venerdì 30 luglio 2010

Gli intoccabili e i toccabili

Il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, parlando alla Farnesina in occasione della settima Conferenza degli ambasciatori italiani nel mondo, ha accolto la protesta dei diplomatici italiani, che nei giorni scorsi hanno inviato una lettera al capo dello Stato nella quale si esprimevano preoccupazioni per i tagli alla diplomazia previsti nella manovra finanziaria.
In quella conferenza il presidente della Repubblica ha fatto alcune significative affermazioni: “A tutti i cittadini è necessario fare sacrifici in proporzione ai loro redditi effettivi, ma non postulando tagli di risorse e appiattimenti su parametri impropri, quasi si trattasse di penalizzare gruppi di privilegiati e d’intoccabili”. Ancora: “L’obiettivo della riduzione del debito pubblico non si esaurisce in una manovra pur pesante come quella attuale”. Questo scopo, infatti, “richiederà un impegno di ben più lunga lena, uno sforzo costante e coerente di controllo sia d’indirizzi di governo, sia di comportamenti collettivi”. E in ultimo rispondendo alla Lega circa le funzioni della politica estera giudicate non trasferibili dal centro alle istituzioni regionali e locali, perché non frammentabili ha affermato: ”che eredità ed esperienze come quelle della diplomazia nazionale non possono essere disperse o impoverite se non a costo di un danno irreparabile per il prestigio e il ruolo internazionale del paese”.
Queste affermazioni, fatte in un’assemblea di persone coinvolte e interessate, fanno nascere diversi interrogativi. Come prima cosa la difficile contingenza economica è forse affrontata con equità nel nostro Paese, dove si sta realizzando un immenso spostamento di ricchezza che va concentrandosi sempre più nelle tasche di pochi, mentre sta riemergendo il fenomeno della povertà assoluta? I cittadini italiani concorrono effettivamente in proporzione al loro reddito? Oppure esistono fasce di cittadini (lavoratori dipendenti e pensionati) che pagano l’imposizione diretta fino all’ultimo centesimo anticipatamente (grazie al sostituto d’imposta), essendo "toccabilissimi" dal fisco, mentre tutti gli altri cittadini contribuiscono solo a consuntivo (?) e su propria dichiarazione alla scadenza annuale della denuncia dei redditi? Non è scandaloso che categorie di cittadini privilegiati con un altissimo tenore di vita dichiarino redditi irrisori e molto inferiori a quelli di un lavoratore o addirittura di un pensionato al minimo, risultando intoccabili dal fisco?
Se gli “appiattimenti su parametri impropri, quasi si trattasse di penalizzare gruppi di privilegiati e d’intoccabili”, non sono accettabili per il corpo diplomatico che sicuramente svolge una funzione rappresentativa importante, perché lo stesso criterio non può essere applicato per i lavoratori costretti a misurarsi con salari miseri e di sotto la soglia di povertà, se si considera che lo stipendio di un lavoratore contribuisce al mantenimento di altre persone? Forse i lavoratori non contribuiscono con il loro lavoro all’economia del Paese e hanno diritti inferiori agli ambasciatori, i quali non vanno mortificati?
Perché il debito pubblico cresce se i cittadini a reddito fisso (lavoratori e pensionati) pagano sempre più tasse mentre i servizi sono sempre di meno e di qualità più scadente? Perché non si utilizza il denaro pubblico a vantaggio del popolo e non s’impedisce, agli amministratori pubblici di sperperare risorse di tutti? E’ forse più semplice ricorrere a ennesime “manovre economiche collettive” che “toccano” i soliti noti determinando l'evidente peggioramento delle loro condizioni di vita? Perché non si leva alcuna voce autorevole delle alte cariche dello Stato verso una manovra economica che colpisce e penalizza i redditi fissi mentre ignora ed esenta i detentori di grandi ricchezze? Non sarebbe opportuno ed equo, prima di occuparsi dell’appiattimento dei trattamenti economici del corpo diplomatico, che non sono certo a livello d’indigenza, preoccuparsi di adeguare stipendi e pensioni al costo della vita e mettere mano alla disoccupazione, soprattutto quella dei giovani?
Perché la strada che viene scelta è sempre quella di colpire i toccabili?

giovedì 29 luglio 2010

Fiat e padronato ci provano

Prosegue la politica aggressiva della Fiat contro i lavoratori. Tre sono le “operazioni” che l’amministratore delegato Marchionne sta portando avanti: 1) costituzione di una Newco (nuova azienda) con capitale sociale di 50mila euro, controllata da Fiat Partecipazioni per gestire lo stabilimento di Pomigliano e l'attività di produzione, assemblaggio e vendita di autoveicoli e loro parti; 2) revoca dell’adesione della Fiat a Federmeccanica (il sindacato delle aziende metalmeccaniche della Confindustria); 3) disdetta del Contratto collettivo nazionale di lavoro (Ccnl) dei metalmeccanici.
La costituzione della Newco risponde alla volontà (intimidatoria?) di far assumere i dipendenti di Pomigliano dalla nuova società senza alcuno dei diritti economici e normativi maturati, ma con un rapporto di lavoro ex novo. Attraverso quest’operazione, di fatto, la Fiat persegue il ridimensionamento o addirittura l’eliminazione della componente sindacale più combattiva, rappresentata da Fiom e Cobas.
La revoca dell’adesione alla Federmeccanica serve alla Fiat e al padronato a non allargare l’eventuale conflitto, in questa fase, a tutta la Confindustria, cofirmataria insieme alle Organizzazioni sindacali dei contratti di lavoro di tutti i settori. La disdetta del contratto rappresenta l’attacco più grave ai diritti dei lavoratori che sia stato mai portato avanti dal 1945 a oggi.
Il Ccnl rappresenta il punto di mediazione raggiunto da sindacati e padronato sulla base di piattaforme rivendicative presentate dai lavoratori, tramite il sindacato, per migliorare stipendi e normative contrattuali. La disdetta del Ccnl da parte della Fiat costringe tutto il sindacato, anche quello che ha sottoscritto l’accordo di Pomigliano (Cisl e Uil), ad assumere una linea chiara e comprensibile, obbligandolo a schierarsi in maniera inequivocabile e definitiva a favore o contro la linea padronale, per poter poi emarginare (come la Fiat ha fatto in passato) chi si oppone.
La disdetta è la logica prosecuzione della “nuova” linea che il padronato vuole imporre e che il sindacato non ha visto o non ha voluto vedere: quella di un’altra diminuzione dei “costi” di produzione, a partire dai salari a vantaggio dell’incremento di utili e profitti (sempre degli stessi). Il tutto utilizzando il ricatto dell’occupazione, che una posizione sindacale troppo “rigida” potrebbe compromettere "costringendo" alla delocalizzazione dell’attività di produzione.
Si stanno creando le premesse di uno scontro epocale con la Fiat che rompe gli indugi e fa da apripista ingaggiando, in un periodo in cui le fabbriche sono chiuse, una battaglia che stabilirà il futuro non solo lavorativo del paese. Deciderà priorità, ruoli, spazi politici e contrattuali d’imprese e lavoratori, definendo le basi su cui poggerà il futuro dei prossimi decenni.
I lavoratori arrivano a quest’appuntamento, che il padronato stava predisponendo da qualche tempo, impreparati e indeboliti. E soprattutto privi di una difesa sindacale adeguata. Mancano o non prevalgono, infatti, analisi e giudizi alternativi alle logiche padronali della globalizzazione, della competitività e del mercato. Il sindacato, quello “maggiormente rappresentativo”, è pronto a sottoscrivere tutto e il contrario di tutto, rinunciando in nome dei lavoratori a qualsiasi principio e diritto consolidato (per la “difesa dell’occupazione” naturalmente), mentre insieme al padronato sta cercando di emarginare, in un gioco perverso e inaccettabile, la Fiom e i Cobas, gli unici che non si piegano ai diktat.
La posta in gioco è alta. Il nostro futuro e soprattutto quello delle giovani generazioni saranno determinati in un modo o nell’altro dall’esito di questa fase politico-sindacale. I lavoratori e i giovani devono essere protagonisti nell’intera vicenda e devono esigere di essere loro a determinare i contenuti di eventuali accordi, senza alcuna delega in bianco a sindacati compiacenti o a partiti che fingono di sostenere le loro ragioni mentre lavorano per affossarle.

martedì 27 luglio 2010

Guerra umanitaria

È stata definita la più grande fuga di notizie della storia militare americana. Opera del fondatore di Wikileaks che ha diffuso nuove informazioni riguardanti quella che viene, oggi, apertamente chiamata guerra in Afghanistan (doveva essere un "intervento" e va ormai avanti da quasi nove anni). Notizie che nessun giornale “libero“ finora aveva comunicato. Esse riferiscono di “centinaia di civili uccisi dalle truppe della coalizione”, di cui non si è saputo nulla, in scontri che non sono mai emersi; di “unità sotto copertura a caccia di leader ‘vivi o morti’” incaricate di "uccidere o fermare" qualsiasi talebano anche senza processo. Dagli archivi riservati emerge inoltre che la coalizione sta usando sempre più armi letali, i droni Reaper , per fulminare gli obiettivi talebani in modo telediretto da una base del Nevada. Il fondatore di Wikileaks riferisce inoltre che nei documenti "potrebbero esserci prove di crimini di guerra: starà a un tribunale decidere se qualcosa è un crimine. Detto questo, nel materiale sembrano esserci prove di crimini di guerra" ha dichiarato. A tutto ciò, conclude il fondatore di Wikileaks, si aggiunge che "dopo aver speso 300 miliardi di dollari in Afghanistan, gli studenti coranici sono più forti ora di quanto non lo fossero nel 2001". Questo mese il segretario di Stato, Hillary Clinton, ha annunciato "altri 500 milioni di dollari" in aiuti a Islamabad, definendo Usa e Pakistan "partner uniti da una causa comune".
Avevano detto che l’intervento in Afghanistan era di natura “umanitaria” per l’affermazione della “democrazia”, contro il sopruso quotidiano dei talebani che imponevano un’islamizzazione estremista e terrorista di quella realtà. Per convincerci hanno mostrato gli aspetti, che pure ci sono, più intollerabili e inaccettabili, come le esecuzioni sommarie, le punizioni corporali e le umiliazioni alle donne afghane, la distruzione della cultura.
Le bombe “democratiche” della coalizione della Nato, di cui l’Italia fa parte, sono forse più tollerabili di tutto ciò? Forse per le vittime della guerra fa differenza sapere qual è il colore della bandiera di chi li uccide? Sarebbe sbagliato affermare che forse gli afghani avrebbero fatto a meno dell’intervento “umanitario” della Nato?
Oggi in America si sta discutendo sulla “opportunità” della diffusione di queste notizie. Mentre in Italia la stampa tratta la notizia come se quanto sta avvenendo non ci riguardasse. Del resto la “libera” stampa, compresa quella nostrana, a differenza di quanto è accaduto in altre occasioni, è sempre stata molto “restia” nel raccontare gli eventi di quella realtà. Questa discrezione, alla luce dei fatti, ha contribuito a diffondere la convinzione che la vera natura dell’intervento Nato in Afghanistan fosse veramente di carattere umanitario. Nonostante le notizie che riuscivano a trapelare da quella realtà, con i soldati uccisi come nemici, l'importanza geostrategica di certi luoghi, un passato di spregiudicate alleanze (proprio con i talebani) e, ultimamente, quanto accaduto ai medici dell’organizzazione di Gino Strada.
La stampa e i mass media hanno mancato al loro ruolo, negandoci l’informazione indispensabile per qualsiasi società civile e libera e si sono fatti strumento di un potere che aveva e ha interesse a mistificare la verità. Dimostrando anche in quest’occasione quale sia il livello reale della nostra “democrazia”.
L'unica soluzione è dire basta alla guerra e restituire agli afghani il diritto alla propria autodeterminazione, con il ritiro immediato dei soldati dalle loro terre. E che il Governo italiano, che in queste ore sta decidendo su quello che deve togliere agli italiani, elimini le spese per l’intervento invece, com’è dato sapere, di pensare di aumentare il numero di soldati in quell’area.

domenica 25 luglio 2010

Investimenti e tornaconti

Sembrerebbe, a sentire gli ammiratori a senso unico del liberismo, che i cittadini e i lavoratori dovrebbero essere grati e riconoscenti ai padroni se questi ultimi “investono” e quindi “creano” occupazione diventando essi stessi “datori di lavoro”. Per questi sostenitori occorre quindi realizzare le condizioni perché gli “imprenditori”, nella loro indiscussa libertà, siano stimolati e incoraggiati a investire e quindi a produrre posti di lavoro. Creare le premesse per l’investimento è la condizione ineludibile. Altrimenti a Marchionne chi glielo fa fare?
Agli imprenditori e ai capitalisti lo Stato non impone per legge di utilizzare le loro ingenti (superflue?) ricchezze economiche per il fine sociale previsto dall’articolo quarantuno della Costituzione. Nella pratica spesso li invita li coccola e li circonda di ogni attenzione e cura. Attenzione e cura che si traducono in finanziamenti, agevolazioni fiscali, partecipazioni societarie, ecc. ecc. ecc.
Secondo tutti costoro l’investitore va premiato e gli va riconosciuto il ruolo “sociale” di creatore di posti di lavoro o “datore di lavoro”. Senza di lui ci sarebbero solo disoccupazione e miseria per i dipendenti, che dovrebbero essergli perciò riconoscenti e disposti anche a rinunciare a un futuro economicamente migliore e alle superflue e superate garanzie costituzionali.
Chiamparino, sindaco di Torino e astro nascente del Partito democratico, si unisce al coro e dice testualmente: ”Il fatto è che pensiamo ancora come negli anni Settanta, siamo fermi a quell'epoca e a quel mondo. Non solo la Fiom, che continua a dire che dopo trent'anni di contributi la Fiat non può andare fuori, a chi pensa semplicemente che si possa andare avanti senza regole o con regole messe continuamente in discussione”. Se così è, chi glielo fa fare a Marchionne di investire venti miliardi in un paese in cui, bene che vada, è sopportato. “Poi però bisogna pur convincerlo a rinunciare alla linea dura e a pensare a qualcosa di alternativo per Mirafiori". Poi sempre Chiamparino, “Perciò se fossi al posto di Marchionne, direi: io devo fare tante vetture, fate voi le proposte su come evitare di perderci tutti”.
Secondo Chiamparino, che sulla carta è un dirigente di un partito di “opposizione” di centro”sinistra”, l’obiettivo della Fiat sarebbe solo quello di costruire vetture (non di realizzare guadagni e profitti) e quello del sindacato di fare le proposte (di dire cioè a cosa sono disposti a rinunciare, a nome e per conto dei lavoratori) perché a Marchionne sia più conveniente raggiungere i suoi obiettivi in Italia e non all’estero. In questa direzione i sindacati non devono attardarsi o essere fermi agli anni Settanta, quando i lavoratori si battevano per un salario più equo e per i diritti. Per Chiamparino tutto ciò e roba vecchia, superata e datata. Occorre “innovare”, altrimenti perché Marchionne dovrebbe rinunciare alla linea dura e “investire” in Italia e non altrove? Verrebbe da chiedersi dura perché e soprattutto verso chi? (Verso i lavoratori e i disoccupati fannulloni, perdenti e rivolti al passato perché rivendicano i propri diritti?).
Perché occorre adulare il capitalista affinché investa parte delle proprie ricchezze superflue? L’investimento non è forse per l’imprenditore un’opportunità per incrementare, raddoppiare o più ancora il capitale? L’investimento è forse realizzato per carità sociale? Pensiamo davvero veramente che Marchionne e la Fiat faranno mai prevalere la solidarietà con i disoccupati e i cassaintegrati al proprio profitto e al tornaconto? Oppure, come vogliono darci a intendere, quella della Fiat e del suo amministratore delegato è una battaglia “morale e politica” per sconfiggere “l’estremismo” della Fiom che si attarda su concetti superati.
Epifani, segretario della Cgil, dichiara su Mirafiori (stabilimento torinese storico e in chiusura per la delocalizzazione in Serbia della Fiat) che è utile una trattativa con l'azienda "a due condizioni: che l'incontro possa portare a dare certezze sugli investimenti in Italia e la difesa dell'occupazione” schierandosi, di fatto, con l’accordo di Pomigliano e con chi l’ha sottoscritto: Fiat, Cisl e Uil. Ma anche contrastando nei fatti chi non l’ha sottoscritto (Fiom e Cobas) e cogliendo l’occasione per differenziare e separare le proprie posizioni e quelle della Cgil da quelle della Fiom, indebolendo la sua lotta e strizzando l’occhio alla Fiat.
Le condizioni dell'azienda e di Marchionne sono note e sono diventate la strategia e il modello di azione di padronato, governo e sindacato con il nome di “fabbrica Italia”, nel tentativo comune di estendere “l’accordo” di Pomigliano generalizzandolo su tutto il Paese. La Fiat, il Pd e il sindacato, tralasciando il governo, naturale e scontato sostenitore di teorie liberiste, non si rendono conto che le crescenti e intollerabili ingiustizie determinano una condizione sociale esplosiva che viene mal sopportata da lavoratori, precari e disoccupati. Un’insofferenza crescente che alla fine produrrà il risveglio delle coscienze e la ripresa delle lotte e del cammino verso una società. Si spera più giusta di questa.

sabato 24 luglio 2010

La pace

In una società fondamentalmente ingiusta la pace serve solo a chi gli gira bene: in realtà ci vorrebbe un bel pò di casino, proprio un bel pò di casino per non accettarla 'st'ingiustizia. Dedicato ai geni della Fiat, o alla P3, o a chi vi licenzia, a caso.



(Le luci della centrale elettrica + Perturbazione, "Piromani")

venerdì 23 luglio 2010

No al liberismo, sì alla libertà

Sempre più frequentemente accade di imbattersi in fenomeni come la delocalizzazione, la globalizzazione o l’internazionalizzazione delle imprese. Queste definizioni economiche evidenziano le diverse dimensioni che a causa del mercato stanno assumendo le aziende, sempre meno locali o nazionali per diventare sempre più extranazionali, al fine d’avere una maggiore “libertà” di movimento che in passato. Questo determina dei cambiamenti significativi, sia sul modo di lavorare o di concepire il lavoro, che soprattutto sullo stile di vita e sulle libertà dell’individuo e sullo sviluppo o sul declino d’intere aree geografiche.
L’ultima azienda italiana che sta facendo i conti con queste trasformazioni è la Fiat, che sta gestendo o spostando le proprie attività in varie parti del mondo (Polonia, Serbia, Usa, ecc.) secondo propri calcoli e convenienze. Il tutto mantenendo il marchio Fiat (Fabbrica italiana automobili Torino), come se il prodotto fosse interamente realizzato nel nostro Paese.
Non si tratta di un fenomeno nuovo, già in passato il mercato e i capitalisti avevano esteso su vaste aree della terra il loro raggio d’azione con il colonialismo che era, però, prevalentemente legato allo sfruttamento delle materie prime e del commercio di schiavi. I colonialisti stessi erano invisi ai colonizzati, che spesso ingaggiavano contro di loro guerre di liberazione.
L’estensione e le caratteristiche attuali di questo fenomeno, dovute anche alla realizzazione di entità politiche come l’Unione Europea, meritano un’attenzione particolare perché si realizzano in un contesto diverso dove le imprese e i padroni che “investono” in altre aree diverse da quelle di provenienza, con la scusa del libero mercato e della competitività, determinano cambiamenti significativi nella libertà e nella vita degli uomini che coinvolgono, ma con la ricerca del consenso di questi ultimi.
Perché le imprese delocalizzano le proprie attività e diventano extranazionali o internazionali? Per essere più competitive, per abbattere i costi di produzione e soprattutto per aumentare i profitti. Il principale mezzo per raggiungere gli obiettivi è costituito dal risparmio sulla manodopera con il taglio dei salari e la compressione o l’annullamento dei diritti dei lavoratori. Questi ultimi, se non vogliono perdere il lavoro o se lo vogliono trovare, devono lavorare di più con meno salario nel tentativo di vincere la competizione con altri lavoratori di altri paesi, che hanno i loro stessi problemi. La minaccia della delocalizzazione o del mantenimento in Polonia delle produzioni, ha consentito alla Fiat di Marchionne di far digerire a sindacati “disponibili” tagli e rinunce ai diritti dei lavoratori. Diritti non solo di tipo economico, ma di civiltà, eliminando i quali si intaccano i principi stessi della Costituzione e del Contratto di lavoro. Si è innescato, grazie al liberismo trionfante che ha attecchito anche in aree politiche e sindacali che prima lo avversavano, un meccanismo di “collaborazione sociale e di classe” a senso unico che permette lauti guadagni a imprese e capitalisti e comprime e compromette la vita di chi lavora. Rappresentato come l’unico e il migliore dei sistemi possibili.
Se il mercato non “tira” e i conti non “tornano” è ormai opinione comune per la Confindustria, il Governo (ma anche per “l’opposizione” e il sindacato), al fine di rendere competitive le industrie, contenere i costi e i redditi (naturalmente solo quelli fissi e non quelli stratosferici dei manager) e lanciare politiche di “contenimento” e “rigore”, di “concertazione o dei redditi. Questo ha portato, in questi ultimi decenni, al dimezzamento degli stipendi e alla ricomparsa di povertà che investono fasce crescenti di popolazione. Il tutto mentre, indisturbate, crescono le grandi ricchezze.

mercoledì 21 luglio 2010

Il padrone delle ferriere

Un po’ di notizie dal mondo Fiat.
1) L’azienda è in piena attività e sta rivedendo gli assetti industriali con la divisione in due società: la Fiat e la Fiat industrial. Quest’ultima assorbirà tutto il mercato dei veicoli industriali e agricoli e i debiti finanziari. Quest’operazione sarà ratificata in un apposito Cda che si terrà a settembre.
2) Dalle banche è arrivata all’azienda una comunicazione di finanziamento fino a quattro miliardi con una «highly confident letter», firmata congiuntamente da Barclays Capital, Bnp Paribas, Citi, Credit Agricole Corporate and Investment Bank, IntesaSanpaolo, Societè Generale Corporate & Investment Banking, The Royal Bank of Scotland e Unicredit Corporate Banking.
3) I dati relativi al secondo trimestre registrati dal Gruppo Fiat e approvati dal consiglio di amministrazione inoltre evidenziano un andamento positivo nei conti che preannuncia piani radicali di riorganizzazione societaria. L’utile netto è pari a 113 milioni di euro, contro una perdita di 179 milioni di euro nel secondo trimestre 2009; l’utile della gestione ordinaria è più che raddoppiato a 651 milioni; i ricavi sono in rialzo del 12,5 per cento, a 14,8 miliardi di euro. Il titolo Fiat è sospeso in apertura dei mercati per eccesso di rialzo, con un balzo in avanti di oltre il sei per cento dopo l'annuncio dell’utile netto positivo nel primo semestre.
4) Sempre sul fronte “economico finanziario” la Fiat, come fa sapere la Fiom, ”ha deciso di distribuire centinaia di milioni agli azionisti e di aumentare del 40 per cento i compensi ai massimi dirigenti”.
E ai lavoratori?
A questa, che è solo una parte dell’informazione, quella che più interessa la proprietà e gli azionisti, fa da contraltare la parte di attività e il gran “lavoro” Fiat verso i propri dipendenti. Sul fronte sindacale sono da registrare, come hanno denunciato la Fiom e lo Slai cobas, cinque licenziamenti di lavoratori e rappresentanti sindacali di base a Melfi, Mirafiori e Termini Imerese. Operai e impiegati che si sono distinti nella lotta in difesa dei diritti delle maestranze Fiat contro la linea attuale inaugurata con ”l’accordo di Pomigliano”, della quale i licenziamenti e una politica chiaramente intimidatrice della casa automobilista sono, per i dipendenti, i primi risultati concreti a oggi riscontrabili.
Contro tutto ciò c’è stata la risposta di quella parte di sindacato più vicina ai lavoratori, Fiom e Cobas, con la proclamazione di diverse ore di sciopero, alcune delle quali già svolte con una forte adesione. E altre sono in calendario. La Fiom inoltre sta organizzando, per mercoledì 28 luglio, degli incontri con tutte le forze politiche, davanti al Parlamento per “denunciare il clima antidemocratico e intimidatorio dell’azienda” e per sensibilizzare l’opinione pubblica.
Gli affari e i conti economici vanno molto bene per la Fiat e per i suoi azionisti, tanto è vero che ha deciso di distribuire centinaia di milioni a questi ultimi e di aumentare del 40 per cento i compensi ai suoi massimi dirigenti. Questo però non accade alle lavoratrici e ai lavoratori del gruppo cui, oltre ai salari già bassi, si vuole concedere poco o niente. La Fiom, infatti, rivendica ”la corresponsione immediata di una cifra non inferiore a quella dell’anno scorso: 600-800 euro a tutti i dipendenti, anche a quelli in Cassa integrazione”. Oltre ciò il sindacato richiede “il ritiro dei licenziamenti a carattere «intimidatorio» a Melfi e a Mirafiori; l’apertura di un negoziato sulle prospettive industriali e occupazionali del Gruppo connesse alla costituzione di due società (Auto e Fiat industrial), respingendo la strategia perseguita a Pomigliano di contrapporre lavoro e diritti”.
Nascono spontanee, da questi primi avvenimenti, due considerazioni su quanto sta accadendo. La prima è che la Fiat intende perseguire una linea di “rigore” a senso unico nei conti: a differenza di quanto accade per i suoi dirigenti e azionisti, ai lavoratori non toccherà pressoché nulla o pochi euro in busta paga da questo trend economico positivo. Segno chiaro che la logica imprenditoriale è disponibile solo a socializzare le perdite mentre privatizza i profitti, in barba ai tifosi della concertazione, cui è riservata una trattativa che si occupa esclusivamente dei tagli, della cassa integrazione e dei licenziamenti. La seconda è che la volontà dell’azienda, emersa con ”l’accordo di Pomigliano” di instaurare un “nuovo ciclo” nei rapporti con i lavoratori, va avanti senza ripensamenti: meno diritti più lavoro, meno velleità sindacali per i lavoratori più libertà per il padrone.
E il sindacato unito? La Cisl e la Uil? O dormono, o sono al mare, o a concertare qualche altro accordo in difesa e per gli interessi di tutto il Paese e dei lavoratori, naturalmente.

lunedì 19 luglio 2010

Vendola, lo sparigliatore illusionista

Ieri Vendola ha chiuso gli "Stati generali delle Fabbriche di Nichi", con un annuncio in chiaro stile giornalistico: ”Le primarie non sono una minaccia per il Pd o per il centrosinistra e io mi candido per sparigliare questi giochi”.
Vendola avrebbe inteso gettare un sasso nello stagno del Pd e del centro”sinistra” per togliere questi ultimi da una posizione “perdente” e far intraprendere loro una nuova e più fortunata vita. Nichi, infatti, afferma: ”Non sono una minaccia per il Pd, ma per la cattiva politica”, "occorre" rilanciare ”una politica del fare e per la vittoria di popolo non di parte o di partito”. Ancora: ”Noi abbiamo perso - riferendosi al centro”sinistra” - anche perché da questa parte della barricata ci siamo comportati come amministratori di condominio e non come costruttori di una visione”. In queste affermazioni di Vendola appare chiaro un messaggio: i problemi del Pd e del centro”sinistra” non dipendono principalmente dalle politiche portate avanti, ma dal ceto politico che dirige il partito e la coalizione. Il centro”sinistra” ha perso, quindi, perché è stato diretto da un ceto politico vecchio, burocrate, appiattito su se stesso, che ha allontanato la politica dalla gente, tanto è vero che “se la politica non incontra la vita non è capace di sentire le pene e gli affanni, non è capace di costruire la speranza, non può essere una proposta vincente”. In conclusione il Pd e il centro”sinistra” non vincono perché volano basso e non sono capaci di suscitare speranze e progetti. Occorre allora aria nuova. Ed è sottinteso che questa provenga da lui.
Questa fraseologia è ispirata a una concezione religiosa ed enfatica della vita, che prescinde da una visione di classe della politica. Non fa i conti, cioè, con i rapporti sociali ed economici fra le varie classi sociali, che non possono condividere le stesse politiche perché ciò che va bene per una classe, inevitabilmente confligge con le altre. In primo luogo perché condizioni sociali ed economiche diverse producono interessi diversi e contrapposti.
Il distacco che esiste fra il “popolo” e il ceto politico del Pd e del centro”sinistra” non dipende dalla loro modernità, o capacità o simpatia, ma dalla politica e dagli interessi che costoro hanno tutelato e rappresentato, che non sono stati né sono quelli, per dirla alla Vendola, “del popolo” ma delle imprese (o dei padroni). E il “popolo” questo l’ha capito. Non esiste una supremazia asettica della Politica, ma la supremazia delle politiche (o degli interessi) che sono in campo e che prevalgono. Il Pd e il centro”sinistra” perdono perché non possono essere considerati (né sono) un’alternativa al governo di centrodestra di Berlusconi. Tante, troppe sono le “affinità” tra i due schieramenti, che hanno determinato scelte e linee governative caratterizzate dalla stessa impostazione economica di classe. Si è realizzata una sorta di staffetta governativa nel tempo: ciò che ha iniziato uno schieramento, lo ha proseguito l’altro quando gli è subentrato al governo e viceversa. Il taglio dei salari, il sistema fiscale iniquo per i redditi fissi, le varie “riforme” delle pensioni (Dini, Prodi e Berlusconi), gli “interventi umanitari” e militari in varie parti del mondo, la privatizzazione della scuola, della sanità, dell’energia e dell’informazione, la flessibilità e la precarizzazione del lavoro, le varie “riforme” elettorali in senso maggioritario, servono solo per fare degli esempi.
Queste non sono state scelte asettiche e imparziali, ma sono state utili a qualcuno e hanno danneggiato altri. Hanno prodotto, infatti, un enorme spostamento della ricchezza a vantaggio di pochi ricchi, affamando i lavoratori, i giovani e i pensionati, riducendo anche la loro libertà. Queste politiche hanno sistematicamente punito i lavoratori e favorito i padroni, rispondendo ai bisogni di arricchimento di questi ultimi e non alle esigenze di lavoro e di vita dei primi. In conclusione è prevalso il liberismo. Questa teoria economica rappresenta la base delle politiche sia del centrodestra che del centro”sinistra”. Altro che incapacità. Altro che ceto politico ammuffito e appiattito di cui Vendola sarebbe l’alternativa “giovane” e “vincente”.
Il Pd e il centro”sinistra” non sono perdenti perché diretti da politici “incapaci o superati”, bensì perché sono entrati in competizione con uno schieramento politico e un uomo che rappresentano e garantiscono meglio, in questa fase, gli interessi padronali. Il Pd e il centro”sinistra” costituiscono oggettivamente una variante politica possibile di questi interessi. Anzi Pd e centro”sinistra” sono più utili se stanno all”opposizione”, per far digerire proprio al popolo le misure antipopolari del governo Berlusconi varate per “risanare” il debito pubblico del Paese.
La proposta di governi tecnici, inoltre, non è sbagliata perché, come dice Vendola “si è conclusa una stagione politica”. E’ sbagliata perché il governo tecnico, di cui farebbero parte entrambi gli “schieramenti”, renderebbe oggettivi e non di parte gli interessi delle imprese e dei padroni, scaricando ancora una volta sul popolo e non sui ricchi altri tagli e sacrifici.
Vendola non rappresenta perciò “il nuovo” che avanza in contrapposizione al vecchio che resiste. Rappresenta invece il tentativo di lanciare un’illusione di cambiamento, per far rimanere tutto com’è. Si tratta in realtà della solita trita politica buonista e interclessista che cerca di conciliare interessi inconciliabili: quelli dei lavoratori e quelli dei padroni senza cioè cambiare nulla.
In ultimo come fa Vendola che è a capo di un’aggregazione politica a candidarsi per dirigere il Pd e il centro”sinistra”? Solo in un modo: essendo interno e organico a tale forza politica e a tale schieramento. Tanto per parlare di un modo "vecchio" di fare "politica".

venerdì 16 luglio 2010

Pescecani e coccodrilli

La manovra economica è passata al Senato con l’ennesimo voto di fiducia, ora andrà alla Camera. Il “dibattito” svoltosi in quest’occasione ha visto il Governo schierato in una difesa delle proprie “scelte”. Queste ultime riguardano le pensioni con finestre mobili e attese di vita, l’allungamento dell’età pensionabile per le donne della pubblica amministrazione a sessantacinque anni e il blocco degli stipendi del turn over, i tagli agli enti locali (regioni e comuni), le norme sulle pensioni d’invalidità, gli aumenti dei pedaggi autostradali, i tagli ai ministeri e alla scuola, ecc. ecc. ecc.
Da parte dell “opposizione” si è assistito a interventi di critica, anche sdegnati, privi però di qualsiasi velleità di reale contrapposizione a scelte che penalizzano sempre e solo i soliti: lavoratori, giovani e pensionati. E il sindacato? Tace e acconsente.
Questa sorta di “confronto” ha dato la netta sensazione di un gioco delle parti, tipico di certe occasioni, dove il Governo difende quello che fa e ”l'opposizione” si “oppone”. Che tutto ciò sia una sorta di recita a soggetto lo dimostrano alcuni “provvedimenti” (per esempio in materia di pensioni, di età pensionabile e di attese di vita), che approvati da questo Governo sono stati promossi in passato da altri governi di altro colore. Il Governo di centro”sinistra” Dini, infatti, con la legge 335 del 1995 introdusse la norma sulla speranza di vita, che poi non fu attuata. Oggi ci pensa il centrodestra di Berlusconi a farlo con una continuità di scelte politiche degna di miglior causa.
Cambiano i governi (sulla carta se ne succedono di diverso colore), uguali sono le scelte economiche e i soggetti da penalizzare. D’altra parte il ripianamento del debito pubblico è un obiettivo largamente condiviso da entrambi gli schieramenti. Il Presidente della Repubblica inoltre ha recentemente parlato del “dovere di tutti di ridurre il debito pubblico” e per questo occorre una “coesione nazionale senza la quale il nostro paese si perderebbe nel fiume della globalizzazione”(?) Gli fa eco il “comunista pentito” e attuale dirigente del Pd D’Alema, dichiarando che c’è bisogno di “un nuovo patto per la crescita” come negli anni ’90, che porti a un governo di “larghe intese” su obiettivi precisi come “la legge elettorale e la realizzazione di un compromesso ragionevole tra nord e sud in materia di federalismo”. Tali affermazioni apparentemente indecifrabili per chiunque contengono dei precisi messaggi in codice per muovere e cambiare le sorti della “politica”. La loro. In questo caso D’Alema cerca di coinvolgere la Lega con lo zuccherino del federalismo. Essendo il Paese davanti a un’emergenza economica, D’Alema, invita “tutte le forze politiche a un’assunzione di responsabilità” senza pensare di ricorrere a scorciatoie giudiziarie per rimuovere il Governo attuale, con un esecutivo che comprenda tutti, a capo del quale però non ci deve essere Berlusconi. Ecco il nocciolo. Davanti a un governo dal “bilancio fallimentare” e pieno di dimissionari forzati, D’Alema propone un governo di salute pubblica e di coesione nazionale cui dovrebbero partecipare, oltre al partito di Berlusconi, lo stesso Pd, l’Udc e la Lega. Il tutto in un unico abbraccio, superando le “diversità”, uniti nello sforzo patriottico e disinteressato di sanare l’economia italiana.
Non cambieranno naturalmente i soggetti su cui si scaricherà lo sforzo patriottico di costoro, chiamati come sempre a pagare la crisi. Sempre sugli stessi, infatti, da trenta anni (con governi di ogni tipo) si stanno abbattendo disoccupazione, tagli, tasse, svalutazione inflazione, ecc. ecc. ecc.
Finirà perlomeno (unica consolazione) il teatrino della finta “lotta politica” di due schieramenti che fingono di essere contrapposti, mentre con le loro scelte e le loro politiche alimentano l’ingiustizia e la discriminazione sociale.

mercoledì 14 luglio 2010

La violenza e l’arroganza del potere

Il ministro dell’economia Tremonti smentisce il ministro del welfare Sacconi! La norma che fa saltare il limite dei quaranta anni di contributi per la pensione non è una svista o un refuso e afferma: ”Il sistema previdenziale è cambiato senza un’ora di sciopero”.
La violenza e l’arroganza di questa dichiarazione è di una gravità inaudita. Tremonti si vanta di aver raggiunto, con un semplice emendamento alla manovra economica e senza che nessuno protestasse, quello che diversi governi (a cominciare da quello Dini a Berlusconi, passando per Prodi e D’Alema) non erano riusciti a fare: stroncare definitivamente il sistema previdenziale italiano, conquistato a prezzo di dure lotte. Non ci sarà più per il futuro la certezza della pensione, nemmeno dopo quaranta anni di lavoro e di contribuzione.
Il ministro Tremonti, rappresentante di una classe di privilegiati che può andare in pensione dopo soli due anni e mezzo di “lavoro”, toglie questo diritto ai lavoratori in una logica di “rigore” a senso unico per risanare a spese di questi ultimi i conti dello Stato. Quanti anni o meglio quante vite dovrà lavorare un precario per arrivare ad avere quaranta anni o più di contributi e quindi avere diritto alla pensione? Questo, il ministro non lo dice. A lui interessa il risultato.
Non si è preoccupato il ministro Tremonti di leggere i dati pubblicati proprio oggi dall’Istat riguardanti il lavoro sommerso o nero in Italia? Ebbene nel 2009 circa 2 milioni e 966 mila lavoratori (quasi tutti dipendenti) hanno lavorato a nero nel nostro Paese. Il valore aggiunto prodotto in questo modo è compreso tra un minimo di 255 e un massimo di 275 miliardi di euro. Quali sono le conseguenze di questo comportamento fraudolento degli “imprenditori” che si rifugiano nel sommerso per arricchirsi e defraudare i lavoratori e lo Stato? 1) Il mancato versamento dei contributi previdenziali per i tre milioni di lavoratori interessati; 2)la sottostima del fatturato e il lievitare dei costi dichiarati per le aziende; 3) la totale evasione fiscale di queste attività. L’entità del fenomeno è tale da incidere pesantemente sullo stesso Pil nazionale (se si considera che i 3 milioni di lavoratori a nero rappresentano circa il 15 per cento della forza lavoro attiva in Italia).
Davanti all’enormità di questi dati, cosa ha da dire in sua difesa il ministro dell’economia? Cosa intende fare per correggere questo stato di cose? Nessuna vergogna. Nulla. Niente di niente. La sua malcelata soddisfazione è quella di essere stato così bravo di essere riuscito dove altri avevano fallito: togliere la pensione ai lavoratori regolari senza nemmeno un’ora di sciopero. Dando a intendere che tutto ciò avviene, per di più, con il consenso degli stessi.
Il cinico accanimento di classe e quindi a senso unico e l’uso del guanto di ferro con i deboli e del guanto di velluto con i forti, alimenta e aumenta l’ingiustizia sociale. Smaschera allo stesso tempo la violenza del sistema “padronale” mai sazio, che affama i lavoratori sicuro e convinto di poter continuare a lungo indisturbato sulla strada dell’arricchimento a danno dei discriminati e degli (è certamente il caso di dirlo) oppressi.

martedì 13 luglio 2010

Gli "interessi nazionali" di ricchi e (pre)potenti

Ieri sull’Unità on line il segretario del Pd Bersani ha respinto le avance di Casini. Quest'ultimo era reduce da una cena riconciliatrice, con tanto di benedizione vaticana, per formare un “governo di responsabilità nazionale” con a capo Berlusconi e i partiti dell’Udc e del Pd. Bersani ha espresso la sua contrarietà a tale governo dichiarando: “Casini sa cosa pensiamo, il berlusconismo va chiuso perché ha fallito”. Una volta chiuso questo ciclo, le forze "responsabili" potranno dar vita a scenari di unità nazionale.
Il piatto è servito! Se non si trattasse delle dichiarazioni del primo dirigente del maggiore partito di “opposizione” in Parlamento, verrebbe addirittura da ridere. In che cosa consisterebbe il fallimento di Berlusconi? Questo Bersani non lo dice. Consiste forse nella situazione economica disastrosa in cui si trova l’Italia, o meglio parte dell’Italia? Con un’economia e un fisco che salvaguardano i ricchi e i potenti mentre affamano i lavoratori, privano del futuro i giovani e del presente pensionati e disoccupati aumentando l’ingiustizia e la discriminazione sociale. Bersani questo non lo spiega.
Se c’è chi ha fallito, Bersani potrebbe individuarlo guardandosi allo specchio. I sondaggi che periodicamente vengono elaborati per misurare il grado del consenso del Governo sono in caduta libera ma non cresce però il dato relativo all'”opposizione”, che non è capace di raccogliere consensi neanche in questa circostanza favorevole, perché non è individuata come alternativa a Berlusconi.
Una “opposizione“ che non si oppone, che favorisce una sperequativa distribuzione della ricchezza e della giustizia, che legittima e non contrasta l’attuale potere.
La riproposizione periodica di governi di “responsabilità o solidarietà o unità nazionale” di vecchia memoria, lungi dal risolvere i problemi dei discriminati, permette la riproposizione interclassista di una ricorrente politica di tagli e sacrifici a senso unico, in una logica di “superiorità” degli “interessi nazionali”. Che poi, chissà perché, sono sempre quelli dei ricchi e dei (pre)potenti.

lunedì 12 luglio 2010

La vera competitività? Meno milioni a Marchionne e una tuta da lavoro ai sindacati

Dopo aver incontrato nei giorni scorsi i sindacati (esclusa la Fiom) cui ha comunicato l’intenzione di riportare la produzione della Panda in Italia a Pomigliano, l’amministratore delegato della Fiat Marchionne ha inviato a ciascun lavoratore dello stabilimento una lettera in cui afferma: ”Le regole della competizione internazionale non le abbiamo scelte noi, possiamo scegliere se stare dentro o fuori dal gioco”. In sostanza Marchionne e la Fiat vogliono costruire un prodotto competitivo che costi poco e sia di qualità per sfidare i competitor del mercato utilitarie. Questa competizione è definita gioco.
La logica di Marchionne presuppone una sorta di ricatto per i lavoratori: o accettate i totem del mercato e della competitività o state senza lavoro. E, badate bene, questo è solo l’inizio!
Per far passare questo messaggio il coraggioso manager usa termini sportivi e addirittura cavallereschi, sia "competizione" che "sfida", tanto per richiamare dei concetti agonistici. Ai lavoratori Marchionne chiede di abbassare i costi di fabbricazione della Panda. Come? Rinunciando a diritti e salario e aumentando i ritmi e i turni di lavoro. I lavoratori, grazie a Cisl e Uil non si potranno sottrarre e, per non essere accusati dal fustigatore Marchionne ed essere all’altezza della “sfida competitiva”, hanno deciso di stringere un buco della cintura (e anche a quella di tutti i loro familiari), di respirare dieci volte di meno il minuto, di integrarsi con la macchina robot e di recarsi alla toilette a fine turno, dopo appena otto ore (tra un boccone e l’altro).
Marchionne potrebbe dare una mano e un esempio, rinunciando a qualche milione di euro. Nel 2009, infatti, per la sua carica ha percepito dalla Fiat la modesta cifra complessiva di 4,78 milioni di euro, non considerando il compenso per il ruolo di amministratore delegato della Chrysler che, in base agli accordi, nell'anno passato non è stato retribuito. Marchionne è titolare, inoltre, a fine 2009, anche di 19,42 milioni di stock option con un prezzo di esercizio medio di 9,64 euro ed esercitabili nel periodo compreso tra gennaio 2011 e gennaio 2016.
La Fiat stessa in ultima analisi potrebbe rinunciare a parte dei propri profitti. Cosa che invece non è per niente in discussione.
Così, tanto per dare un contributo alla sfida e alla competizione, i dirigenti Cisl e Uil, sempre pronti a sottoscrivere e rinunciare ai diritti (degli altri), potrebbero aiutare infilandosi una tuta e provando a lavorare in catena alle condizioni degli operai. Forse si renderebbero conto del capolavoro che hanno contribuito a realizzare.
La competitività di Marchionne e del sindacato: sfidare le altre case automobiliste a chi affama di più i lavoratori.

venerdì 9 luglio 2010

Libertà di stampa: è un problema dei giornalisti?

Nei giorni scorsi molti giornali titolavano: "Venerdì 9 luglio giornata del silenzio dell’informazione italiana". A promuovere l’iniziativa la Fnsi (il sindacato di categoria dei giornalisti) che nel documento con cui proclamava lo sciopero fra l’altro ha affermato: ”I giornalisti sono chiamati a una forma di protesta con un rumoroso silenzio dell’informazione nella giornata di venerdì 9 luglio, contro le norme del ddl sulle intercettazioni che limita pesantemente il diritto dei cittadini a sapere come procedono le inchieste giudiziarie”. Ancora “lo sciopero è una protesta straordinaria e insieme la testimonianza di una professione, quella giornalistica, che vuole essere libera per offrire ai cittadini informazione leale e la più completa possibile” se passasse il ddl “molte notizie e informazioni d'interesse pubblico sarebbero negate giorno per giorno fino a cambiare la percezione della realtà perché oscurata, cancellata per le norme di una legge sbagliata e illiberale che ne vieterebbe qualsiasi conoscenza”.
Leggendo il testo della Fnsi sorgono degli interrogativi, di fondo e di metodo. Se è in pericolo la libertà di stampa, ciò avviene solo per quanto riguarda l’informazione sulle inchieste giudiziarie? Chi è che mette in pericolo la libertà di stampa? Quali interessi economici rappresenta? Oppure è messo in pericolo uno dei presupposti fondamentali della Costituzione, cioè la “democrazia”? Perché allora sono solo i giornalisti a protestare? Ancora: se si vuole imbavagliare la stampa, è produttivo protestare anticipando di un giorno il bavaglio ai giornali?
Sono degli interrogativi di valenza certamente diversa sui quali occorre ragionare. Se infatti riteniamo che sostanzialmente esista la libertà di stampa e di opinione nel nostro Paese, allora i giornalisti hanno ragione a protestare. Se invece riteniamo che esista un problema strutturale e la libertà di stampa non è garantita o è seriamente compromessa, allora non è solo il ddl sulle intercettazioni a determinare il problema di libertà. E tutto il problema non riguarda più solo la stampa.
In Italia da venti, trenta (forse quaranta) anni l’informazione è concentrata nelle mani di una sola persona, che oltre a detenere un impero o monopolio editoriale (oltre che economico) possiede tre televisioni nazionali e controlla le rimanenti tre (Rai). Questo dominio, che dovrebbe essere inconcepibile per lo sbandierato sistema liberale, è stato prima concesso e poi mantenuto da governi di ogni “colore”. In principio fu il governo Craxi che per primo diede le concessioni, poi nel 1999 quello D’Alema, che con la legge 488 del 23 dicembre '99, articolo 27, nel mantenere la concessione stabilì una ridicola percentuale come costo annuo delle tre frequenze concesse: pari all’1 per cento dei ricavi. Questo generosissimo regalo ha permesso al signor Berlusconi di incrementare le sue ricchezze (basti pensare che nel 2007 il gruppo Mediaset ha fatturato oltre 4 miliardi di euro, pagando una cifra modestissima, pari all’1 per cento, e intascando il restante 99 per cento) e ha privato lo Stato e gli italiani di una esborso che in condizioni normali sarebbe dovuto essere altissimo, determinando una vera e propria rapina a norma di legge. Quello che è ancora peggio, ha permesso una concentrazione editoriale enorme, impensabile in altre realtà “occidentali”. Nelle mani, oltretutto, di un iscritto a una loggia massonica segreta come la P2, che si proponeva proprio di “intervenire” nel campo dell’informazione.
La concentrazione nelle mani del Presidente del Consiglio è avvenuta con il fattivo consenso, collaborazione e responsabilità di partiti e governi di ogni “colore”, anche perché dopo il regalo di D’Alema, i vari governi di centrodestra e centro”sinistra” si sono ben guardati dal modificare o togliere questo potere dalle mani di Berlusconi (il più grande e influente capitalista italiano).
Quando i mezzi d’informazione si concentrano nelle mani di pochi, o di un monopolista, in pochi o uno solo nel dare le informazioni o nel non darle decidono ciò che il lettore o il telespettatore deve o non deve sapere, ciò che può o ciò che non deve pensare. In gioco quindi non ci sono le rivendicazioni corporative della casta dei giornalisti, troppe volte asservita o subalterna a queste logiche di potere, preoccupata più che altro di sanzioni pecuniarie o altro, ma l’informazione libera e con essa la libertà di tutti i cittadini: diritti già in discussione e in pericolo da qualche tempo. E diversa e di ben altra entità dovrebbe essere la protesta e la lotta. Con la libertà di stampa sono in discussione o compromessi altri diritti sanciti dalla Costituzione. Come il diritto al trattamento di malattia, ferie, ecc., manomesso sia con gli accordi di Pomigliano che con le leggi Treu e Biagi che precarizzano il lavoro, soprattutto dei giovani, creando forme lavorative di serie b un tempo fuorilegge, come il lavoro interinale o in affitto, molto simili o peggio del caporalato. Le leggi ad personam che rendono non perseguibile o immune il politico capitalista a differenza del cittadino comune, a questo punto, indifeso, discriminato (in barba a quanto è affisso nei tribunali la legge non è uguale per tutti). Le norme che rendono iniquo e discriminatorio il fisco, cui ognuno dovrebbe concorrere in rapporto alla propria capacità e possibilità mentre avviene l’esatto contrario, attraverso norme fiscali che sono pesanti e severe verso i redditi bassi e che al contrario esentano le grandi ricchezze (è ciò che sta avvenendo con la “manovra economica” ora in discussione in Parlamento). Oppure regole fiscali che cristallizzano la discriminazione e la disuguaglianza fra i lavoratori che pagano le tasse attraverso il sostituto d’imposta, che non possono sfuggire, mentre ad altri si permette di pagare su dichiarazione e quindi di usufruire di condoni o sanatorie per le grandi ricchezze. O norme come lo scudo fiscale che ha permesso agli evasori di ripulire denaro, di dubbia provenienza, esportato illegalmente a ridicole percentuali d’imposizione.
In conclusione oltre al pericolo di libertà d’informazione contro cui oggi i giornalisti scioperano, sono in discussione il principio stesso di uguaglianza dei cittadini e tra i cittadini verso la legge e verso lo Stato e diritti insopprimibili di civiltà e progresso.
La risposta davanti a tutto ciò deve essere la presa di coscienza e la lotta per la giustizia e la civiltà.

giovedì 8 luglio 2010

Due pesi, due misure

Su alcuni mezzi di comunicazione (pochi per l’esattezza) è comparso un seminascosto trafiletto riguardante la dichiarazione rilasciata dalla presidente della Confindustria Emma Marcegaglia nella quale, pur lamentandosi della crescita della spesa pubblica, dalla stessa definita spreco, concorda col Governo sulla necessità di tagli di spesa per regioni e comuni (meno servizi e più tasse per i cittadini) sempre per rimanere in tema di “rigore”. Il sostegno della “manager” è arrivato anche perché, oltre alla politica generale espressa nella “manovra” il Governo ha, dopo le proteste delle imprese, “eliminato una norma che ledeva i diritti dei contribuenti onesti”. I mancati ricavi determinati dall’eliminazione della norma sono compensati da una tassa sulle assicurazioni che interviene sulle riserve tecniche obbligatorie relative al ramo vita, che le compagnie di assicurazione naturalmente scaricheranno sui clienti.
Cosa succede con l'eliminazione della norma da parte del Governo? Viene annullata l’accelerazione dei tempi di riscossione da parte dell’erario, nei casi di contenzioso. Non più il termine di 150 giorni, immediatamente diventati 300 con un emendamento del relatore la “manovra”, per le sospensioni degli atti giudiziali e il pagamento dell’imposta dovuta; con la cancellazione della norma si torna alla sospensione degli atti giudiziali e della riscossione, da parte dell’erario, fino a sentenza di primo grado.
Il Governo da una parte taglia salari e tredicesime, blocca i contratti, taglia pensioni, servizi, blocca il turn over (la sostituzione dei lavoratori dimissionari), congela l’organico degli insegnanti di sostegno, aumenta pedaggi autostradali, inserisce un canone per i raccordi autostradali e pretende, pur se in dieci anni, che anche i terremotati dell’Aquila paghino le tasse. Allo stesso tempo concede alle imprese che abbiano o creino un contenzioso di non pagare alcun importo né per 150, né per 300 giorni, ma solo a sentenza di primo grado. Tutto questo se ci arriveranno mai. E c'è da scommettere che ora per loro sarà conveniente entrare in un contenzioso perché così rimanderanno di anni o non pagheranno probabilmente mai più.
Sara contento “quell’industriale contribuente onesto” cui è stata sequestrata una “barchetta” battente bandiera delle isole Cayman, per evasione fiscale sul gasolio utilizzato per le sue crociere, subito dissequestrato, che oggi potrà pagare più comodamente. Se lo farà mai. Il povero pendolare invece continuerà a pagare sull’unghia perché non si può permettere un contenzioso fiscale sul pieno di carburante dell’auto che usa per andare al lavoro. Se ce l’ha.
Il questo modo, ancora una volta, lo Stato nell’usare due pesi e due misure dimostra di essere debole con i forti e forte con i deboli.

mercoledì 7 luglio 2010

Quando il Palazzo (Grazioli) trema

Che non sarebbero bastate le casette prefabbricate stile Barbie con tanto di spumante in frigo per le telecamere di Vespa a risolvere i problemi del terremoto a L'Aquila era evidente. Tutto questo nonostante l'informazione(?) filogovernativa sia sempre stata massicciamente impegnata nel raccontare una realtà che non esiste, una ricostruzione mai avvenuta, una città da inquadrare solo nelle parti non ancora crollate, sottacendo gli scandali all'italiana di chi ha cercato di lucrare sulla tragedia. Ma le manganellate contro i terremotati non si possono nascondere. Non ci riesce neanche il Tg1. Perché rappresentano un qualcosa di diverso: la paura del potere arroccato nei suoi palazzi. E nelle sue vergogne.



Una domanda: a quando le manganellate contro lavoratori, disoccupati, immigrati sfruttati, studenti, pensionati ecc. ecc. ecc.?

martedì 6 luglio 2010

Socializzazione delle perdite e privatizzazione dei profitti

Era inevitabile che le “scelte” operate dai governi (di ogni colore) succedutisi negli ultimi venti anni, in accordo con Cgil Cisl e Uil, portassero a mutazioni significative nella qualità della vita degli italiani.
Cerchiamo di ricordare quali “operazioni” hanno permesso questi cambiamenti.
- Blocco dei salari (in cifra). La linea sindacale di Cgil Cisl e Uil impostata sulla politica concertativa dei redditi (solo quelli fissi, però) in collaborazione coi vari governi, ha permesso il taglieggiamento di stipendi e pensioni del 50 per cento, grazie anche ai "movimenti" effettuati con l’introduzione dell’euro. Contemporaneamente l’eliminazione della scala mobile ha impedito (sempre grazie a Cgil Cisl e Uil e ai vari governi) a stipendi e pensioni di adeguarsi al crescente costo della vita, come invece hanno potuto fare tutti gli altri redditi. Oggi il Governo interviene, sempre con la collaborazione sindacale, per bloccare contratti. Inoltre stanno discutendo di togliere tredicesime e altri istituti contrattuali ad alcune categorie del pubblico impiego. Il risultato che ne è derivato vede gli stipendi dei lavoratori italiani fra i più bassi nell’Ue.
- Pensioni. Dimezzamento degli importi delle pensioni ed elevazione del numero di anni di lavoro e di contribuzione nel lavoro pubblico e privato.
- Precarizzazione del lavoro per i giovani realizzata con le leggi Treu (centro"sinistra") e Biagi (centrodestra). Anche qui determinante il consenso sindacale, con l’introduzione di forme lavorative flessibili, salari dimezzati e diritti (anche costituzionali) annullati (ferie, malattia, ecc.) Così si è aperta la strada per la deregolamentazione, dopo i giovani, anche per i lavoratori con contratto a tempo indeterminato (vedi il recente caso-Pomigliano e ai tentativi di far passare l'accordo forzato come un modello da seguire per il futuro).
- Fisco iniquo, tra i più alti nell’Ue, che grava quasi esclusivamente sui redditi fissi.
- Servizi scadenti (sanità, trasporti pubblici, ecc.) e ticket per i redditi fissi.
Grazie a queste “politiche” si è arrivati alla situazione che i giornali oggi segnalano: crollo dei consumi per i generi alimentari dell’1,7 per cento per le famiglie italiane in grado di spendere 2.442 euro mensili e del 2,9 per cento per quelle con capacità di spesa fino a 2.020 euro mensili. Ne consegue che oltre un terzo delle famiglie ha perfino ridotto la quantità e la qualità di cibi e bevande che acquista. Diminuisce anche la spesa sanitaria, quella per la cultura, il tempo libero e per nuove tecnologie. I dati relativi alla distribuzione della ricchezza, i quali segnalano che il 10 per cento degli italiani possiede la metà della ricchezza nazionale, completano il quadro delle disuguaglianze nel nostro "Belpaese".
Questi sono i risultati cui siamo arrivati grazie alle politiche tutt’altro che asettiche e imparziali, ma di classe, portate avanti indifferentemente dai vari governi di centrodestra e di centro”sinistra”. Questi hanno preso a modello il liberismo e gli interessi dei ricchi e dei padroni, cui hanno consentito di continuare ad arricchirsi mentre si stavano affamando i redditi fissi con la scusa del bilancio e della spesa pubblica.
Ai lavoratori e pensionati lacrime e sangue ai ricchi miliardi e potere sociale. Ai lavoratori fame e precarietà, ai padroni libertà di licenziare e di “delocalizzare” le industrie e i posti di lavoro. Gli imbonitori di ogni colore dell’interesse “nazionale” hanno usato ogni argomento per convincere i discriminati sulla “imparzialità” e della giustezza e inevitabilità delle loro politiche e della necessità del “rigore” e dei “sacrifici”. Non per loro, però. Altro che interesse nazionale. Anzi il profitto padronale è stato elevato a interesse nazionale. Tanto è vero che la presidente della Confindustria, Emma Marcegaglia, ha condiviso e condivide tuttora le “scelte” del Governo al punto da affermare: ”Penso di poter dire che le nostre richieste (degli industriali) siano state accolte”. Naturalmente, nel frattempo, si continua a parlare di “rigore”.

sabato 3 luglio 2010

Ladri di futuro, ladri di sudore

I dati pubblicati da Istat e Inps riguardanti il numero di occupati e di disoccupati pubblicato oggi dalla stampa, in barba all’ottimismo dei miliardari nostrani, fanno emergere la drammaticità della situazione per tutti i lavoratori e i disoccupati, in particolare per quelli di loro ricadenti nella fascia di età fra i quindici e i ventiquattro anni. Nel mentre continua l’opera del padronato, con la collaborazione del sindacato (vedi Pomigliano), di precarizzazione del lavoro. In generale il trend è costantemente negativo, con il peggioramento delle cifre riguardanti la disoccupazione giovanile, arrivata al 29,2 per cento.
Tutto ciò segnala l’assurdità e l'intollerabilità di un sistema politico ed economico che costringe le forze più fresche e attive a uno stato d’inerzia (o sottoccupazione) e, contemporaneamente, obbliga ultrasessantenni a continuare a lavorare a causa dei ripetuti innalzamenti dell’età pensionabile. Innalzamenti decisi e imposti dai governi per risparmiare su pensioni che spettano di diritto dopo una vita di lavoro. Per chi ha trentacinque o quaranta anni di contributi previdenziali, essere costretto a continuare a lavorare (anche per le pensioni troppo basse) rappresenta una fatica e un ulteriore sfruttamento fuori tempo massimo, quando cioè il fisico ha perso le energie e la salute. Se inoltre si obbliga l’anziano a lavorare, s’impedisce conseguentemente al giovane di subentrargli. Per un giovane rimanere forzatamente inoperoso, o precario o sottoccupato è un’umiliazione insopportabile perché in questo modo gli si impedisce di fare alcun progetto, programmare la propria vita e decidere in generale del proprio futuro, in quanto la certezza economica è assente. Molti sono costretti a dipendere ancora, per di più, dalla famiglia quando questa è presente e ha possibilità. Quando poi un giovane trova lavoro, generalmente questo è precario, sottopagato e senza diritti (anche quelli previsti dalla Costituzione relativi a ferie, malattia, tredicesima, ecc.) In questo modo il giovane è tutt’altro che libero da una condizione subalterna: cambia solo la motivazione e il soggetto che lo rende sottoposto. Non esiste per lui futuro e quel che è peggio non ne esiste la speranza, essendo già problematico il presente. La speranza in un'occupazione e in un reddito certo inoltre è pressoché inesistente, non essendoci posti di lavoro (e quelli disponibili sono precari e a tempo). Ogni giorno, settimana, mese e anno che passa senza lavoro corrisponde a un giorno, una settimana, un mese o un anno in più da lavorare ancora per tentare di avere il diritto in futuro a un minimo di pensione. Perché se a trenta anni ancora non si ha lavoro, per ottenere la pensione si dovrà lavorare fino a ottanta anni (grazie ai governi di ogni “colore” che si sono succeduti in questi ultimi venti anni). Chissà quale tipo di “rigore” potrà mai invocare la presidente della Confindustria Emma Marcegaglia, per i giovani disoccupati e i precari.
La realtà è che quando cresce la disoccupazione, secondo la legge del tanto osannato mercato dei liberisti, per far aumentare la richiesta di lavoro occorre il calo del costo dell’offerta. Questo indebolisce i dipendenti costretti ad accettare di lavorare per paghe più basse, senza diritti e in ambienti lavorativi più pericolosi. Chi ci guadagna è il padronato che aumenta i profitti e gli utili. Per il padronato anzi più questa situazione dura, meglio è.
I giovani e i lavoratori devono prendere conoscenza e coscienza di questo per impedire ai ladri di futuro e di sudore di continuare a farlo.

venerdì 2 luglio 2010

Il "sovversivismo delle classi dirigenti"

Agli inizi del secolo scorso Antonio Gramsci, riferendosi alla situazione politico-economica dell’Italia, definì “sovversivismo delle classi dirigenti” l’azione del blocco dei grandi capitalisti alleati con la rendita parassitaria degli agrari del sud che portò al fascismo. Gramsci in sostanza accusò le classi dirigenti politiche ed economiche di sovvertire le Istituzioni, a partire dal Parlamento, minandone i poteri e svuotandone il ruolo, per arrivare alla Costituzione e modificare a proprio vantaggio i rapporti fra le classi sociali.
Questa analisi, fatta poco meno di novanta anni or sono, sembra straordinariamente attuale nel rappresentare la situazione politica contemporanea. In Italia negli ultimi anni lo scontro politico e sociale ha segnato la vittoria dei ceti sociali e di quei gruppi politici ed economici che hanno identificato nell’attuale capo di governo e nel suo populismo, apparentemente pseudo-liberale ma nella sostanza autoritario, il punto di riferimento centrale della battaglia per una loro rinnovata egemonia. Quest'ultima si basa sul disprezzo delle Istituzioni e delle regole costituzionali e sull’esaltazione del mito capitalista americano e di quello dell’imprenditore self-made man, legata all’esempio personale di un’ascesa prima economica poi politica (le modalità sono del tutto secondarie). Questa egemonia culturale e politica è alla base di un populismo autoritario di destra aggressivo cui fa il paio una “opposizione” culturalmente perdente, incapace e impossibilitata a resistere perché, pur maggiormente attenta a “regole” e “garanzie”, ha in comune la condivisione ideologica liberale della società. “Opposizione” che ha contribuito attivamente a tutto ciò anche quando ricopriva ruoli di governo, non mettendo mano a concentrazioni pericolose di potere economico, di stampa e tv; anzi, proseguendo in una sorta di staffetta politica reciproca con il centrodestra, nella difesa e affermazione degli interessi economici delle classi dirigenti a danno di quelle popolari. Un'azione “concertata” che ha numerosi esempi e all'interno della quale non si vuole arrivare ad ascrivere fenomeni gravissimi come le responsabilità sulle cosiddette "stragi di Stato" (come anche recentemente il presidente della Commissione Antimafia del Pdl ha confermato) delle quali però il dato oggettivo è che nessun governo di nessun colore ha saputo finora trovare responsabili e mandanti.
Uno degli aspetti più significativi in questa operazione di egemonia è rappresentato dal lavorio lento, costante e tuttora in atto, teso a non applicare, stravolgere o cambiare la Carta Costituzionale in parti e aspetti fondamentali. Fra questi alcuni sono: la definizione stessa di Repubblica (fondata o meno sul lavoro), i principi di uguaglianza e libertà dei cittadini, il diritto al lavoro, la promozione della ricerca, la conformità della nostra legislazione con il diritto internazionale in materia di immigrazione, il ripudio della guerra come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali, il diritto alla salute gratuita, alla cultura pubblica gratuita a cui tutti possano accedere, a una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare un'esistenza libera e dignitosa, alla reale uguaglianza uomo-donna, a un sindacato libero, alla libertà di sciopero. Altri aspetti fondamentali di questa attività "sovversiva" sono: il tentativo di stravolgere l’articolo 41 introducendo modifiche che possano permettere l’iniziativa privata anche in contrasto con l'utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana; i tentativi di intervenire sulla eleggibilità di ogni cittadino, sull’equa e progressiva distribuzione delle tasse, ecc. ecc. ecc.
Su ognuno di questi e altri punti occorre un approfondimento per capire quali sono le reali dinamiche in atto, al di là del balletto destra-(finta)sinistra, per poter contribuire a ricostruire un punto di vista comune. Alternativo.

giovedì 1 luglio 2010

Emancipazione femminile e condizione sociale

Il sesso è l’aspetto che unitamente alla razza, alla lingua, alla religione, alle opinioni politiche e alle condizioni economiche e sociali può rappresentare un ostacolo tale da limitare la libertà e l’uguaglianza condizionando i diritti. Un problema che si presenta in maniera difforme nel mondo ed è legato strettamente al livello di sviluppo economico e civile di ogni realtà. In un paese ricco la questione dell’emancipazione si presenta ad un livello più avanzato esistendo in genere la consapevolezza del problema stesso e con essa l’iniziativa e la lotta per il suo superamento. In realtà povere, spesso sottoposte all’influsso di superstizioni e di religioni, le difficoltà sono maggiori esistendo un più pesante condizionamento culturale oltre che economico.
Nelle realtà cosiddette sviluppate la donna rappresenta, quindi ancora oggi, l’anello debole e subisce condizionamenti tali che le impediscono l’effettiva uguaglianza con l’uomo. Si può però affermare che ciò riguardi ugualmente ed indistintamente tutte le donne, indipendentemente dal loro stato di occupate, disoccupate, precarie oppure di manager o capitaliste? Tutte le donne sono impegnate nella stessa battaglia per l’emancipazione prescindendo dalla propria condizione economica e dagli aspetti sociali della propria condizione femminile? Oppure esistono differenze? La manager o il manager, ad esempio, sono liberi allo stesso modo della precaria o del precario? Della disoccupata o del disoccupato? Una provocazione: il licenziamento o la discriminazione operati da una donna manager sono forse meno gravi di un licenziamento o di una discriminazione operati da un manager uomo? La manager o il manager non esercitano forse verso la lavoratrice precaria o la disoccupata la stessa vessazione che riservano al lavoratore precario o al disoccupato? Forse la condizione di subalternità delle donne, come quella dell’uomo del resto, non è maggiormente legata alla condizione economica? I servizi sociali (asili nido, scuole materne, assistenza agli anziani, ecc.) che la società fornisce sempre meno e che rendono possibile il lavoro alle donne, necessitano alla lavoratrice, alla precaria o alla disoccupata allo stesso modo di come servono alla manager che è in grado di pagarsi servizi privatamente e a un livello abissalmente migliore?
La condizione di discriminazione delle donne risente appieno delle contraddizioni economiche sociali che riguardano tutta la classe dei discriminati. Non si può considerare la manager o la capitalista in condizione di inferiorità rispetto all’uomo in quanto tale o in condizioni di uguaglianza rispetto la lavoratrice, la precaria o la disoccupata perché diversi sono gli ambiti economici, diverse le libertà, diverse le contraddizioni e le discriminazioni.