dalle condizioni economiche che producono differenze sostanziali sia in termini di benessere economico che di libertà individuali fra i cittadini.
Queste differenze non riguardano singoli ma gruppi consistenti di cittadini cui sono negati il lavoro e con esso la libertà dal bisogno e la dignità stessa.
Questa condizione non accomuna, però, tutti i cittadini. Nel mentre si tagliano salari e diritti ai lavoratori, nel mentre si taglia il sistema previdenziale, nel mentre si precarizzano i giovani e li si deruba del futuro, altri cittadini di altre condizioni economiche si arricchiscono e godono di condizioni e di libertà diverse, anzi molto maggiori e migliori di prima.
Le libertà e le condizioni economiche di alcuni cittadini cozzano e si contrappongono con quelle di altri cittadini.
Come giudicare diversamente quanto sta avvenendo in Fiat, a Mirafiori o a Pomigliano. In questo quadro l’annullamento dei diritti economici e civili di alcuni è la condizione e il presupposto dello sviluppo e del benessere degli altri. Non certo di tutta la collettività i cui bisogni, anche quelli primari sono condizionati agli interessi economici dei pochi eletti.
Come valutare diversamente l’arricchimento sfacciato e provocatorio di pochi e il perenne e inarrestabile impoverimento e mortificazione dei tanti?
Questo solo per affrontare un limitato campo di “confronto”.
Come può una forza politica, tanto più una forza politica che si ostini a dirsi di sinistra, pretendere di rappresentare tutti gli interessi in campo: dei discriminati e dei privilegiati, dei ricchi e dei poveri, dei liberi e degli oppressi? E’ impossibile. Soprattutto perché a discriminare e a impoverire non sono le “ragioni superiori dell’economia”, ma quelle legate agli interessi dei ricchi e privilegiati.
Non si può, in sostanza, servire due padroni perché alla fine se ne serve uno solo a danno dell’altro. Di cui, però si continua a pretendere il consenso e il voto.
Da questo dipendono le difficoltà del Pd.
Non solo del Pd, ma anche di tutte quelle formazioni politiche che combattono l’ingiustizia sociale e che ritengono sia possibile, da posizioni minoritarie e operando all’interno del campo avversario, magari anche con alleanze “innaturali” vincere e far ottenere risultati positivi ai discriminati.
Le esperienze del primo centrosinistra, che includevano anche Bertinotti e Rifondazione comunista, hanno dimostrato che l’intelligenza, la telegenicità o la simpatia di un leader non determinano alla lunga il cambiamento o i progresso dei discriminati. Le alleanze innaturali alla fine (e la storia di questi ultimi anni l’ha dimostrato) accentuano le contraddizioni e finiscono per rafforzare l’avversario. La mancanza di chiarezza ha portato la sinistra, anche quella che si definisce radicale, a dividersi e a sostenere le ragioni dell’economia dei ricchi, compresi gli interventi “umanitari”, armati nel mondo. Portando allo smarrimento e al disorientamento.
La lotta politica non può non fondarsi sulle alleanze. Queste però devono essere chiare e su obiettivi definiti, con la consapevolezza che la necessità di produrre una radicale pulizia dell’attuale quadro politico non può far perdere di vista la realtà esistente e gli interessi in campo. Non può soprattutto prescindere dai contenuti. Berlusconi, in buona sostanza, non è il male assoluto, ma il massimo rappresentante di una classe sociale che, anche in quest’era di crisi si è arricchito ed ha prosperato a danno di tutti gli altri, e che vuole continuare a farlo. Non possono ragioni di convenienza e di lotta politica momentanea, cambiare la realtà.

giovedì 2 dicembre 2010

La vera posta in gioco (parte seconda)

Non c’è stata opposizione, né in Parlamento né nelle piazze da parte della Cgil o di Bersani (che oggi rivendicano la rappresentanza e il consenso dei giovani e dei precari), quando il governo Berlusconi varò la legge Biagi che completava l’opera iniziata da Treu (del governo di centro”sinistra” Prodi) di demolizione dei diritti e delle speranze dei giovani togliendo loro il futuro. Come pretendono ora di impossessarsi della rabbia sacrosanta dei giovani e dei precari?
Ancora, come può la Cgil e il Partito democratico pretendere di rappresentare il malcontento e la rabbia dei lavoratori, dei pensionati e dei disoccupati, quando proprio loro hanno sposato e sostenuto sia sul piano sindacale sia su quello legislativo, le politiche delle compatibilità capitaliste? Come sull’occupazione, per cui licenziare o precarizzare un lavoratore, togliendogli la libertà e il futuro è legittimo se all’impresa necessita e conviene. Come si è potuto arrivare ad anteporre il diritto dell’impresa e quello del lavoratore?
Stesso discorso sui salari e su pensioni. Sono state entrambi dimezzanti per renderli compatibili con il mercato e con l’attuale ripartizione del reddito. Certamente non con la necessità dei cittadini di avere un reddito, da lavoro o da pensione, di misura tale da garantire loro un’esistenza dignitosa e libera perlomeno dal bisogno.
Chi oggi pretende di rappresentare i soggetti più deboli, con le politiche già adottate ha cancellato la consapevolezza stessa dell’esistenza del conflitto. E si vorrebbe dare ad intendere che se i lavoratori, i pensionati, i giovani stanno male la responsabilità non è delle politiche di classe che i governi (tutti) hanno perseguito, ma della “incapacità” dei governi, o degli uomini, a governare. Oppure un semplice problema di onestà. Ma la morale c'entra ben poco: si tratta di specifici e consapevoli indirizzi economico-sociali.
Per i novelli paladini delle ingiustizie il governo non va combattuto perché ha rappresentato e tutelato innanzitutto gli interessi dei padroni e della Confindustria. Va contrastato perché Berlusconi non è capace di governare, anche perché troppo legato agli interessi delle sue aziende, oppure per i suoi presunti legami con la mafia o per le sue discutibili vicende personali.
Non va però combattuto per la legge Biagi, né per gli altri tagli alle pensioni iniziati dal governo di centro”sinistra” presieduto da Dini, oggi felicemente tornato al centrodestra. Né tantomeno per la politica delle delocalizzazioni agevolata dall’attuale governo (il centro”sinistra” avrebbe forse operato diversamente?). O su Pomigliano e la New Co? O sulle politiche di aiuti “umanitari” e armati in Afghanistan? O sulla Tav? O sulle politiche economiche di bilancio e spesa? Sui ticket sanitari? Oppure sulle politiche di privatizzazione del sapere che proprio loro hanno iniziato a realizzare? E si potrebbe continuare.
L’equivoco di fondo sta proprio qui. Come fa il Pd, insieme a Vendola, a farsi paladino dei diritti e degli interessi dei discriminati senza intaccare e colpire contemporaneamente quelli dei padroni, di cui rivendicano la rappresentanza e il consenso? Non si possono seguire contemporaneamente due tesi. A meno che il vero obiettivo di costoro è utilizzare il malcontento ai soli fini elettorali.
La storia recente ha dimostrato, infatti, che le politiche e le scelte economiche fondamentali dei governi di centro”sinistra” sono le stesse di quelle dei governi di centrodestra. Ai partiti che si pongono l’obiettivo di collocarsi in questo scenario non resta (finora non è restato) che scegliere il male minore.
Tutto ciò potrebbe essere anche opportuno, per una ragionevole e momentanea unità tattica d’intenti, su precisi e delimitati obiettivi fra forze politiche che decidono di opporsi al male peggiore (l’attuale governo). Certamente non su un’irrealizzabile, impossibile, unità strategica con forze politiche che si propongono di rappresentare interessi contrastanti e inconciliabili. Perchè di classe. Tali sono gli interessi dei lavoratori con quelli dei padroni.
Di ciò occorre essere consapevoli. Altrimenti l’unità appiattita, priva di analisi e di obiettivi economici e sociali, ma con l’unico scopo di battere Berlusconi com’è avvenuto con l’esperienza dei governi Prodi, permetterebbe al massimo di preferire il male minore. O, per dirla con Lenin, di scegliere quale dei rappresentanti del padronato ci opprimerà per i prossimi cinque anni.

domenica 28 novembre 2010

La vera posta in gioco (parte prima)

La situazione politica e quanto avviene nel Paese, per ultimo la manifestazione della Cgil di ieri, richiedono un’attenta e approfondita analisi degli interessi economici e sociali che i vari soggetti politici rappresentano e tutelano e sui quali intessono le loro concrete strategie. Tutto questo al di là di affermazioni demagogiche, fatte per ottenere consensi a buon mercato.
Nella manifestazione nazionale della Cgil di ieri, sia da parte del sindacato stesso, sia da parte dei manifestanti con i loro slogan che da parte dei “politici”, è stato rappresentato l’insieme dei problemi che riguardano i discriminati, che i partiti e la Cgil dichiarano di rappresentare e difendere. O, almeno, danno a intendere di essere interessati a farlo.
Un aspetto fra quelli più richiamati è stato senza dubbio l’unità dei lavoratori e dei partiti che a loro si richiamano, o che comunque sono all’opposizione. Unità che avrebbe come scopo immediato la cacciata del governo e prima di tutto del suo leader.
Sarebbe ben difficile non essere d’accordo su questo punto: più forte è la spallata più certa e rapida è la cancellazione di questo esecutivo.
Berlusconi è il rappresentante politico, al di là delle ”note di colore” o delle vicende da gossip, che ha rappresentato gli interessi padronali e della Confindustria (e di se stesso) in maniera più aperta, riuscendo a stravolgere il sistema politico e sindacale nel paese. Quello che è peggio e che l’ha fatto con il consenso dei cittadini, grazie alla sua demagogia populista, alle sue televisioni e ai suoi giornali. Berlusconi è stato capace di far prevalere nella società italiana e tra i cittadini i suoi valori e quelli tradizionalmente propri del padronato più becero e arretrato. Berlusconi ha saputo imporre a un popolo di disoccupati e di affamati, bastonati a colpi di salari bassi, contratti a progetto e lavoro nero, i “valori” tipici delle società "liberali", all’interno delle quali le libertà e il benessere ci sono e sono tutti e solo per i "meritevoli". O meglio quelli che intende lui: gli altri si possono pure arrangiare.
Tutto ciò è stato però possibile perché il suo neoliberismo ha trovato non solo campo libero, ma il sostanziale e diretto sostegno dei partiti della “sinistra”, che a questa filosofia si sono convertiti.
La cartina tornasole di ciò è rappresentata dal tipo di “contrasto” e dagli argomenti su cui quest’opposizione si è concretizzata. “Opposizione” al soggetto Berlusconi e al suo governo. Non però delle sue politiche, in primo luogo in materia economica e sociale.

domenica 21 novembre 2010

La guerra in Afghanistan finisce. Anzi continua

Sarebbe stato auspicabile che con la riunione della Nato tenutasi in Portogallo si fosse posta la parola fine a quella che, oggi, viene apertamente chiamata guerra in Afghanistan. Questo a maggior ragione dopo le rivelazioni fatte “sull’intervento”, che dura da quasi nove anni, dal fondatore di Wikileaks, che ha diffuso notizie riguardanti le innumerevoli vittime civili, da alcuni ritenute semplici "effetti collaterali dell’intervento umanitario".
Le premesse non erano certo buone. Non si capisce perché di questa “azione umanitaria” se ne debba occupare un’alleanza di alcuni paesi e non l’Onu nella sua interezza. Tanto più se si considera che è un'alleanza militare, residuo della guerra fredda tra Usa e Urss, che oggi non avrebbe senso di esistere essendo venuto meno “l’interlocutore”, vista la scomparsa dell’impero sovietico.
Nella riunione Nato è stato deciso senza contraddittorio che “l’azione umanitaria” terminerà alla fine del 2014 (come chiesto dal presidente Karzai), avendo come obiettivo il completamento del passaggio delle consegne sul terreno militare agli afghani. Il segretario Nato, Anders Fogh Rasmussen, ha però chiarito ieri che “truppe internazionali” rimarranno anche “dopo il 2014, però non con una missione di combattimento (che ora evidentemente hanno), bensì di appoggio, che comprenderà la formazione delle forze di sicurezza nazionali”.
Annunciano l’inizio della fine della missione di combattimento, invece decidono il suo proseguimento a tempo indeterminato.
A questo si aggiunge la dichiarazione del presidente del consiglio italiano Berlusconi, che ha sottolineato: “L'Italia è presente in Afghanistan fin dall'inizio (nove anni) e ultimamente ci è stato chiesto dal presidente americano Obama e dal segretario generale della Nato Rasmussen un aumento del numero degli addestratori. Aumenteremo questo numero di altri duecento”.
Dal canto suo il ministro degli esteri Frattini ha aggiunto trionfante: ”Con i nuovi apporti l'Italia diventa la nazione che ha il numero più elevato di addestratori dopo gli Usa”, occupando il terzo posto in classifica per quanto riguarda le operazioni “di pace”, dopo Usa e Regno Unito, insieme a Francia e Germania.
Evviva. Evviva l’intervento umanitario. Evviva le forze di pace (militari) della Nato e dell’occidente. Peccato che avevano detto che l’intervento in Afghanistan era temporaneo e di natura “umanitaria” per l’affermazione della “democrazia”, contro il sopruso quotidiano dei talebani e di al Qaeda, che imponevano un’islamizzazione estremistica e terrorista di quella realtà.
Per convincerci hanno mostrato gli aspetti, che pure ci sono, più intollerabili e inaccettabili, come le esecuzioni sommarie, le punizioni corporali, le umiliazioni alle donne afghane, la distruzione della cultura.
Le bombe “democratiche” della coalizione della Nato, di cui l’Italia fa parte in misura crescente, sono forse più tollerabili di tutto ciò? Forse per le vittime della guerra fa differenza sapere qual è il colore della bandiera di chi ti uccide? Sarebbe sbagliato affermare che forse gli afghani avrebbero fatto a meno dell’intervento “umanitario” della Nato?
Davanti a tutto ciò è assordante il silenzio “dell’opposizione” italiana che si ostina a chiamarsi, geograficamente e non politicamente, di sinistra.

Iraq, Afghanistan.



Interventi umanitari.

martedì 16 novembre 2010

Bersani e l'elenco dei valori di sinistra traditi

L’altra sera, in un programma televisivo, sono comparsi due "politici" che avevano un’unica preoccupazione e presunzione: quella di accreditarsi come campioni degli schieramenti (destra e "sinistra"), rivendicandone di diritto la rappresentanza e la "moderna" interpretazione della rispettiva "evoluzione".
Occupandoci della pretesa di Bersani, segretario del Partito democratico, a essere il legittimo rappresentante della sinistra in Parlamento, verrebbe da chiedersi di quale sinistra pensi di essere paladino lo stesso e a quale titolo ne rivendichi la rappresentanza. A meno che la sinistra, per costui, non sia solo una sistemazione geografica nelle aule parlamentari.
Storicamente collocarsi a sinistra ha significato stare dalla parte dei lavoratori e dei discriminati (cioè della loro classe) e battersi per l’uguaglianza, la libertà e l’emancipazione dallo sfruttamento. Opporsi di netto, quindi, all’ingiustizia sociale e al privilegio che il profitto e il mercato generano.
Bersani singolarmente pretende di essere titolare della rappresentanza dei lavoratori, insieme a quella dei padroni. Pretende, inoltre, che “l’evoluzione” politica del Partito democratico di cui è segretario faccia diventare di sinistra ciò che invece, nei fatti, non lo è.
Il Pd è, nella realtà, un neo-partito interclassista che si occupa di un mondo idilliaco dove possano tranquillamente e legittimamente coesistere oppressi e discriminati (lavoratori, disoccupati, precari e pensionati al minimo) con miliardari e capitalisti, perché anche questi ultimi si rendano conto che ”nessuno può stare bene da solo: stai bene se anche gli altri stanno un po’ (!) bene”; per questo sostiene Bersani: “Ci vuole un mercato che funzioni”. Certo, dovrebbe spiegarlo soprattutto a Marchionne o ai proprietari delle aziende che delocalizzano (ed evadono, sfruttano, monopolizzano ecc).
Bersani predica la rassegnazione, la subalternità economica e culturale della classe operaia e pretende di farlo come leader della sinistra, immaginando un mondo idealizzato e inesistente, in cui possano felicemente convivere il capitalista e il precario, il miliardario e il disoccupato, il privilegio e l’ingiustizia sociale, il forte e il debole, il profittatore e lo sfruttato. Tutto ciò auspicando non che i ricchi e i padroni rinuncino alle loro ricchezze, ma che ne lascino di buon cuore un po’ ai proletari (esistono ancora nei fatti, solo che non possono permettrsi neanche i figli ormai).
Per Bersani sostenere le teorie interclassiste (che furono proprie della defunta Democrazia cristiana) e farle diventare il fulcro della propria azione politica non significa tradire i discriminati, ma fare una politica di sinistra; usurpando, per soli fini elettorali, uno spazio politico cui non ha più diritto. Contribuire ad alimentare tale equivoco significa diventare complici della mistificazione.
Quali gli obiettivi da elencare per una sinistra realmente dalla parte dei lavoratori e degli ultimi? Lavoro garantito per i disoccupati e un reddito per tutti sufficiente e dignitoso (anche con il ripristino del meccanismo d’indicizzazione dei salari: la scala mobile); abolizione del precariato e delle leggi che lo permettono (Treu e Biagi); divieto di delocalizzazione delle aziende e penalizzazione, anche fiscale, per chi lo ha realizzato; abolizione delle “riforme” pensionistiche (Dini, Prodi e Berlusconi); no alla sanità privata, si a quella pubblica gratuita e uguale per tutti; no ai finanziamenti pubblici delle scuole private e dei partiti; si a una stampa e a un’informazione democratica, togliendola dalle mani dei politici-editori; tutela e non rapina dell’ambiente; cessazione immediata di ogni intervento militare armato dell’Italia in qualsiasi area del mondo. Senza dimenticare di realizzare un sistema fiscale che liberi i redditi fissi e colpisca, in maniera adeguata e progressiva, le grandi ricchezze, le rendite parassitarie e i profitti. Come inizio di cose di sinistra può bastare.

venerdì 12 novembre 2010

“Riformisti” al lavoro al soldo dei padroni

L’aggressione alle conquiste dei lavoratori da parte del padronato e del Governo sta conoscendo una nuova fase. L’attuale Ministro del lavoro del Governo di centrodestra ed ex socialista (?) Sacconi, ha sostenuto che: ”L’attuale centralismo regolatorio di matrice pubblicista e statalista riflette assetti di produzione propri della vecchia economia”. Per questo si sta tentando di sostituire allo Statuto dei diritti dei lavoratori il “moderno” modello conosciuto come “accordo di Pomigliano”, che nega diritti costituzionali e lascia libero arbitrio al padronato, con la pretesa di migliorare la competitività delle aziende attraverso l’abbattimento dei diritti conquistati dai lavoratori nel corso di decenni. Tutto ciò attraverso un disegno di legge delega, di due articoli, che affida al Governo il compito di riscrivere il diritto del lavoro.
Il principio fondamentale, scritto nell’articolo uno del testo proposto, indica che la nuova legge è fatta “al fine di incoraggiare una maggiore propensione ad assumere e un migliore adattamento tra le esigenze del lavoro e quelle dell’impresa”. Sacconi punta a eliminare buona parte delle oltre mille leggi che “pesano” sul mercato del lavoro. Accanto all’obiettivo della semplificazione c’è quello di un mercato del lavoro sempre più libero (per chi?).
Il principio ispiratore del provvedimento sembra essere quello che ispirava il meccanismo dei Fasci e delle Corporazioni. L’idea fondamentale è, infatti, quella di una pretesa affinità e convergenza d’interessi tra imprese e lavoratori, con la conseguente necessità di una gestione “coordinata e armonica” (?) degli interessi dei lavoratori e dei padroni. In pratica, si legge nel testo di legge che il ministro ha presentato ieri nel corso di una conferenza stampa, gli unici diritti universali e indisponibili del lavoratore, garantiti dalla legge, rimarranno quelli scritti nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. Si tratta per esempio del divieto di schiavitù e di tratta degli esseri umani, del diritto di sciopero e del diritto al giorno di riposo settimanale, oltre che alla parità tra uomini e donne e del divieto del lavoro minorile. A tutti gli altri principi stabiliti dall’attuale legislazione italiana, si potrà, con lo Statuto dei Lavori, derogare. A partire dall’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori, quello che di fatto vieta il licenziamento senza giusta causa nelle aziende con più di 15 dipendenti. Questo perché, secondo Sacconi, ”non rientra tra i diritti fondamentali, tanto che non è applicato a tutti i lavoratori”.
Invece di estendere l’applicazione di quest’articolo a tutti i lavoratori a prescindere dal numero dei dipendenti, perché tutela il diritto di ogni lavoratore a non essere licenziato che per giusta causa e non per arbitrio padronale, tale diritto è definitivamente cancellato.
Il testo predisposto da Sacconi prevede inoltre la “possibilità per la contrattazione collettiva di una loro modulazione e promozione nei settori, nelle aziende e nei territori, anche in deroga alle norme di legge, valorizzando il ruolo e le funzioni degli organismi bilaterali”. Organismi bilaterali che sono sostanzialmente una riedizione della Camera delle Corporazioni: le parti sociali, datori di lavoro e sindacati, di fatto legiferano sul mercato del lavoro. Il progetto di Sacconi indica anche gli indici che questa contrattazione/normazione dovrà seguire: “Andamento economico dell’impresa, del territorio o del settore di riferimento”; “caratteristica e tipologia del datore di lavoro”; “caratteristiche del lavoratore con specifico riferimento all’anzianità continuativa di servizio, alla professionalità o all’appartenenza a gruppi svantaggiati”; modalità di esecuzione dell’attività lavorativa autonoma e coordinata con un solo committente”; “finalità del contratto con riferimento alla valenza formativa o d’inserimento al lavoro”.
Per i lavoratori sarà pertanto prassi, a differenza di quanto sarebbe giusto (a parità di lavoro, parità di salario), la frammentazione salariale e normativa dei loro trattamenti e delle loro condizioni di lavoro. Accadrà cioè che due lavoratori che svolgono il medesimo lavoro per la stessa quantità di ore percepiranno salari diversi secondo l’azienda in cui si trovano a lavorare. Con buona pace della contrattazione collettiva.
Altro importante e illuminante aspetto del disegno è quello relativo al ruolo assegnato “ai rappresentanti dei lavoratori” (il sindacato). Essi diventano “gestori paritetici” e attori del “buon andamento aziendale” e saranno, così, totalmente e definitivamente sganciati dal rapporto e dal controllo dei lavoratori. Perché semplicemente non li rappresenteranno più.
Il disegno di legge quindi punta a realizzare un sistema di “diritti” dei lavoratori tutto subalterno agli interessi del mercato, della competitività (tutta incentrata sulla compressione dei salari e dei diritti) e quindi del padronato.
Davanti a ciò, invece di mobilitarsi e mobilitare i lavoratori, il sindacato sostanzialmente condivide. Così esplicitamente fa la Cisl, mentre la Cgil inizia la solita farsa di una fumosa “opposizione” a parole (ma senza alcuna iniziativa di protesta) e che, come sempre, non produrrà alcun effetto e non bloccherà l’azione “innovatrice” e “riformatrice” del Governo e del padronato.

lunedì 8 novembre 2010

Lo sciopero di lor signori

E' rivolta tra gli industriali vicentini: ”I danni del maltempo sono vasti e gravi e, se gli aiuti non arriveranno, se il Veneto continuerà a essere lasciato solo, sarà rivolta fiscale”. La promessa, che suona come una minaccia, è arrivata dal vicepresidente degli imprenditori della provincia Luciano Vescovi, in un'intervista a Radio 24. “Questa volta non passa - ha detto -. Se il sostegno alle imprese e ai cittadini vicentini non ci sarà da parte dello Stato, noi non pagheremo le tasse”.
Quando si tratta di non pagare le tasse tutti i pretesti sono buoni per gli “imprenditori” che chiamano a raccolta e solidarietà (novelli populisti) anche i cittadini e i lavoratori, per protestare contro il Governo e per ottenere indennizzi e finanziamenti a causa dei danni subiti dopo le ultime avversità meteorologiche.
Certamente il maltempo ha provocato dei danni che andranno riparati. Gli industriali veneti però, non fanno come un qualsiasi imprenditore del tanto vituperato Mezzogiorno assistito che si limita a chiedere. Loro non chiedono, pretendono. Se lo Stato non interviene pronta cassa smetteranno di pagare le tasse (come fosse una novità per molti di loro), estendendo l’invito a fare altrettanto a tutti i veneti.
Non tutti i veneti però, pur magari volendolo, potranno fare ciò. L’art. 53 della Costituzione stabilisce che: ”Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva. Il sistema tributario è informato a criteri di progressività”. E’ dovere per il cittadino italiano pertanto pagare le tasse. Questo però non è in via di principio subordinato alla condivisione delle politiche del governo italiano in nessuna materia, tantomeno in quella economica e fiscale, come danno a intendere gli industriali veneti.
La loro pretesa di non pagare le tasse e fare uno sciopero fiscale, in caso di mancati interventi pubblici, potrebbe essere un’originale forma di protesta. Solo che questa non è attuabile proprio dai soliti vessati: i contribuenti a reddito fisso, come dipendenti e pensionati.
A differenza degli imprenditori, infatti, i cittadini a reddito fisso, non possono effettuare alcuna protesta fiscale, né tantomeno alcuno sciopero fiscale
. Il sostituto d’imposta provvede per loro a versare le varie Irpef, per Stato ed Enti locali, mentre per le tasse indirette (come l'Iva) provvede direttamente il commerciante a trattenere. I quattrini riservati per tasse entrano solo figurativamente nei prospetti paga, non nelle tasche dei redditi fissi. I soliti poveri cristi pertanto non potranno fare alcuno sciopero fiscale come sollecitato dagli industriali, i quali tra l’altro, come sostituti d’imposta, sanno bene come funziona il fisco in Italia.
Per gli imprenditori pagare le tasse è sostanzialmente un optional. Essi non pagano il fisco anticipatamente e sul salario o pensione percepito (come dipendenti e pensionati), ma successivamente. E non sul reale percepito ma solo su quello che dichiarano. Il gioco, per loro, è possibile, facile e conveniente. Anzi a questo punto qualsiasi pretesto per non pagare le tasse è buono.
Cosa succederebbe se i lavoratori dipendenti e i pensionati aprissero gli occhi e imparassero a fare come gli imprenditori veneti, chiedendo l’abolizione del sostituto d’imposta per pagare anche loro le tasse su dichiarazione e solo se soddisfatti del governo? In questo modo si potrebbe, se c’è un qualche motivo di protesta verso il comportamento dell'amministrazione di turno, evitare almeno di pagare le tasse: c’è disoccupazione? C’è lavoro precario? Cancellano diritti costituzionali e ci tolgono la libertà? Istituiscono ticket sulle medicine? Privatizzano la scuola? (ecc, ecc, ecc). Allora sciopero fiscale. Si abbatterebbe almeno un’altra insultante e odiosa discriminazione.

venerdì 5 novembre 2010

Diritto al lavoro? No, diritto al profitto

Il governatore della Banca d’Italia, nel suo intervento al convegno della Facoltà di Economia dell’Università Politecnica di Ancona ha detto, testualmente, che l’Italia rischia di “trovarsi di fronte a un bivio” tra stagnazione e crescita, con i giovani che corrono i maggiori rischi, anche perché la mobilità sociale nel nostro Paese è tra i livelli più bassi in Europa.
“L’economia italiana fatica a crescere e per questo non bisogna smettere di preoccuparsi” ha affermato Draghi, per il quale la difficoltà dell’economia italiana sta sia nella mancata crescita che nell'incapacità per la stessa di produrre reddito. “Dobbiamo ancora valutare - ha aggiunto il governatore - gli effetti della recessione sulla nostra struttura produttiva. È possibile che lo shock della crisi abbia accelerato la ristrutturazione almeno di parti del sistema, accrescendone efficienza e competitività; è possibile un semplice, lento ritorno al passo ridotto degli anni pre-crisi; è anche possibile un percorso più negativo”.
“Nel mercato del lavoro - ha detto il governatore - il dualismo si è accentuato. Rimane diffusa l’occupazione irregolare, stimata dall’Istat in circa il 12 per cento del totale delle unità di lavoro. Le riforme attuate, diffondendo l’uso di contratti a termine, hanno incoraggiato l’impiego del lavoro, portando ad aumentare l’occupazione negli anni precedenti la crisi, più che nei maggiori Paesi dell’area dell’euro”. “Ma senza la prospettiva - ha concluso il governatore - di una pur graduale stabilizzazione dei rapporti di lavoro precari, s’indebolisce l’accumulazione di capitale umano specifico, con effetti alla lunga negativi su produttività e profittabilità”.
Quello che era emerso dalle prime battute di quanto detto da Mario Draghi, massimo responsabile finanziario del capitalismo italiano, avrebbe lasciato interdetto chiunque. Ma come, la flessibilità del lavoro e la sua precarizzazione sono alla base nella "nuova rivoluzione industrial-capitalista" nel mondo occidentale e hanno permesso un’enorme ridistribuzione di reddito a favore dei pochi ricchi imprenditori e il governatore della Banca di Italia che fa, si preoccupa invece dei precari sfruttati, sottopagati, senza diritto e senza futuro? Vuoi vedere che si sono finalmente decisi a riconoscere i diritti dei giovani e dei lavoratori a una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del lavoro svolto o in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un'esistenza libera e dignitosa, come previsto (ma sinora non applicato) dagli articoli 2, 3, 4, 5, 36 e 37 della Costituzione italiana?
Macché: la preoccupazione di Draghi è di evitare il calo di produttività. Per questo è necessario stabilizzare i precari. L'impegno “dell’economista” non è quello di restituire il futuro, la dignità e la libertà ai giovani. Perché di questo sono stati privati a causa della mancanza di un lavoro. E occorre sempre ricordare che, come prevede l’art. 3 della Costituzione: “È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese”; senza dimenticare l'art. 4: “La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto”.
Niente di tutto ciò. Il diritto a un lavoro certo è sollecitato da Draghi perché questo rafforza l’accumulazione e produce effetti positivi su produttività e profittabilità. Altro che folgorazione sulla strada di Damasco! Il governatore si preoccupa di garantire profitto e utili, non più con la precarizzazione del lavoro, che evidentemente ritiene superata per lo scopo, ma con la stabilizzazione dei precari. Magari da sottoporre subito alla cura Marchionne.
E il sindacato che dice? D'accordo con il governatore della Banca d'Italia si è detto il neosegretario generale della Cgil, Susanna Camusso, secondo la quale Draghi "rimette al centro i veri problemi del Paese". "Il futuro dei giovani passa dal lavoro - aggiunge il leader della Cgil - e i primi temi da affrontare sono quelli della stabilizzazione dei rapporti di lavoro precari e della regolarizzazione dell'occupazione". Inoltre, prosegue Camusso, "giustamente Draghi collega la ripresa, oltre che alla stabilizzazione dei precari, anche alla crescita dimensionale delle nostre imprese che rimane ridotta nel confronto internazionale".
Allineato e coperto. C’era forse qualche dubbio?

martedì 2 novembre 2010

Furto aggravato di spazzatura

Due marocchini sono stati denunciati e arrestati per furto aggravato di spazzatura a Capizzone, Bergamo, su iniziativa del sindaco che li ha sorpresi a rovistare nel cassonetto dei rifiuti, di proprietà esclusiva del Comune.
Su una notizia del genere si potrebbero fare molte considerazioni, anche per l’aspetto metaforico che questa vicenda paradossale contiene.
Come non paragonare questo episodio a quanto sta accadendo in Campania, dove tonnellate di immondizia (che nessuno si preoccupa di togliere o tantomeno rubare) marciscono per le strade e tra le case? Come non pensare al rifiuto sacrosanto di quelle popolazioni di continuare a convivere con discariche di cui farebbero volentieri a meno (realizzate in aree protette), che ammorbano l’aria e procurano malattie e morte e delle quali nessuno rivendica la proprietà?
Ma i rifiuti si prestano bene per evocare ben altro tipo di “monnezza” con la quale abbiamo a che fare di questi tempi. Come non paragonare a una discarica l’immondizia sociale, etica e morale degli scandali giudiziari e sessuali che riguardano i potenti di turno, che riescono a evitare una “giustizia” che è così “benevola” nei loro confronti, nonostante le pesantissime accuse in ballo?
La vicenda di Capizzone è emblematica per la palese discriminazione e ingiustizia cui sono stati oggetto i due derelitti. A costoro non è consentito di appropriarsi né delle briciole, né tantomeno degli scarti. Se lo fanno vengono puniti da una “giustizia” implacabile e “severa” nei loro confronti. Tutto ciò mentre ad altri, colpevoli di ben altri ladrocini, è consentito di continuare a farlo, di vantarsi di averlo fatto e di proporsi come esempio per tutti.
Quanto accaduto ai due marocchini, che non avrebbero probabilmente mai immaginato di compiere alcun atto illecito nel cercare tra la spazzatura qualcosa che potesse servire loro, non è l’ultimo curioso e anomalo episodio o l’incidente involontario e maldestro accaduto in un piccolo paese italiano a causa del pazzoide di turno. Quanto accaduto a Capizzone evidenzia meglio di altri fatti l’involuzione sociale, economica e culturale di un Paese, l’Italia, nel quale solo pochi ”fortunati” sono detentori di diritti e libertà non riconosciuti a tutti gli altri cittadini.
I primi sono liberi di sottrarsi alle leggi e alle regole, anzi di farsele su misura: possono utilizzare i beni di tutti a loro vantaggio esclusivo e arricchirsi spropositatamente, mentre tolgono diritti e libertà agli altri licenziando, delocalizzando, privatizzando, precarizzando, cancellando diritti civili, sociali e contrattuali, tagliando pensioni o imponendo ticket. Mentre gli altri non possono che subire tutto ciò. Non c’è stata e non ci sarà alcuna forza pubblica a intervenire a tutela del loro diritto e della loro libertà. Tutto questo fa e deve fare scandalo. Non le “avventure” di qualche inguaribile e patetico despota che può contare su una “opposizione” che si attiva solo su queste vicende, mentre lascia campo libero e condivide tacitamente tutto il resto.
L’assenza di un’opposizione, prima che politica, culturale e di classe a questo sistema, completa il quadro. Quadro che i potenti e i loro lacchè si spendono per far credere e considerare l’unico e il migliore possibile e non come un insieme di regole economiche e sociali, nonché di classe, di cui sarebbe opportuno liberarsi al più presto. O quantomeno ridiscutere.

mercoledì 27 ottobre 2010

Amministratore delegato polacco a 200 euro al mese per la Fiat? Siamo d'accordo

L’intervista rilasciata dall’amministratore delegato della Fiat Marchionne, al terzo canale Rai, si è svolta senza che fossero poste serie e scomode domande da parte dell’intervistatore. Questo ha permesso al manager di enunciare indisturbato e senza contraddittorio alcuno le ragioni della Fiat e della Confindustria. L’intento chiaro della presenza di Marchionne in televisione è stato quello di tentare di rispondere alla grande e riuscita manifestazione della Fiom del 16 ottobre ed al consenso che intorno ad essa si è creato.
L'intervista dell'amministratore delegato della Fiat nella trasmissione di domenica si è rivelata un boomerang. Sergio Marchionne, di fronte a un interlocutore sorridente e accondiscendente, si è sentito autorizzato ad esporre tutto il suo repertorio padronale e di parte, elencando tutte le sue ragioni e risentimenti senza fornire alcun dato o notizia concreta sui veri programmi della Fiat in Italia, lamentandosi e prendendosela però con chi frena il glorioso e meraviglioso (per chi?) percorso della Fiat, a partire da Pomigliano.
Su questa strada ha usato un modello comunicativo che purtroppo conosciamo bene e che è quello di Silvio Berlusconi. Da un lato c'è il "fare", con i bianchi buoni e dall'altro c'è il "sabotare", con i pellerossa cattivi. Tutti coloro cioè come Fiom, giudici, intellettuali che non sono disponibili a compiacere l’imperatore e che "remano contro" impedendo l’ottimo, radioso, patriottico e disinteressato lavoro della Fiat e del suo Ad, che non guadagna nulla in Italia, ma solo all'estero.
Marchionne si è dimenticato di dire che la Fiat, come ha giustamente rilevato il segretario della Fiom nazionale Giorgio Cremaschi, ha installato le sue aziende solo in quei Paesi dove i salari dei lavoratori sono i più bassi e i finanziamenti pubblici proporzionalmente più alti. Ha dimenticato di dire che in Europa occidentale, dove ci sono quei salari più alti che lui ha promesso agli operai italiani, non c'è alcuno stabilimento della Fiat.
Marchionne ha annunciato il taglio di dieci minuti delle pause per i lavoratori di Melfi e Pomigliano presentandolo come piccola cosa, un piccolo sacrificio peraltro retribuito. Ha dimenticato però di dire che questo taglio corrisponde alla riduzione del 25 per cento delle pause. Ci provi a ridurre del 25 per cento i profitti dei suoi azionisti e vedrà se questi ultimi saranno d’accordo. Marchionne ha lamentato l'anarchia degli stabilimenti, dove però la Fiom ha solo il 12,5 per cento degli iscritti, senza spiegare perchè l'azienda non riesca a governare l'87,5 per cento del proprio personale. Marchionne ha annunciato che l'Italia sarebbe al 118esimo posto su 139 per efficienza del lavoro. Senza spiegare (d'altra parte nessuno gliel'ha chiesto) da dove venga questa classifica, su quali basi sia costruita, quali siano i fattori che la compongono.
Marchionne ha smentito ogni intenzione di entrare in politica con la solita ipocrisia degli amministratori delegati che danno giudizi politici, fanno operazioni politiche, sostenendo al contempo che questo è solo mercato. Marchionne ha lamentato che tre operai a Melfi hanno fermato 1.200 lavoratori, dimenticando che questa sua affermazione è stata condannata come antisindacale da un tribunale che ha disposto il reintegro di quei lavoratori. Sentenza che la Fiat non ha ancora rispettato. Marchionne, come Berlusconi, più fallisce più diventa prepotente, meno è in grado di spiegare più offende. E, come Berlusconi, vede la propria arroganza smontata dal semplice commento di un comico, in questo caso Luciana Littizzetto, che alla fine della trasmissione si è più o meno chiesta: "Ma se è così bravo, com'è che chiude Termini Imerese?".
Marchionne ha passato un quarto d'ora in televisione senza spiegare nulla, ma non certo per riservatezza o rispetto delle relazioni sindacali, perchè questo è esattamente quello che fa anche al tavolo delle trattative. In Marchionne, come in Berlusconi, è sempre più difficile distinguere l'immagine dalla realtà, la propaganda dai fatti. E poi, esattamente come fa il Presidente del Consiglio, Marchionne si è lamentato di una campagna mediatica avversa. Qui c'è un'assoluta irriconoscenza verso un mondo culturale e politico che invece ha sempre supportato le sue imprese. Al punto di non chiedere neppure conto di fatterelli come la distribuzione di lauti dividendi agli azionisti e poderosi aumenti al top management, mentre agli operai veniva cancellato il premio di risultato. In realtà con il regime informativo che c'è oggi in Italia, se raccoglie cattiva pubblicità Marchionne deve prendersela unicamente con se stesso.
Alla fine bisogna ringraziare questa trasmissione. Dopo di essa le ragioni della Fiom sono ancora più chiare e valide.

sabato 23 ottobre 2010

La "sinistra" degli illusionisti in malafede e la realtà di classe

"La sinistra è davvero un impedimento a vincere? La sinistra è la missione di un paese, noi abbiamo bisogno di ricostruire un discorso sulla salvezza dell'Italia". "Ci siamo stancati di perdere bene, adesso vogliamo vincere". Queste sono due frasi d'ordine pronunciate da Nichi Vendola nella sua relazione al congresso di Sinistra e Libertà apertosi ieri a Firenze.
Queste due affermazioni sintetizzano la posizione di un novello affabulatore, simile al suo padrino Bertinotti, che è convinto e soprattutto vuole dare a intendere che con le parole si cambia la realtà. Il governatore pugliese, infatti, parla di sinistra includendo in questa categoria politica anche il Partito democratico. Sembrerebbe, a sentire Vendola, che se la sinistra è perdente la colpa sia da addebitarsi a una sorta di autolesionismo interno (?), che porta a dividersi e a rinchiudersi in nicchie ideologiche, preoccupandosi più di far valere teorie utopistiche vetuste che a confrontarsi con i problemi reali contemporanei.
Se in quest’affermazione c’è del vero (troppe volte nelle formazioni antagoniste ha prevalso la divisione sull’unità e questo è sicuramente un male) è pur vero che la ricerca dell’unità a prescindere dalle analisi, dai contenuti e dagli obiettivi ha determinato sconfitte clamorose e brucianti delusioni.
L’esperienza degli anni passati ha dimostrato che quando i partiti di classe considerano le alleanze non come uno strumento, temporalmente definito per ottenere determinati obiettivi, ma come un traguardo assoluto delle forze “progressiste” o del centro”sinistra”, come avvenuto con i vari governi Prodi o Dini (!) diventano esse stesse strumento del sistema di potere delle classi dominanti e costringono i loro elettori a dover sopportare le scelte più indigeribili. Fra queste lo spostamento della ricchezza avvenuto a danno dei redditi fissi, le varie controriforme pensionistiche, gli interventi “umanitari” in varie aree del mondo, la precarizzazione del lavoro e le logiche di compatibilità e di flessibilità del mercato, le controriforme della scuola, della sanità, l’attacco ai diritti civili e sociali riconosciuti perfino dalla Costituzione, lo scardinamento dei contratti e dello Statuto dei diritti dei lavoratori, le stesse controriforme elettorali in senso maggioritario, ecc. ecc. ecc. (l'elenco delle nefandezze è sterminato).
Tutto ciò ci fa capire che un patto di questo genere può forse anche battere elettoralmente Berlusconi, ma in seguito si riduce alle stesse politiche antipopolari e a favore dal mercato e del liberismo. Questa volta però col sostegno diretto delle forse antagoniste, che sono costrette a subire e a ingoiare rospi a ripetizione per evitare il pericolo maggiore. Bel successo strategico. Bel ricatto servito.
La sinistra, quella del Partito comunista di Berlinguer o del partito socialista di Nenni non esiste più. Le loro lotte, che hanno permesso l’avanzata politica ed economica del mondo del lavoro, sono state abbandonate e tradite da quelle forze politiche che ancora continuano a mantenere la mascheratura dell’appellativo di “sinistra”, ma che nulla hanno a che vedere con la storia e gli obiettivi che la sinistra ha perseguito nel suo cammino. E Vendola è sulla strada per alimentare lo stesso equivoco.
Che senso ha, infatti, la sua affermazione: ”La sinistra è la missione di un Paese, noi abbiamo bisogno di ricostruire un discorso sulla salvezza dell'Italia"? Ma di quale Italia parla Vendola? quella di Marchionne, della Marcegaglia, dei miliardari, di chi delocalizza, delle banche o quella dei lavoratori, dei disoccupati, dei precari, e dei pensionati? Quale sorte accomunerebbe queste categorie di persone? Quali strategie comuni possono avere? Lo spieghi Vendola.
Com’è possibile pensare che tutti questi soggetti abbiano lo stesso comune obiettivo, cioè battere e cacciare Berlusconi, visto che Marchionne, la Confindustria e il padronato hanno conseguito in questi anni successi insperati e inimmaginabili solo venti anni fa?
Vendola sostiene che il berlusconismo è vittorioso prima culturalmente e solo dopo politicamente: "Berlusconi ha cominciato a vincere venti anni prima con le sue tv; quando la scuola pubblica ha cominciato a perdere e la tv a prevalere, lì è nato il fenomeno, che non è un'anomalia ma l'autobiografia di una nazione". Bene, è però il berlusconismo a essere vittorioso culturalmente o sono le logiche neoliberiste della competitività capitalista? Queste ultime sono state fatte proprie e rivendicate proprio da quei partiti (Pd in testa) che hanno dimenticato, abbandonato e tradito le culture sociali alternative e di classe, tacciandole per vecchie e superate, lasciando così il campo libero alla cultura liberista più becera e reazionaria. E dandosi il testimone con Berlusconi e il centrodestra nel governare la demolizione delle conquiste del mondo del lavoro e dei discriminati.
Occorre ricostruire e rilanciare una visione diversa e alternativa, improntata sulle analisi di classe e sulle realtà economiche e sociali. Solo dopo valutare alleanze e battaglie comuni con altre forze. Prescindere da ciò significa, nella migliore delle ipotesi, illudersi e illudere. Non è con le battute anche efficaci su chi vince o chi perde (Bertinotti era un maestro in ciò) che si sconfigge l’avversario. Le stesse ammucchiate che prospetta Vendola (dal Pd a Fini e Casini) possono servire forse al centro”sinistra” ad avere più voti di Berlusconi e sedersi a capotavola al suo posto, ma lascerebbero del tutto invariata la condizione dei lavoratori, che sarebbero coinvolti nelle stesse scelte liberiste come avvenuto in passato. E non avrebbero, a quel punto, neanche più nulla da recriminare.

giovedì 21 ottobre 2010

La classe non è acqua

E’ opinione largamente diffusa che, quando si parla di giustizia, ci si riferisca a un’entità astratta, immodificabile, indiscutibile e perciò superiore . La giustizia con la "G" maiuscola e senza aggettivi cioè, che è al di sopra e al di fuori di ogni fazione o interesse: uno strumento implacabile ed equo contro chi le contravviene e che punisce chi si rende colpevole d’illegittimità. La giustizia imparziale ed equa per tutti, qualunque sia il colore della pelle, la fede politica o religiosa o sindacale, il sesso e la condizione economica.
L'attualità e la storia ci insegnano che la realtà è ben diversa, che la giustizia senza aggettivi non esiste, che sono sempre esistite tante giustizie parziali. E che chi comanda ha sempre cercato di far diventare legge la propria convenienza e i propri interessi, a danno di chi viene comandato (che, evidentemente, è portatore di convenienze e interessi differenti e contrapposti).
Nei sistemi a libero mercato a prevalere è la giustizia e il diritto del capitale, del mercato e della competitività. Essa è fatta su misura per gli interessi di chi detiene la ricchezza e il capitale: la classe borghese o padronato.
Secondo questa giustizia è legittimo che esistano le differenze sociali, che alcuni abbiano diritti non riconosciuti a tutti gli altri; che, quindi, al di là di enunciazioni solenni, gli individui siano titolari di libertà e diritti diversi: l’imprenditore e l’operaio, il parlamentare e il cittadino, il capitalista e il proletario, lo speculatore e il precario, ecc. Secondo questa logica di classe, quindi, possono legittimamente coesistere la ricchezza più sfrenata e la miseria più nera, il ricco padrone (libero) e il disoccupato o precario (oppresso e schiavo), il privilegio e la discriminazione.
Nei sistemi capitalisti gli interessi dei ricchi diventano legge, i bisogni dei discriminati sono condizionati e subalterni a essi (salari, pensioni, occupazione, precarietà, tasse, servizi, sanità, scuola). E’ legittimo ed equo, per fare un esempio, che un imprenditore guadagni quattrocentoventi volte lo stipendio (da fame) di un suo dipendente e costringere quest’ultimo a diritti di cittadinanza che non gli sono garantiti. La classe sociale economicamente prevalente, in questo modo, diventa classe dominante e chiama giustizia, democrazia e libertà la sua giustizia, la sua democrazia la sua libertà.
Quello che sta avvenendo in questi giorni dimostra più che mai la parzialità di classe di una giustizia che si adatta, fino a diventare su misura dei bisogni del prepotente di turno. A costui tutto è consentito: non può essere processato perché ha altro da fare. Può, però giudicare e punire i suoi giudici. L’arroganza del suo potere (che poi è il potere della classe cui appartiene) non conosce limiti. I suoi desideri sono legge, sono diritto, sono giustizia.
Costui (e in gran parte chi appartiene a classi privilegiate) non tenta nemmeno di mascherare o nascondere che il suo tentativo è di farsi i fatti propri. Di piegare, cioè la legge, il diritto e la libertà (già di classe) ai suoi bisogni e interessi prevalenti al momento (rendendo legittimi comportamenti non considerati tali finora), dimostrando oltre alla prepotenza e all’arroganza, un disprezzo verso i cittadini che giudica incapaci di valutare la realtà vera e condizionabili in ogni modo.
Quanto sta avvenendo, in questi giorni, dimostra il fondamento eversivo delle classi dominanti che, non contente del loro attuale potere e della conseguente sostanziale ingiustizia della nostra società, considerano la democrazia parlamentare un’inutile e fastidiosa sovrastruttura e, quando lo ritengono e ne hanno l'opportunità, modificano o manomettono anche le regole costituzionali a loro piacimento.
E l’opposizione che fa? Un contrasto di facciata che non impedisce di fatto la barbarie e la prevaricazione, di cui ha consentito la nascita politico culturale e l’affermazione, ostacolando qualsiasi tentativo alternativo su basi classiste, liquidato come vetero.

domenica 17 ottobre 2010

San Giovanni, l’inizio della lotta

La straordinaria riuscita della manifestazione della Fiom del 16 ottobre, la partecipazione di massa, non solo di operai metalmeccanici ma anche di disoccupati, precari, pensionati e studenti, rappresentano una boccata d'aria fresca e un’iniezione di ottimismo cui da troppo tempo non eravamo abituati. Quanto successo a piazza San Giovanni indica che il popolo risponde quando è chiamato a lottare su obiettivi chiari e su parole d’ordine che riguardano la sua vita, le sue necessità, le sue condizioni.
L’importanza della manifestazione del 16, nata per contrastare l’attacco generalizzato ai diritti dei metalmeccanici di Pomigliano, per poi essere generalizzata a tutti i lavoratori italiani, è stata perfettamente percepita non solo dalla massa di manifestanti presenti in piazza, ma da tutti quelli che hanno capito che in gioco ci sono questioni più importanti e grandi di quelle, pur legittime e sacrosante, riguardanti le sorti di un’azienda, di un contratto e di una categoria.
Da piazza San Giovanni emerge la volontà e la determinazione di un popolo di discriminati e di oppressi che non intende più subire passivamente il continuo peggiorare delle sue condizioni, la demolizione dei contratti di lavoro e dei diritti, la cancellazione delle conquiste sociali ottenute a prezzo di dure lotte (pensioni, sanità pubblica, scuola, ecc.) a vantaggio degli interessi di pochi capitalisti che continuano ad arricchirsi, mentre affamano il popolo cercando di convincerlo che questo è il migliore dei sistemi sociali possibili.
La piazza di San Giovanni ha detto no alle compatibilità capitaliste, alla precarietà, alla cancellazione dei diritti e alla prepotenza e arroganza padronale. Ha detto sì al lavoro, ai diritti e all’uguaglianza.
Da troppo tempo non si erano potuti ascoltare messaggi così chiari e così condivisibili. Da quando, cioè, non solo da parte del padronato, ma soprattutto da quelle forze politiche e sindacali che sulla carta avrebbero dovuto essere dalla parte dei lavoratori e delle loro ragioni, è cominciata la lenta, continua e insidiosa demolizione degli strumenti di analisi di classe e, di pari passo, è cominciata l’esaltazione del sistema che negava l’esistenza dell’ingiustizia sociale, del liberismo e delle compatibilità capitaliste.
Diversi “personaggi politici”, anche alcuni che non c’erano e non hanno aderito ufficialmente, hanno tentato di mettere il loro cappello sulla manifestazione, vista la sua imponente riuscita, cercando di impossessarsi fraudolentemente della forza della protesta dei partecipanti al corteo. Il tentativo più subdolo e pericoloso è rappresentato da quelli che hanno tentato di far credere che il malessere e l’ingiustizia sociale di oggi non siano la conseguenza del sistema liberista, che tutela i pochi ricchi e affama i tanti cittadini e lavoratori, ma dipendessero solo da personaggi sbagliati e negativi al potere. Cambiando i quali (lasciando inalterato il sistema capitalista, s'intende) si risolverebbero i problemi.
Il "sognatore" Vendola, affascinante affabulatore, come il suo predecessore Bertinotti, aspirante candidato del centro”sinistra” alla carica di Presidente del Consiglio, durante la manifestazione ha affermato: ”Qui oggi si è aperto il cantiere dell'anti-berlusconismo. C'è un'Italia migliore di Berlusconi, della paura, questo ci dice questa piazza. Oggi noi abbiamo una grande unità di popolo, è un'unità che viene dal basso"; e, riferendosi al Governo: "Sono loro inadeguati a governare. Hanno portato il Paese verso la miseria"; ancora a chi "ci spiega che di fronte alla crisi bisogna ridurre i redditi e le tutele", il governatore della Puglia ha risposto che "questo non solo è sbagliato dal punto di vista economico, ma rappresenta anche una regressione dal punto di vista della civiltà. Qualcuno vuole uscire dal Novecento per entrare nell'Ottocento. Io voglio entrare nel Duemila. La precarietà è come una pallina da pingpong, che va dalla scuola al mondo del lavoro. Vogliono precarizzare la nostra vita per comandarci meglio", ha proseguito Vendola. "Sono in piazza - ha spiegato - perché oggi non c'è soltanto una questione sindacale, ma politica e culturale. Riguarda un modello di società in cui viviamo. Penso che bisogna ribellarsi, la modernità deve contemplare i diritti del lavoro. L'unità fondamentale è quella del popolo, poi viene quella del centrosinistra. A quella ci pensiamo domani".
Il tentativo del governatore della Puglia sembra essere quello di imbrigliare le giuste proteste e lotte dei lavoratori, mantenendole dentro il quadro capitalista, convogliandole all’interno delle logiche del centro”sinistra”: uno schieramento che ha dimostrato tutto fuorché tutelare i lavoratori e combattere l’ingiustizia sociale che, anzi, ha contribuito fattivamente ad alimentare.
La manifestazione del 16, oltre ad essere rivolta contro l’attuale governo, era apertamente contrapposta alle logiche capitaliste e liberiste condivise e portate avanti sia dai governi di centrodestra, sia da quelli di centro”sinistra”.

venerdì 15 ottobre 2010

Il 16 ottobre con la Fiom, contro l’arroganza e la prepotenza

La manifestazione nazionale della Fiom del 16 ottobre a Roma ha l'obiettivo di mettere in campo un’opzione diversa da quella della precarietà per tutti e del ricatto sociale generalizzato.
Non si tratta soltanto di una questione di tattica, ma anche di sostanza politica. La prospettiva iperliberista, da importare nel Paese e nei posti di lavoro, è indicata come via d’uscita dalla crisi della globalizzazione liberista. Peccato però che sia incompatibile con la democrazia e gli interessi di lavoratori, disoccupati, precari e pensionati.
Lo sanno bene i milioni di precari e di disoccupati che non hanno mai potuto sapere cosa significasse esigere un diritto o praticare la democrazia sul posto di lavoro. Lo sanno i tanti costretti al lavoro nero e sottopagato. Lo sanno i lavoratori di settori che hanno già sperimentato le magnifiche sorti dei contratti “innovativi”.
La giornata di lotta del 16 ottobre deve servire a sconfiggere il tentativo di generalizzare l’accordo di Pomigliano e di azzerare il contratto dei metalmeccanici: questioni che rappresentano la premessa di un progetto generale reazionario che ha l’obiettivo di determinare l’abolizione di ogni forma di democrazia e di diritto per le classi più deboli. Che saranno così ancora di più ricattabili.
Non che nel nostro Paese la democrazia nei luoghi di lavoro sia un granché, anzi. Ma ora ci sono elementi di novità. Bonanni e Angeletti pretendono di sostituire un contratto nazionale approvato con referendum con uno nuovo (separato e mai sottoposto al voto dei lavoratori) e firmano persino un accordo che stabilisce che Fim e Uilm possono concordare nelle aziende delle deroghe al contratto nazionale separato e che quelle deroghe verranno “validate” non dai lavoratori interessati, ma da Fim, Uilm (Cisl e Uil) e Federmeccanica a livello nazionale. Per poi generalizzare negli altri settori metodi e contenuti.
La manifestazione del 16 colloca la Fiom, nei fatti, alla testa di un movimento di opposizione. E' necessario che rappresenti il primo appuntamento di riscossa dei lavoratori per sconfiggere questi tentativi, portati avanti da chi è apertamente ostile agli obiettivi della mobilitazione (Fiat, Confindustria, Governo e oligarchie di Cisl e Uil), ma anche da parte dell’opposizione parlamentare che non ha il coraggio né di schierarsi apertamente a fianco dei lavoratori, né contro le loro rivendicazioni. La Cgil, dal canto suo, è costretta a subire l’iniziativa della Fiom e a partecipare per non perdere ulteriormente la faccia e per tentare di ricondurre all’interno delle logiche e delle pratiche di compatibilità e subalternità del sindacato la lotta dei metalmeccanici e della Fiom.
Non sorprende in ultimo il coro becero e di vecchia memoria del Governo e di parte delle solite cassandre “dell’opposizione” (Veltroni l'africano in testa), teso a diffondere allarmismo intorno alla manifestazione, circa il pericolo di immaginarie iniziative eversive.
Costoro, preoccupati della ripresa del protagonismo dei lavoratori, tentano di accomunare le lotte operaie al terrorismo, cercando di accreditare l’idea per cui a mettere in pericolo la democrazia è chi lotta, chi resiste e si oppone alla prepotenza e all’arroganza e manifesta per i propri diritti, non chi arbitrariamente sottoscrive accordi sindacali sulla sua testa dei lavoratori. Senza alcun mandato e senza alcun consenso.

P.s. La scena di Riotta, ormai portavoce-zerbino della Marcegaglia (col benestare del Berlusca, come da intercettazioni), che da Santoro afferma che gli imprenditori che delocalizzano sono dei "poverini" e che per superare la crisi occorre togliere diritti ai lavoratori è vergognosa. Il tutto con Bersani "manichedicamiciatiratesù" in imbarazzato silenzio. E dimostra come sindacati confederali, giornalisti ossequiosi e politici di mezza tacca si siano tutti venduti, chi per un posto da direttore, chi per la ricandidatura, chi per mangiare al tavolo dei padroni. Il tutto sulla pelle dei lavoratori che si sentono dire: "c'è il sistema capitalista, DOVETE fare sacrifici" - "contestate il sistema? SIETE dei terroristi". Altro che uova.

giovedì 14 ottobre 2010

Uscire dalla miniera

Finalmente liberi i 33 minatori intrappolati in Cile. Certe notizie volano più alte della cronaca, le miserie della politica, il pettegolezzo dominante. Nella speranza che non si ripetano più fatti come questo, anche se finito nel migliore dei modi. Anche se molte volte, purtroppo, non è così. Ci pensino tutti coloro che attaccano i diritti dei lavoratori, anteponendo gli affari di mercato e i guadagni personali, spesso sporchi e sulle spalle della collettività. Ci pensino loro a stare sepolti 600 metri sottoterra per portare a casa il pane. E ci pensino i lavoratori, a difendere ciò che spetta loro.

sabato 9 ottobre 2010

Buon compleanno John



"Imagine".
John Lennon (Liverpool, 9 ottobre 1940 - New York, 8 dicembre 1980), chitarrista, cantante, poeta.

venerdì 8 ottobre 2010

Bamboccioni? No, emarginati, sfruttati e derisi

L’ultima indagine statistica pubblicata in questi giorni da Eurostat si è occupata di analizzare l’età media in cui i giovani escono dalla famiglia. Il dato significativo che ne emerge segnala una tendenza generale a restare “in famiglia” dei giovani. Nella fascia di età 25-34 anni vive con i genitori il 32 per cento degli uomini contro il 20 per cento delle coetanee. In Paesi come la Bulgaria la differenza è molto più forte: 61 contro 31 per cento.
La televisione di Stato presenta in questo modo quanto emerso dall’indagine (Televideo dell’8 ottobre): ”Eurostat: i più mammoni sono i giovani italiani”. Il giornale la Repubblica, sulla stessa lunghezza d’onda, titola: ”Eurostat: i bamboccioni sono maschi. Le donne se ne vanno di casa prima”. I due mezzi di comunicazione si lanciano, poi in una serie di considerazioni sociologiche riguardanti i giovani di ambo i sessi, evitando bene di toccare le vere ragioni. Che sono economiche e di fondo, determinando il fenomeno e le sue logiche conseguenze. Secondo costoro, infatti, sarebbe da addebitarsi al costume e allo sviluppo culturale delle varie nazioni (che comunque sono coinvolte allo stesso modo) il fenomeno, rappresentando così i giovani come incapaci, anche in età adulta, di staccarsi dalla propria condizione assistita e tutto sommato felici della propria realtà.
Lo stato delle cose è ben diverso. La gigantesca redistribuzione della ricchezza, avvenuta nella società fondata sul mercato e sulla competitività, favorisce sempre di più i pochi ricchi capitalisti e penalizza i tanti, che privi di risorse economiche e di lavoro non vedono prospettive per il proprio futuro. Questo vale a maggior ragione per la stragrande maggioranza dei giovani, che si apprestano ad essere, nella migliore delle ipotesi, precari (con stipendi bassi e con il perenne rischio di perdere, con il lavoro, anche quelli) o addirittura disoccupati a vita. Condizioni che privano di qualsiasi possibilità di costruire la propria vita e la propria indipendenza e libertà, costringendo a rimanere “in famiglia” dove si può contare sullo stipendio o sulla pensione dei genitori che, in questo modo, sopperiscono alla situazione garantendo sussistenza. Al posto dello Stato e a proprie spese.
Questa situazione, intollerabile e penalizzante per i giovani precari e disoccupati fa la felicità del padronato, che grazie alla fame di occupazione può avere “manodopera” piegata, subalterna e disponibile anche a lavorare in uno stato di perenne precarietà e senza poter usufruire dei diritti contrattuali (stipendi, ferie, malattia, diritto di sciopero, ecc.) dei padri. I giovani sono perciò ridotti a una condizione di completa subalternità, economica e sociale. Il tutto a vantaggio del padrone, che ne trae maggiore profitto e guadagno.
Togliere ai giovani il diritto alla propria libertà e autodeterminazione, che solo un lavoro può consentire, rappresenta un’ingiustizia sociale mostruosa. Aggiungere a ciò l’insulto e la derisione diventa una violenza intollerabile e inaccettabile.

giovedì 7 ottobre 2010

Un accordo sindacale controcorrente

Giorni fa il sindacato tedesco Ig Metall ha raggiunto un accordo con uno dei maggiori gruppi industriali al mondo, la Siemens AG, azienda che opera principalmente nei settori dell’automazione industriale, del trasporto ferroviario, dell’illuminazione, dell’energia, dell’informatica e dell’elettronica medica.
Quattro sono i punti nodali dell’accordo.
1) La sovranità sull’occupazione, in Siemens, diventa materia condivisa, non più soggetta ad atti unilaterali dell’azienda che non può operare alcun licenziamento senza che la rappresentanza sindacale aziendale conceda il suo nulla osta.
2) l’accordo è sì valido - ma non poteva essere altrimenti - per la sola Germania, ma è esteso anche alle “consociate”, sicché i lavoratori che ne beneficeranno toccheranno il ragguardevole numero di 160mila. E’ l’intero arcipelago del gruppo a essere coinvolto. Le aziende controllate saranno tutte vincolate alla medesima normativa in materia di salvaguardia occupazionale.
3) In caso di crisi aziendali si ricorrerà a soluzioni alternative alla risoluzione dei rapporti di lavoro, come la mobilità all’interno del gruppo e come la riduzione degli orari. Sì, proprio quell’intervento sul tempo di lavoro che padroni e governi nostrani hanno sempre osteggiato e tuttora considerano una sciagura, preferendo che il mondo del lavoro si divida fra un esercito di disoccupati involontari (scarsamente o per nulla assistiti) e un’altra parte, ricattabile, impegnata per sessanta ore settimanali.
4) Impegno formale di Siemens, conseguenza diretta dei precedenti, di non delocalizzare le produzioni all’estero: gli investimenti e gli insediamenti allocati dall'azienda in terra straniera saranno dunque complementari e non sostitutivi rispetto a quelli operativi in Germania.
La società bavarese non è la sola impresa tedesca ad aver intrapreso questa strada, visto che la Daimler, azienda di automobili e mezzi di trasporto civili e militari, ha revocato l’intenzione di chiudere lo stabilimento di Sindelfingen, impegnandosi a mantenere in forza, fino al 2020, i 37mila lavoratori che vi sono occupati.
Tutto ciò merita un’approfondita riflessione, che dovrebbe essere condivisa anche dai politici e dai sindacati nostrani. Con questo accordo si demoliscono luoghi comuni che hanno qui da noi grande seguito. A partire dalla madre di tutte le sciocchezze, quella secondo cui i differenziali dei costi di produzione (e specialmente di quello del lavoro) giustificano ogni sorta di sopruso antisindacale entro i confini nazionali, nonché la dismissione degli impianti da traslocare appena possibile in siti dove il rischio di impresa è pari a zero e il profitto certo.
Questo non significa certo che in Germania ci siano padroni filantropi che rinunciano al loro profitto sulla pelle dei lavoratori. C’è da parte del padronato tedesco meno ingordigia rispetto agli imprenditori nostrani e più lungimiranza, perché retribuisce il lavoro operaio come nessuno al mondo (da tre a cinquemila euro mensili), con i salari reali che sono cresciuti nel secondo semestre e su base annua del 2,3 per cento, mentre decollano nei lander le lotte per i rinnovi dei contratti di settore e - malgrado i tagli di questi anni - il welfare, nonché gli investimenti sulla ricerca e sull’intero sistema formativo si mantengono a livelli ragguardevoli. Con le logiche ricadute positive in materia di consumi.
Ora, non si tratta di magnificare acriticamente il modello cogestionale tedesco, che ha le sue ombre, quanto segnalare che, pur rimanendo all’interno di un ambito capitalista e di mercato, possono sussistere soluzioni meno ingiuste e discriminatorie di quelle nostrane, improntate alla cancellazione dei diritti, al precariato, alla disoccupazione, al sottosalario e alla delocalizzazione.
Di quest’accordo in Italia sicuramente si parlerà poco o nulla. Né il padronato e i partiti che lo rappresentano (di destra o di "sinistra"), né i sindacati, tutti accucciati sotto il totem dominante delle compatibilità capitaliste, hanno interesse a far conoscere l’esistenza di strade diverse da quelle che perorrono. E che sono cosi fruttuose per loro in termini di sporchi, veloci soldi.

domenica 3 ottobre 2010

C’è violenza e violenza

Testo dell’articolo comparso su Il Sole 24 Ore il 2 ottobre scorso.
«Il Paese ha perso il senso istituzionale, la bussola è partita, qualcuno ha aperto i cancelli dello zoo e sono usciti tutti. È difficile andare in giro per il mondo a spiegare cosa succede in Italia. È vergognoso». Così l'amministratore delegato della Fiat Sergio Marchionne ha commentato gli ultimi fatti di violenza che si sono verificati in Italia.
Alla domanda se sia corretto fare delle similitudini con gli anni di piombo, Marchionne, che si è detto «molto preoccupato», ha risposto: «Beh, quelle fotografie le ricordiamo tutti». In precedenza, nel corso dell'intervento davanti alla platea dei Cavalieri del lavoro, a Firenze, l'ad della Fiat aveva affermato che «gli episodi di violenza che si sono verificati in questi giorni vanno condannati con fermezza. Dobbiamo prendere le distanze, tutti quanti, da una cultura disastrosa che alza la tensione sociale e nega il dialogo».
A giudizio di Marchionne si tratta di «una cultura che non ci appartiene e che serve solo a distruggere ciò che di buono stiamo tentando di costruire. Oggi c'è bisogno di una convergenza forte, la più ampia possibile, che veda insieme tutte le forze positive di cui l'Italia dispone». Secondo l'ad della Fiat, insomma, «c'è bisogno di condividere gli impegni, le responsabilità e i sacrifici, in vista di un obiettivo che vada al di là della piccola visione personale». Questo, ha concluso, «è il momento di accettare il cambiamento come possibilità per creare una base di ripartenza sana, come un'occasione per iniziare a costruire insieme il Paese che vogliamo lasciare in eredità alle prossime generazioni».
Fra gli episodi di violenza che giustificherebbero il nuovo allarmismo, fino a evocare il terrorismo degli anni di piombo, Il Sole 24 Ore elenca: L’attentato (presunto) sventato a Maurizio Belpietro e, fatte alcune distinzioni, il candelotto che ha bruciato il giubbotto di Raffaele Bonanni sul palco torinese della Festa del Partito democratico. Ma anche i lanci di uova e pietre di ieri a Livorno contro la sede della Confindustria e della Cisl e l'assedio di un gruppo di avversari sindacali urlanti, sempre ai danni della Cisl, a Treviglio. E ancora le contestazioni urlanti che hanno impedito di parlare, in due distinte occasioni, al presidente del Senato Roberto Schifani e al suo ex collega Franco Marini; o anche l'invasione di sala che ha chiuso appena al suo incipit l'intervento sui nuovi diritti del lavoro (?) del professor Pietro Ichino a Milano.
Premesso che il terrorismo (coincidente troppe volte con gli interessi dell’avversario di classe, tanto da giustificare dubbi sulla sua reale matrice e provenienza) non ha mai fatto parte dei metodi di lotta democratica, né teorizzati né tantomeno praticati dei lavoratori che, anzi, nella sostanza sono stati sempre in prima linea nella lotta contro tale aberrante modo di concepire la politica, accostargli le sacrosante, legittime e civili proteste verso quei soggetti politici o sindacali caratterizzatisi per politiche contro i lavoratori è, questo si criminale.
Considerare l’applauso come unica forma di espressione democratica è tipico delle dittature. Questo sta avvenendo in Italia. I lavoratori e i cittadini hanno il sacrosanto diritto di criticare e contestare chi decide per loro e su di loro. E lo fa a loro danno. Cisl e Uil, senza la Fiom e soprattutto senza alcun mandato, che sottoscrivono accordi contrattuali anche in deroga ai contratti di lavoro; le più alte cariche dello Stato che si tutelano grazie a leggi che li esentano dal rispondere alle accuse che il sistema giudiziario gli contesta; i politici e i “giuslavoristi” che con la loro condotta politica e con le loro teorie fanno compiere ai lavoratori e ai discriminati enormi passi indietro sulla strada dell’emancipazione e dell’uguaglianza, devono sapere che il loro comportamento non può essere esente da giudizi e quando lo meritano, possono e devono essere criticati e contestati. Quale democrazia sarebbe, quella che permette solo il consenso?
Che tipo di consenso si può esprimere verso un ceto politico e sindacale che ha visto come unica maniera per uscire dalla crisi (che peraltro ha colpito solo i lavoratori, i precari, e i pensionati) quella di ridurre sempre e soltanto il lavoro, i salari, i diritti civili, le prestazioni sociali e le pensioni, la scuola, la sanità, i servizi a parità di carico fiscale, mentre ha concesso ai grandi capitalisti di continuare ad arricchirsi e ad evadere le tasse?
Tutti i dati statistici continuano a segnalare il crescere della disoccupazione se non della fame: ultimo in ordine di tempo il crollo dei consumi delle famiglie italiane nel 2009, soprattutto per trasporti, generi alimentari e abbigliamento, come segnalato dalla Cgia di Mestre. Tutto questo peggiorare delle condizioni di vita però è circoscritto nell’ambito delle classi subalterne, perché i ricchi e i capitalisti hanno continuato ad arricchirsi in barba ai sacrifici e alle rinunce che hanno imposto ai lavoratori.
Come può allora essere considerata violenza la contestazione verso chi continua a demolire le condizioni di vita di chi sta già male, senza poi dire nulla sulla violenza che ogni giorno (da troppo tempo ormai) è esercitata verso chi è licenziato e delocalizzato, verso chi vede diminuire il suo salario e il suo potere di acquisto, verso chi viene mantenuto in uno stato di disoccupazione o di precarietà privandolo del suo presente e del suo futuro e soprattutto della sua dignità di persona libera. Come può essere considerato libero un cittadino che non sa quanti anni di lavoro e di contributi sono necessari per potersi riposare? Il lavoro, se eterno o quasi, non nobilita l'uomo, ma lo riduce peggio delle bestie. E non è un modo di dire. Oggi ci sono schiavi ormai canuti alla catena di montaggio, mentre i giovani sono disoccupati grazie alla logica perversa e cinica della competitività a senso unico del padronato. Come si può definire non violenta quella realtà sociale, determinata dai politici e tollerata dai sindacati confederali che, ogni giorno riduce o priva i cittadini di servizi primari come la sanità e la scuola, mantenendo intatto il carico fiscale. Come non definire violenti la stampa e i mass media quando si assiste a metodi di “confronto democratico” come quelli di questi ultimi tempi, che servono a regolare i conti fra i potenti e a oscurare il malcontento e il malessere profondo dei discriminati?
Per costoro i lavoratori, i disoccupati, i precari e i pensionati devono subire serenamente le ingiustizie e le discriminazioni che ogni giorno vengono perpetrate ai loro danni, senza recriminare né tantomeno protestare. Solo cosi saranno democratici e non terroristi. Questa è violenza, altro che chiacchiere e mistificazioni.
E’ contro questo stato di cose che occorre prendere conoscenza e coscienza e soprattutto mobilitarsi e lottare. Non può essere più consentito impunemente a costoro, dopo averci privato di dignità e speranza nel futuro, di assumere il ruolo di difensori della civiltà, del progresso e della legalità.