martedì 7 dicembre 2010

Lettera di un comunista fuori moda ma attuale

(In risposta all'articolo di Valerio De Nardo su TusciaWeb: "Se il Pd è suonato...")

Allo “Sporco comunista”.

Leggendo la tua opinione ho sentito la necessità di esprimere la mia sulle conclusioni che trai davanti alle questioni interne a quel partito.
Mi hanno spinto a scrivere le mie convinzioni che, in maniera simile alle tue, inducono anche me a dichiararmi comunista nonostante questo sia, oggi, fuori moda.
Le tue conclusioni, davanti al quadro desolante rappresentato da questo partito, che ritengo siano tali non solo a livello locale, ma anche a quello nazionale, ti portano a concludere che non è poi così sorprendente se Sinistra Ecologia e libertà voli nei sondaggi.
Lungi da me l’idea di intavolare un qualsiasi confronto o polemica su basi partitiche in proposito. Non servirebbe perché oggi ritengo sia più necessario confrontarsi sui contenuti e non sulle sigle.
L’approdo sulle sponde del liberismo e delle logiche interclassiste, deciso dal Pd, ha determinato la modifica delle linee e delle strategie di quel partito che nonostante tutto tenta di presentarsi, con una buona dose di contraddittorietà, come un partito delle forze “sane” e progressiste e di sinistra includendo però, in quest’ambito imprenditori, benestanti, lavoratori, disoccupati, precari e pensionati.
E’ proprio questo tentativo teso a dimostrare che è possibile una coesistenza e un equilibrio sociale ed economico fra soggetti detentori di diritti e di libertà differenti, a determinare le difficoltà, per quel partito, ad assumere posizioni precise e nette per non scontentare nessuno dei soggetti sociali cui pensa di rivolgersi.
Il suo percorso travagliato, iniziato con il passaggio dal Pci al Pds poi ai Ds e oggi al Pd, coincise con la caduta del muro di Berlino.
Non è mia intenzione tornare su questioni e analisi che ci hanno coinvolto a lungo. Sono convinto però, che le ragioni che hanno determinato la caduta di sistemi che al socialismo si richiamavano, non abbiano fatto venir meno l’ingiustizia e con essa la disuguaglianza sociale.
Esistono ancora oggi, ed in misura maggiore di venticinque anni fa, le disparità e le discriminazioni sociali fra i cittadini. Queste, ancora oggi, sono determinate dalle condizioni economiche che producono differenze sostanziali sia in termini di benessere economico che di libertà individuali fra i cittadini.
Queste differenze non riguardano singoli ma gruppi consistenti di cittadini cui sono negati il lavoro e con esso la libertà dal bisogno e la dignità stessa.
Questa condizione non accomuna, però, tutti i cittadini. Nel mentre si tagliano salari e diritti ai lavoratori, nel mentre si taglia il sistema previdenziale, nel mentre si precarizzano i giovani e li si deruba del futuro, altri cittadini di altre condizioni economiche si arricchiscono e godono di condizioni e di libertà diverse, anzi molto maggiori e migliori di prima.
Le libertà e le condizioni economiche di alcuni cittadini cozzano e si contrappongono con quelle di altri cittadini.
Come giudicare diversamente quanto sta avvenendo in Fiat, a Mirafiori o a Pomigliano. In questo quadro l’annullamento dei diritti economici e civili di alcuni è la condizione e il presupposto dello sviluppo e del benessere degli altri. Non certo di tutta la collettività i cui bisogni, anche quelli primari sono condizionati agli interessi economici dei pochi eletti.
Come valutare diversamente l’arricchimento sfacciato e provocatorio di pochi e il perenne e inarrestabile impoverimento e mortificazione dei tanti?
Questo solo per affrontare un limitato campo di “confronto”.
Come può una forza politica, tanto più una forza politica che si ostini a dirsi di sinistra, pretendere di rappresentare tutti gli interessi in campo: dei discriminati e dei privilegiati, dei ricchi e dei poveri, dei liberi e degli oppressi? E’ impossibile. Soprattutto perché a discriminare e a impoverire non sono le “ragioni superiori dell’economia”, ma quelle legate agli interessi dei ricchi e privilegiati.
Non si può, in sostanza, servire due padroni perché alla fine se ne serve uno solo a danno dell’altro. Di cui, però si continua a pretendere il consenso e il voto.
Da questo dipendono le difficoltà del Pd.
Non solo del Pd, ma anche di tutte quelle formazioni politiche che combattono l’ingiustizia sociale e che ritengono sia possibile, da posizioni minoritarie e operando all’interno del campo avversario, magari anche con alleanze “innaturali” vincere e far ottenere risultati positivi ai discriminati.
Le esperienze del primo centrosinistra, che includevano anche Bertinotti e Rifondazione comunista, hanno dimostrato che l’intelligenza, la telegenicità o la simpatia di un leader non determinano alla lunga il cambiamento o i progresso dei discriminati. Le alleanze innaturali alla fine (e la storia di questi ultimi anni l’ha dimostrato) accentuano le contraddizioni e finiscono per rafforzare l’avversario. La mancanza di chiarezza ha portato la sinistra, anche quella che si definisce radicale, a dividersi e a sostenere le ragioni dell’economia dei ricchi, compresi gli interventi “umanitari”, armati nel mondo. Portando allo smarrimento e al disorientamento.
La lotta politica non può non fondarsi sulle alleanze. Queste però devono essere chiare e su obiettivi definiti, con la consapevolezza che la necessità di produrre una radicale pulizia dell’attuale quadro politico non può far perdere di vista la realtà esistente e gli interessi in campo. Non può soprattutto prescindere dai contenuti. Berlusconi, in buona sostanza, non è il male assoluto, ma il massimo rappresentante di una classe sociale che, anche in quest’era di crisi si è arricchito ed ha prosperato a danno di tutti gli altri, e che vuole continuare a farlo. Non possono ragioni di convenienza e di lotta politica momentanea, cambiare la realtà.

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