mercoledì 5 dicembre 2012

La politica delle alleanze o l’annacquamento dell’alternativa.

L’attuale fase politica registra continue manovre antipopolari e discriminazioni sociali inedite negli ultimi sessanta anni. Esse passano senza suscitare lo sdegno, la rabbia o le risposte di massa che sarebbero naturali e adeguate, da parte di coloro che sono colpiti. Tutto questo perché quanto avviene non è percepito come il risultato di un feroce e prolungato attacco di classe da parte del padronato, qual è quello in atto ma sacrifici e “rigore” necessari, nonostante tutto, pur se dolorosi per allontanare dal Paese prospettive peggiori. Il fatto che a pagare non siano tutti ma sempre i soliti non è percepito e inteso come il risultato di una cosciente strategia di classe perseguita con determinazione dal capitale, ma come conseguenza di corruzione e incapacità politiche di tutti i partiti che si scaricano su tutti, i lavoratori certo ma anche le aziende e gli imprenditori onesti. Non c’è rabbia o protesta alcuna sul fatto che le sperequazioni e sugli impoverimenti di massa fanno il contrappeso ad arricchimenti spropositati di pochi e ingiustizie sociali crescenti. Non è avvertita la linearità e chiarezza dell’attacco di classe in atto. Se questo è vero i comunisti e i loro partiti dovrebbero prenderne atto e interrogarsi sulle cause di tutto ciò. Si parla in questi giorni di lista arancione o quarto polo, arricchendo il politicamente sfruttato pastello di colori, verde, viola e arancione, confondendoli con il rosso. Lo stesso discorso vale con le sigle politiche elettorali proliferate negli ultimi quindici-venti anni: Ulivi, progressisti, sinistra arcobaleno e quarto polo, annacquando fino a spegnere del tutto, il messaggio anticapitalista e antagonista su base di classe dei comunisti. Il risultato è stato non solo la fuoriuscita dei comunisti dal Parlamento ma soprattutto la perdita del consenso dei cittadini e l’immagine residuale che intorno ai comunisti si è andata costruendo. L’unità con le altre forze antagoniste è una preoccupazione sempre presente ai comunisti. Questa però non deve prevalere sulla chiarezza del messaggio come da troppo tempo sta avvenendo. Il Partito Comunista Italiano, nella sua storia, ha sempre tenuto in grande considerazione la politica delle alleanze con altre forze e movimenti della sinistra. Queste poggiavano però sulla presenza e forza di un partito di massa come era il Pci, radicato e riconosciuto, anche grazie alle lotte e al contributo dato nella lotta di Liberazione e della Resistenza, come alternativo al sistema e a schierato a difesa dei deboli e dei discriminati. Su queste basi il Pci costruiva alleanze e aggregazioni, a partire dagli indipendenti di sinistra, con chi si opponeva al sistema. Perlomeno fino a che il Pci, o meglio i suoi dirigenti hanno “scoperto” il liberismo. Possiamo dire che oggi vi siano le stesse condizioni? Un’infima presenza in Parlamento, annacquata all’interno di una coalizione multicolore, pur se rispettabile, se può appagare le ambizioni di qualcuno, non farà ancora per molto tempo, emergere il messaggio alternativo e di classe dei comunisti e si allontanerà la prospettiva di una stagione di riscossa. Torneranno le logiche e le “opportunità” politiche delle alleanze anche con il Partito democratico nonostante sia stato il promotore e l’artefice del massacro sociale in atto e che promette e rivendica, se vincerà le elezioni, la perfetta continuità con la politica antipopolare del Governo Monti. Questo pronunciamento è alla base del patto elettorale del centrosinistra e ne costituisce vincolo. E’ assurdo solo immaginare che una vittoria elettorale del Pd riconquisterebbe quel partito alle ragioni dei discriminati o che sia possibile e credibile modificare, con quel partito, l’attuale politica economico-finanziaria a vantaggio dei lavoratori Occorre invece che, pur in una logica di alleanze, i comunisti con forza e determinazione sollevino la loro bandiera, i loro simboli e il loro colore. Le loro analisi rappresentano l’unica credibile forza capace di ribaltare la situazione. Occorre crederci. Può certamente essere difficile e faticoso. Si può andare certamente incontro a sconfitte elettorali, ma è indispensabile se si vuole costruire un’alternativa etica, morale e politica al sistema attraverso il coinvolgimento e il consenso delle masse. I comunisti devono con coraggio e determinazione e contrapporre al liberismo galoppante e ora vincente dei padroni, un’altra utopia, quella degli sfruttati e degli oppressi: La lotta di classe e il Comunismo. I comunisti non rappresentano un’alternativa, ma l’alternativa al sistema capitalista e a tutte le ingiustizie che esso determina.

giovedì 29 novembre 2012

Esiste, oggi, la disuguaglianza sociale? Come si manifesta? Chi riguarda?

Articolo 3 della Costituzione italiana: “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono uguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. E’ compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica economica e sociale del Paese.”. La Costituzione riconosce che esistono differenze di condizioni sociali e ostacoli di ordine economico e che questi vanno rimossi, perché limitano la libertà e l’uguaglianza dei cittadini. Quali possono essere gli ostacoli economici e sociali di cui si parla? Uno dei primi, sicuramente, il reddito. Com’è distribuito il reddito in Italia? Tutti i dati statistici rilevano che in vent’anni (dal 1987 al 2008) a pagare il prezzo maggiore della crisi sono state le famiglie dei redditi fissi che hanno registrato una caduta nei livelli di ricchezza media, del 15 per cento. Questi non considerano gli effetti devastanti e drammatici dell’attuale fase economica. Nello stesso periodo si è verificato da una parte un impoverimento delle famiglie operaie e impiegatizie e dall’altra un aumento di ricchi pari a sette volte di più rispetto al 1965. Si sono registrati da esplosione di reddito: fasce ristrette di cittadini si sono appropriate di quote crescenti del reddito complessivo. Le misure e le “riforme” (pensioni, welfare e fisco) adottate dai vari governi negli ultimi venticinque anni inoltre, lungi da modificare o invertire hanno accentuato questa tendenza contribuendo ad allargare la forbice fra poveri e ricchi. Gli ultimi dati statistici dicono che, in Italia, oramai il dato della povertà raggiunge l’11,1% della popolazione. È considerato povero quel nucleo familiare, composto di due persone, che percepisce un reddito inferiore a 970 € mensili, pari a 485 € pro-capite. In questa situazione si trovano, circa, 7,5 milioni di cittadini italiani. Questo dato è impressionante ma non dice tutto. Va rilevato che il reddito mensile di 970 €, corrisponde alla media dei redditi mensili percepiti in Italia, questo significa che se esistono molti italiani che percepiscono di meno, ne esistono altri che percepiscono molto di più. A percepire meno sono i pensionati al minimo, i lavoratori precari e quelli a part-time. Fra quelli che percepiscono di più, c’è la gran massa di lavoratori dipendenti, operai e impiegati, che hanno stipendi mensili però di poco superiori alla soglia di povertà, pari cioè a 1.000 – 1.200 € mensili. Se si considera che questi redditi, di solito, servono per sostenere nuclei familiari di 3 – 4 persone, consegue che il reddito pro-capite diventa, di 4-300 € (nuclei di 3 o 4 persone) mensili per un reddito familiare complessivo di 1.200 €. Se questo è vero, la fascia di povertà, in Italia, non è più di 7,5 milioni di persone, ma di un’entità molto più grande. Questa entità è difficilmente quantificabile se si tiene conto che gli unici redditi certi sono solo quelli da busta paga o da pensione. Esiste perciò una grande massa di cittadini che vive in condizioni di povertà (questo si traduce in peggiore qualità della vita, sanità, cultura, ecc.). Completa il quadro, il reddito di altri cittadini italiani che si trovano su una sponda ben diversa, con redditi dell’ordine dei milioni o miliardi di euro. C’è chi dichiara 7, 8, 28, 130, 180 milioni di euro annui, o oltre. Tali redditi sono dichiarati al fisco. Questi redditi annui presuppongono l’esistenza di patrimoni enormi di miliardi di euro di cui, per la maggior parte dei cittadini è difficile, persino, rendersi conto. Il “rigore” necessario per “salvare l’Italia” non ha riguardato, tutti perché ha colpito una parte dei cittadini, quelli cioè che hanno perso reddito e ha gratificato gli altri che l’hanno incrementato. Tutto questo è dovuto al caso, a errore o è la conseguenza di volontà politico-economiche? In questo caso, da parte di chi? I Governi hanno sbagliato o hanno scientemente tutelato alcuni interessi e discriminato altri? Esiste differenza fra lo stile di vita di chi guadagna milioni di euro e quello di chi ne guadagna 10.000, oppure 20.000 annui o non ne guadagna per niente? Esiste differenza fra la libertà di un milionario o un miliardario e quella di un lavoratore dipendente, di un pensionato, un precario o un disoccupato? Un milionario è un privilegiato? A quale casta o classe appartiene? Un lavoratore dipendente o un precario appartengono alla stessa casta del milionario? Un milionario o un lavoratore dipendente o un pensionato sono cittadini uguali? Vivono in condizioni simili? Si possono permettere lo stesso stile di vita? Condividono i medesimi problemi economici? Pagano le stesse tasse? Hanno la stessa convenienza a pagare le tasse? A tagliare la spesa pubblica? A far funzionare la macchina dello Stato (Sanità, scuola, e i servizi)? A Trovare il lavoro? Ad arrivare alla fine del mese? Sono liberi allo stesso modo? In conclusione appartengono alla stessa casta o classe? Oppure appartengono a caste o classi differenti a ciascuna delle quali sono riconosciuti o vietati diritti differenti? I vocabolari riportano il significato della parola “casta”: Ciascuno dei gruppi sociali che, rigidamente separati tra loro in base a leggi religiose o civili, inquadrano in un sistema sociale fisso i vari strati della popolazione. Gruppi di persone che caratterizzato da elementi comuni, hanno o pretendono il godimento esclusivo di determinati diritti o privilegi. Se questo è vero, è vero che la condizione sociale determina lo stile di vita dei cittadini in tutti i suoi dettagli, quelli primari, le aspirazioni, i bisogni, lo stile di vita, la cultura, la salute. Mentre alcuni cittadini sono liberi, perché liberi dal bisogno, e la loro libertà non è condizionata da alcun altro fattore, tutti gli altri cittadini possono essere liberi se hanno un lavoro. Il lavoro che diventa l’elemento fondante e indispensabile per l’affermazione e la realizzazione della libertà dell’individuo.

venerdì 23 novembre 2012

L’ultima svendita dei lavoratori

Il rito si ripete ormai da più di venticinque anni: Cisl e Uil firmano accordi capestro. La Cgil non firma ma poi si adegua, nel tempo, senza clamore. In troppe occasioni si è consumata la ridicola messinscena di questi servi sindacali che si fanno interpreti dei desideri dei padroni con il loro complice, il Governo, per svendere i diritti di chi lavora. Tutto queste trattative e “accordi” si sono conclusi senza che i lavoratori, diretti interessati, siano stati coinvolti e abbiano dato il benché minimo mandato a trattare ne tantomeno abbiano potuto esprimersi sui suoi contenuti conclusivi. Ogni e qualsiasi simulacro di democrazia è calpestato da questi sindacalisti che con l’obiettivo di aumentare la produttività e di servire gli interessi dei capitalisti, cancellano i contratti nazionali di lavoro, gli inquadramenti professionali, la certezza dei livelli salariali e ogni forma di tutela del diritto di chi lavora. Il padronato italiano, con l’aiuto dei sindacati di comodo e del Governo, è riuscito nell’intento di aumentare i suoi utili e profitti. L’unico aumento della produttività che intendono loro passa solo per la riduzione dei salari, l’aumento dei ritmi di lavoro e la compressione dei diritti e della libertà di chi lavora. Alla luce dei fatti è dimostrato che le logiche del padronato dei nostri giorni sono le stesse di quelle del padronato di fine ottocento e che la lotta di classe non è sparita con il muro di Berlino: Nessun diritto per chi lavora (flessibilità), salari ridotti e legati al cottimo, se si lavora di più e l’azienda guadagna poi, forse, qualcosa va a chi lavora altrimenti no, controllo spionistico dei lavoratori, libertà per il padrone di de localizzare, precarizzare, di assumere o licenziare, anche in base all’adesione o meno del lavoratore a un sindacato ritenuto scomodo, a prescindere dal diritto, ecc. La prossima mossa sarà ripristinare il medico aziendale per controllare direttamente le malattie del personale. Al padrone e imprenditore spetta ogni libertà al lavoratore invece ogni dovere e nessun diritto. Ancora oggi c’è chi si ostina a definire “datori di lavoro” questi pescecani che invece sono ladri di libertà, di sudore e prenditori di profitto. Com’è stata possibile in Italia questa immensa opera di restaurazione capitalista della disuguaglianza? Come mai la classe padronale ha potuto ripristinare i suoi privilegi senza trovare opposizione degna di nota? Dove erano le organizzazioni dei lavoratori? Per quale falso ed erroneo interesse generale hanno permesso tutto ciò, senza denunciare la quantità e la qualità dell’attacco di classe attuale? Com’è possibile che di fronte a questo inedito e intollerabile massacro sociale, la classe operaia sia politicamente succube e piagata sugli interessi e ragioni delle banche e dello spread? Padronato e Governo, con il valido aiuto dei sindacati hanno usato la crisi che hanno generato, per spostare ancora di più a loro vantaggio la ricchezza e i privilegi. E’ finita qui? L’assenza di analisi basate su metodi scientifici degli interessi di classe dei vari soggetti sociali in campo ha permesso la vittoria del padronato e la sconfitta attuale dei lavoratori, perché essi sono privi degli strumenti di analisi e organizzativi per contrastare l’attacco del padronato e dei suoi servi. E’ ora di denunciare con forza che, quello in atto, è un vero e proprio attacco sociale e di classe, dove gli sfruttatori vogliono far passare per interessi di tutti i loro comodi. Tutte le misure economiche, politiche e sindacali adottate dal Governo dei padroni e delle banche, non hanno lo scopo di “salvare l’Italia”, ma di arricchire ancora di più la classe dei ricchi, dei privilegiati e degli speculatori finanziari a danno della classe lavoratrice, dei pensionati, dei disoccupati e di tutti i discriminati. I lavoratori devono prendere coscienza della differenza degli interessi fra le classi sociali, solo così potranno difendere i loro diritti e libertà e contrastare le logiche padronali. La consapevolezza cioè dell’inconciliabilità e conflitto esistenti fra i loro interessi e quelli di chi li vuole solo sfruttare per continuare ad arricchirsi. L’ignoranza e la sottovalutazione di questo elementare principio, ha permesso e permette che si scambiassero i comodi di Marchionne e della Fiat con gli interessi generali e di chi lavora.

mercoledì 31 ottobre 2012

Serve votare?

Le elezioni siciliane confermano la costante crescita della disaffezione che i cittadini italiani hanno verso la politica e le forme di “partecipazione popolare” perché non se ne servono nella maggior parte dei casi. Questa tendenza alla crescita dell’astensione è iniziata circa venti anni fa, ed è coincisa con la campagna politica sulla cosiddetta caduta delle ideologie. Essa è stata certificata a partire dalle elezioni dei primi anni ’90 effettuate con il nuovo sistema elettorale di tipo maggioritario. La caduta del muro di Berlino e dei sistemi dei paesi del cosiddetto socialismo reale furono il pretesto per negare la validità e la necessità del confronto, politico ed elettorale, su grandi progetti utopici e alternativi essendo, così fu sostenuto, falliti tutti con la sola esclusione del liberismo. Il sistema maggioritario e la personalizzazione della politica, a questo punto hanno sostituito il confronto e lo scontro delle idee e dei progetti. Assegnando tutti i difetti dell’ideologismo solo al marxismo. Il liberismo diventa l’ideologia dominante incontrastata cui tutti i partiti, anche quelli che continuano a dichiararsi di sinistra, fanno riferimento e si adeguano. Da questo punto in poi l’elettore ha solo la possibilità di scegliere fra due o più candidati, di partiti diversi ma tutti ispirati al liberismo. Rimane la solo la scelta sul possesso presunto o meno della dote dell’onestà di cui i vari candidati e partiti rivendicano l’esclusiva. Poco importa se a sostenere ciò è un sistema politico screditato e compromesso. La cronaca di tutti i giorni dimostra che il tasso di onestà è crollato perché tutti i partiti presenti in Parlamento, chi più chi meno, sono coinvolti e travolti da scandali e forme di corruzione. A far tracollare la partecipazione è stato però un altro grave fenomeno: La vanificazione non solo sostanziale ma anche formale dei pronunciamenti elettorali. Ciò a partire dai referendum. 1) Referendum sulla localizzazione delle centrali nucleari (8-9 novembre 1987, vinsero i sì con l’80,6%); 2) referendum sul finanziamento pubblico ai partiti e dei ministeri dell’agricoltura e turismo e spettacolo (18- 19 aprile 1993 vinse il si con il70,2 e 802,3%); 3) Referendum sull’abrogazione della norma che impedisce la liberalizzazione degli orari nel commercio (11 giugno 1995 vinse il no con il 62,5%); 4) Affidamento della gestione di servizi pubblici locali di rilevanza economica (privatizzazione dell’acqua bene comune 12 e 13 giugno 2011, il si raggiunse il 95,35%); 5) Di nuovo abrogazione norme che consentono la produzione nel territorio nazionale di energia nucleare (12 e 13 giugno 2011, il si ottenne il 94,05%). Degli esiti di questi pronunciamenti referendari non si è tenuto conto alcuno. Nonostante due referendum ancora, si sta tentando il nucleare in Italia, il finanziamento pubblico ai partiti è stato sostituito dal rimborso elettorale, i ministeri hanno solo cambiato nome e la privatizzazione dei servizi e dell’acqua è tuttora in cantiere e in attesa di tempi più propizi. Il dato più indicativo però è che tutti i partiti che hanno governato in questi ultimi venti anni, sia di centrodestra sia di centrosinistra, hanno legiferato a prescindere dal mandato richiesto agli elettori. Essi hanno cancellato o stravolto leggi e diritti fondamentali frutto di anni di lotte e sacrifici, senza averne nemmeno richiesto il mandato. Stesso discorso per il governo “tecnico” che, anch’esso, senza alcun mandato ha scardinato e contro riformato le conquiste dei lavoratori e assestato un colpo mortale allo stato sociale intero. Nessuno fra i partiti presenti in parlamento, tantomeno Monti che nemmeno è stato eletto, ha chiesto e ne ottenuto voti per cancellare le pensioni di anzianità o il sistema di calcolo delle pensioni, l’aggancio al costo della vita o, tantomeno l’elevazione dell’età pensionabile; Nessun partito è stato autorizzato dagli elettori a privatizzare scuola e sanità pubblica; Nessun partito ha chiesto e ottenuto un mandato per precarizzare i rapporti di lavoro, né per tartassare i redditi fissi e graziare tutti gli altri; Nessuno ha chiesto il consenso elettorale per mantenere le cosiddette “missioni militari di pace”. In questi giorni Bersani saluta il risultato siciliano con un roboante: ” Vi do una bella notizia, abbiamo vinto in Sicilia. Cose da pazzi”, poi ha aggiunto: ”È la prima volta dal dopoguerra che c'è la possibilità di una svolta vera” e in merito alla politica generale ha finito: ”però preservando sempre quelle linee di rigore e di credibilità che Monti ha portato. Questo lo garantiremo”. Il Partito Democratico ha ottenuto insieme all'Unione di Centro di Casini e Toto Cuffaro il 30,5% dei voti di chi si è recato alle urne in Sicilia, cioè il 47,42% degli aventi diritto. Il 30,5% del 47,42% corrisponde al 14,46% (Pd + Udc) del totale dei votanti. Bella rivoluzione. Nonostante un consenso così esiguo se non minimale si sente autorizzato a giurare fedeltà eterna alla linea di “rigore” del Governo Monti e a “governare” la Sicilia. Bel concetto di democrazia. Questo per fare alcuni esempi. I vari governi succedutisi in questi anni, di centrosinistra, centrodestra o i “tecnici” hanno operato, sulle questioni fondamentali autoritariamente e senza un mandato, anche perché erano coscienti che se lo avessero chiesto all’elettorato non l’avrebbero ottenuto. Ciò non ha impedito a Monti e a questi partiti “democratici” di “lavorare per salvare l’Italia”, e operare pressoché indisturbati la più gigantesca redistribuzione del reddito e della ricchezza a favore dei ricchi e a danno dei ceti popolari. Non ha impedito loro, inoltre, di cancellare col diritto del lavoro quello a un reddito, perlomeno a un reddito dignitoso, a una crescente fascia di cittadini e in particolare ai giovani. Se ai partiti non serve la legittimazione di un mandato elettorale a cosa serve votare? In questo caso quali sono i soggetti che decidono? Le banche e i centri del potere economico. Una domanda, però, va posta a questo punto: Come mai i comunisti, davanti a questo massacro sociale classista, non riescono a essere individuati come oppositori alla linea liberista montante delle banche e del padronato e strumento di difesa sociale? Perché non riescono a coagulare il crescente malcontento di chi subisce le conseguenze della crisi? Perché questo malessere non si trasforma in consenso anche elettorale e i cittadini non votano le loro liste preferendo rinunciare al voto? La causa di tutto ciò è da ricercarsi nel fatto che i comunisti e le loro organizzazioni o non sono percepiti come alternativi al sistema, ma parte di esso, peraltro, grazie anche alla campagna martellante dei mass media, sono considerati superati o residuali. Questo perché, nonostante la presenza dei comunisti e di partiti e organizzazioni che tali si dichiarano, non si affermano ne il loro metodo di analisi, ne di interpretazione della società e dei rapporti economici e di classe. Non è chiarito cioè se la politica del “rigore” di Monti serve o meno a “salvare l’Italia?” tutta l’Italia o quale parte di essa? La risposta che i comunisti possono dare deve essere basata sulla analisi degli interessi in campo e sulla conseguente denuncia degli interessi delle banche e dei padroni, che non hanno nulla a che vedere con quelli dei lavoratori, perché la crisi non tocca tutti ma affama i lavoratori e arricchisce padroni e banche. Essere quindi alternativi al sistema liberista in maniera chiara, ripartendo da analisi e da iniziative poggiate su una forte e percepibile base classista di denuncia e di lotta alle ingiustizie sociali a difesa dei diritti e degli interessi dei lavoratori e dei discriminati. Non fare questo significherebbe rendere inutile il ruolo dei comunisti e delle loro organizzazioni e la loro stessa esistenza. E’ l’assenza di un’impostazione di classe chiara e percepibile a livello di massa, infatti, a determinare lo stato di disorientamento e rassegnazione dei discriminati e a non permettere loro di individuare nei comunisti e nelle loro organizzazioni gli strumenti di cambiamento e di riscossa, costringendoli a preferire il qualunquismo e il non voto, con grande gioia dell’avversario di classe. E’ questo l’unico modo che hanno i comunisti per combattere la politica antipopolare e classista del governo, dei padroni, delle banche e dei loro lacchè politici, denunciando l’inconciliabilità degli interessi in campo e opponendo agli interessi dei padroni quelli dei diseredati, degli oppressi e dei discriminati.

domenica 14 ottobre 2012

I “tecnici” contro i lavoratori

La situazione politica in Italia sembra ferma. I partiti presenti in Parlamento sembrano impegnati solo a contrabbandare la propria onestà e a denunciare l’altrui disonestà o a giurare la propria fedeltà al Governo Monti e alle sue “riforme”. Riforme che dicono indispensabili a “salvare l’Italia”, nel tentativo di conquistare nonostante tutto consensi dai cittadini e di accreditarsi come i migliori esecutori della politica economica voluta dalle banche e dai finanzieri. In realtà la situazione si evolve rapidamente attorno alla politica neoliberista dei “tecnici” e se apparentemente “la politica” si occupa di screditare ulteriormente i partiti italiani, in realtà mira a tutt’altro. I recenti odiosi scandali politici e il pretesto di ridurre le spese (la democrazia è un lusso che non ci possiamo più permettere) agevolati dal rigetto generale dei cittadini verso i partiti, consentono, in questi giorni, l’opera di demolizione dell’impianto amministrativo decentrato dello Stato, allontanando le istituzioni con i luoghi di decisione dai cittadini e riducendo ancora le residue forme di partecipazione alla vita amministrativa. Stravolgere regole e prassi consolidate non è una novità. Lo stesso governo Monti è stato nominato, i suoi programmi e le sue “riforme” non hanno alcun mandato elettorale. Questo non ha impedito di modificare leggi fondamentali a prescindere da qualsiasi mandato popolare nel merito, ma solo in base a presunti costi contabili e grazie a un’opinione pubblica disgustata da tante ruberie e quindi indifferente. Per il decentramento amministrativo, come per la presunta “riforma elettorale” sta avvenendo quello che è accaduto per la “riforma previdenziale” e per la “riforma del mercato del lavoro”. Leggi e regole di civiltà sono state affrontate e demolite solo in base alla logica dei conti, del rigore e dell’austerity a senso unico. La loro cancellazione autoritaria è avvenuta con la collaborazione fattiva anche dell’ex opposizione. Queste “operazioni politico-economiche” per “salvare” l’Italia stanno avvenendo senza alcuna partecipazione e coinvolgimento degli interessati. A un governo di tecnici nominato da partiti, che fingono di litigare fra loro e poi votano le stesse leggi antipopolari, fanno contorno sindacati ufficiali che, anche loro, fingono di contrastare la politica antipopolare in atto, mentre in realtà la agevolano e condannano i lavoratori a subire nei posti di lavoro e nel Paese mentre i padroni hanno mano libera. Il sindacato, da parte sua, ha assoggettato i lavoratori alle regole del mercato e della competitività capitalista, permettendo l’azzeramento dei loro diritti e delle loro libertà nei posti di lavoro e poi nella società, e quindi l’affermarsi della politica padronale. Siamo alla democrazia del mercato, della competitività e delle banche, alla democrazia di lor padroni che con la loro prepotenza fanno diventare legge quello che loro interessa e conviene. Quest’apparato padronale-finanziario-politico-sindacale che “tratta le masse come capre, tosando e macellando l’eccedenza”, nella sua arroganza, certo di non doverne mai rispondere, arriva nella sua tracotante sicurezza a deridere i discriminati. E’quello che sta avvenendo con la legge di stabilità, in base alla quale vogliono far credere di stare a diminuire le tasse mentre le aumentano e mentre tagliano ancora la sanità. Non contenti di tutto ciò, oggi continuano imperterriti nella loro politica autoritaria di restaurazione per imporre più agevolmente la loro democrazia e la loro politica elitaria. Stesso discorso merita il tentativo in atto da parte di Confindustria e soci che “propone”, naturalmente per salvare l’Italia, una trattativa sulla produttività (non sull’occupazione) con il solo scopo di aumentare i ritmi di lavoro, e con essi i profitti padronali attraverso un accresciuto sfruttamento della manodopera. Questo vuole dire, tanto per fare un esempio, che se un operaio della Fiat vuole continuare a lavorare deve accettare condizioni contrattuali uguali a quelle che l’azienda impone in Serbia: 320 euro al mese per 12 ore al giorno di lavoro e senza diritti. E la Fiat ha sempre tracciato la strada. Altro che datori di lavoro, sono invece prenditori di profitto e ladri di sudore. Se questo è il quadro (seppure sommario), non si può negare che siamo di fronte ad un tentativo neoautoritario, liberista, questo si di destra, che ha lo scopo di imporre una “uscita dalla crisi” sulla strada del liberismo quella che più conviene a lor signori che in crisi non sono mai stati. I padroni e i finanzieri hanno così campo libero per mettere definitivamente al centro della vita economica, politica e sindacale, l’azienda e i suoi interessi. Mente sapendo di mentire chi afferma che quella attuale è una politica di rigore che riguarda tutti. Mente perché il rigore è a senso unico, poi non riguarda tutti. Non riguarda i padroni e le banche che ricevono finanziamenti dalla Bce, dallo Stato, che de localizzano, che precarizzano, che cancellano contratti di lavoro e diritti dei lavoratori con il solo scopo di aumentare i propri profitti. Mente perché alla fase attuale di sacrifici, per i lavoratori, non seguirà un periodo migliore di sviluppo. Tutta la loro politica ha come obiettivo la riduzione delle libertà, dei diritti e dei salari di lavoratori e pensionati per affermare le libertà e i privilegi economici a finanzieri, speculatori e imprenditori. Si tratta della loro politica di classe, nella quale i voleri, i desideri e gli interessi del mercato e dei suoi sodali, sono contrabbandati per generali e di tutti. Va denunciata la natura classista di questa politica del Governo di tecnici e soci. Essi non sono super partes ma apertamente schierati a tutela degli interessi dei potenti e dei padroni. E’ su una forte base classista che va rilanciata l’iniziativa e la lotta per gli interessi dei lavoratori e dei discriminati. Interessi che sono alternativi a quelli delle banche e dei padroni. L’assenza di un’impostazione di classe, chiara, percepibile a livello di massa, determina lo stato di disorientamento e rassegnazione dei discriminati davanti a tutte le manovre in atto e rafforza l’opera dell’avversario di classe. Le forze veramente di sinistra devono interpretare con questo metodo la fase in atto e il malessere esistente. E’ questo l’unico modo per contrastare e battere l’attuale politica antipopolare cui non si è ancora potuta contrapporre una cosciente e adeguata iniziativa popolare di massa. Chi se non i comunisti può fare ciò?

sabato 4 agosto 2012

Le politiche liberiste e la finta sinistra

Ancora una volta Vendola si presta al ruolo illusionista per far credere che quella del liberismo non costituisce una ponderata e determinata scelta di campo e di classe, ma una politica temporanea che può e che deve essere adottata, come sta facendo l’attuale governo, solo in una situazione di emergenza. Tale politica dovrebbe essere abbandonata una volta superata tale emergenza. La demagogia e la mistificazione di tale posizione sono evidenti. Come è possibile ragionevolmente sostenere che alla fase delle ripetute “riforme” che l’attuale governo ha prodotto, che hanno determinato l’aumento delle disuguaglianze e dell’ingiustizia sociale e di classe, si possa pacificamente e semplicemente invertire la rotta e restituire ai discriminati il maltolto. Tanto più se è individuato come causa scatenante della crisi, visto che solo su questo ha agito il Governo per “uscire dalla crisi”? Il Governatore Vendola, e a Bersani non pare vero, tenta di far credere che anche la scelta del liberismo, decisa dal Partito democratico, non sia definitiva e strategica, ma sia dettata unicamente da una situazione contingente e tattica. Poco importa se questa scelta ha portato a privare la maggioranza degli italiani del diritto al lavoro o a una retribuzione dignitosa, unica condizione per un’esistenza libera, com’è teorizzato nella Costituzione italiana. Poco importa se la loro politica ha cancellato i diritti dei cittadini per renderli compatibili allo spread e all’insaziabile voracità degli speculatori finanziari. Solo con la fiducia e la coesione sociale può esserci sviluppo. E’ quanto costoro, con l’insostituibile apporto del Presidente della Repubblica, stanno sostenendo da tempo. Coesione sociale che cercano di perseguire cercando di far credere che i “sacrifici” sono necessari per salvare il Paese nel quale siamo tutti sulla stessa barca e che è interesse di tutti nello stesso modo accettare sacrifici e rigore per uscire dalla crisi. Tagliare però le pensioni, i salari, i diritti dei lavoratori, cancellare lo stato sociale, aumentare le tasse dirette e indirette che gravano solo sui redditi fissi di chi ha sempre pagato mentre si graziano i ricchi proprietari e gli speculatori finanziari, non è una necessità oggettiva e obbligata, ma una scelta di classe. Essa aumenta il privilegio e l’ingiustizia sociale perché, mentre consente ai chi è ricco di continuare ad arricchirsi, getta nella fame e nella disperazione masse crescenti di lavoratori e di giovani perché li priva del lavoro e di un reddito sufficiente e con essi della loro libertà. La violenza di classe in atto è inaudita e il padronato capitalista e confindustriale che con la collaborazione di quei partiti e personaggi politici e sindacali che si fingono di sinistra, ha goduto in questi anni di una condizione di rendita insperata che lotterà con le unghie e con i denti per mantenere. Il presidente della Puglia invece è impegnato in tutt’altre faccende, egli si dichiara pronto a partecipare a coalizioni che comprendano “tutti quelli che vogliono modernizzare l’Italia” e che abbiano al centro “i diritti sociali e civili delle persone, come i diritti delle coppie gay”. Anche Vendola vuole dare ad intendere che davanti alla crisi spariscono differenze sociali e di classe e che occorra semplicemente “modernizzare il Paese” che, quindi il disoccupato, il precario, il lavoratore o il pensionato possono stare tranquilli, essi hanno gli stessi problemi del ricco e dello speculatore che determinano la crisi e che grazie a essa continuano ad arricchirsi. Riferendosi al partito di Casini poi, dopo dichiarazioni e smentite su una possibile alleanza, Vendola sostiene di non porre veti ma fa una constatazione: ” Casini ha fatto un altro percorso e le sue posizioni, ad esempio sui diritti civili, sono sempre state antitetiche a quelle del campo progressista. Così anche per le politiche economiche, se la linea dei centristi è quella di austerity e liberismo da qui all'eternità, Casini potrà essere solo un nostro avversario, mai un alleato”. La battaglia per i diritti civili è giusta e sacrosanta ma non rappresenta una discriminante politica. Essa, infatti, non è e non è mai stata un’esclusiva delle organizzazioni dei lavoratori e dei comunisti, ma è stata oggetto di battaglia e di iniziative anche di organizzazioni politiche laiche che però nulla hanno a che vedere con la lotta di classe contro l’ingiustizia sociale. I radicali e i liberali, in materia economica sostengono, infatti, le più agguerrite e antipopolari teorie liberiste, classiste e padronali. Vendola volutamente sorvola sul fatto che il Pd e Bersani, con i quali l’alleanza elettorale non è in discussione hanno votato le stesse leggi liberiste che ha votato il partito di Casini. Leggi che hanno prodotto le politiche dell’austerity e del rigore a senso unico. Non è quindi il campo economico e sociale a costituire ostacolo a un patto elettorale con Casini e …. con Fini. Vendola e Bersani, nel mentre col centrodestra cercano di confezionarsi una legge elettorale su misura, stanno con tutte le loro forze tentando di recuperare il consenso dei discriminati che hanno essi stessi colpito con il loro voto. Tentano di far credere di voler lavorare per una coalizione progressista (?) con la prospettiva, annunciata dal leader Pd, di un patto di legislatura con i moderati del centro subito dopo le elezioni. Risultano giuste in proposito le parole di Di Pietro che ha definito Bersani e Vendola “furbacchioni politicanti in cerca di pubblicità” e naturalmente di voti. Le scelte liberiste portate avanti, infatti, indifferentemente da governi di centrodestra e di centro”sinistra” sono le sole che essi conoscono. Essi non sono fra loro in contrapposizione, semplicemente competono per la sedia a capotavola rappresentando due variabili della stessa politica liberista del padronato. In Italia non trovano spazio, neanche nelle cosiddette sedi istituzionali, i comunisti e le forze che si collocano su un piano antagonista al sistema capitalista nella sostanza e non solo nelle apparenze. Avere chiaro tutto ciò è indispensabile per smascherare i tentativi di chi vuole ingabbiare definitivamente all’interno delle logiche liberiste e liberticide i discriminati. E’ questa una condizione indispensabile per affrontare le future lotte basando su un punto di vista di classe e di alternativa sociale l’iniziativa politica e le lotte che ci aspettano.

domenica 1 luglio 2012

Prosegue l’aggressione ai lavoratori da parte di Marchionne del Ministro Fornero e dei padroni

Marchionne in occasione della presentazione di una vettura interamente costruita in Cina dalla Fiat, davanti a dirigenti, segretari e responsabili ai vari livelli del Partito Comunista ( sarebbe più appropriato sostituire alla definizione di comunista, quella di capitalista) Cinese, dopo i convenevoli e reciproci riconoscimenti, ha colto al volo l’occasione per mostrare ancora una volta il vero volto suo e del padronato. Davanti, infatti, alla sentenza che obbliga la Fiat a reintegrare a Pomigliano d'Arco 145 lavoratori discriminati per il solo fatto di essere iscritti alla Fiom, Marchionne ha brutalmente affermato:”Il nostro(?) paese ha un livello di complessità nell’ambito delle questioni industriali che non esiste in altre giurisdizioni. Le implicazioni di questa decisione sulla situazione del business sono abbastanza drastiche, perché tutto diventa tipicamente italiano e quindi molto difficile da gestire. Allo stesso tempo, nei miei viaggi in Cina, negli Usa o altrove non vedo nessuno veramente interessato a questa decisione, non c’è nessuno che fa la fila per venire a investire in Italia. Non credo che cambierà nulla, si renderà solo tutto più complesso”. Definendo esplicitamente “folcloristiche” le norme italiane che ancora tutelano chi lavora. Marchionne non ha potuto fare a meno, inoltre, di affermare che un operaio cinese impiegato dalla Fiat prende cinque volte meno di un operaio italiano guadagnando circa 2mila yuan, al cambio attuale circa 250 euro il mese. La grande contraddizione e ambiguità esistente in Cina è quella di essere un Paese governato da un partito che si ostina a definirsi comunista nonostante i dati economici che emergono e che vedono la Cina presentare un PIL (prodotto interno lordo) che, secondo il sole 24 ore, nel solo primo trimestre 2012 ha registrato un incremento dell'8,1% rispetto allo stesso periodo dell'anno precedente. Nonostante ciò le retribuzioni dei lavoratori cinesi sono di appena 250 euro mensili. Questi dati sarebbero più consoni per un paese non comunista ma dichiaratamente capitalista, dove vengono anteposti alle condizioni economiche e sociali dei lavoratori e dei cittadini il profitto di pochi e il mercato e dove si relegano i lavoratori al ruolo di sfruttati e sottopagati. Proprio per questo i rampanti capitalisti nostrani (?), cogliendo l’aspetto sostanziale della situazione cinese non stanno a formalizzarsi su come politicamente si definisce il governo con cui fare affari, poco importa il colore della bandiera cinese, quello che conta è la situazione economica reale, quello che conta sono i loro utili. I lavoratori devono adattarsi a questa verità, le loro condizioni economiche, la loro libertà, i loro diritti devono essere compatibili con il loro profitto. Sarebbe utile approfondire quest’argomento e le sue implicazioni fra le quali, la prima: Non è sufficiente dichiararsi comunista per esserlo davvero, stesso discorso per la sinistra nostrana; La seconda non è vero che, in una realtà di mercato, a parametri economici positivi, e la Cina sta lì a dimostrarlo con il più alto PIL mondiale, corrispondano retribuzioni più alte e decenti e in migliori condizioni di vita per i discriminati. La maggiore quantità di produzione, di PIL e di ricchezza in Cina, stando ai dati, non ha favorito un benessere diffuso ma si è concentrata nelle mani di pochi capitalisti che hanno approfittato della situazione del mercato. Altro che Paese comunista. In Italia il PIL è negativo, ma anche qui la ricchezza disponibile è nelle mani di pochi capitalisti, come in Cina, e la pseudo sinistra italiana, insieme alla destra dichiarata, collabora a un governo che smantellando le conquiste dei lavoratori, favorisce, anche in una situazione di crisi, l’accumulazione solo a pochi privilegiati capitalisti e speculatori finanziari. Per tornare a Marchionne, le sue ultime affermazioni, segnalano l’arroganza sua e della Fiat che snobbando e deridendo le stesse decisioni della Magistratura, in base alla sua logica economica, dietro la promessa illusoria e falsa di lavoro, lavora per peggiorare le condizioni dei lavoratori le loro libertà e ad aumentare le differenze sociali e di classe. Non è stato sufficiente, per Marchionne, smantellare lo stato sociale italiano, demolire i diritti e le libertà dei lavoratori ( art. 18, collocamento, contratti collettivi, ecc.), precarizzare i rapporti di lavoro e condizionare l’assunzione all’adesione o meno a un sindacato amico, ora Marchionne e il padronato puntano ad attaccare i livelli salariali dei lavoratori italiani per ridurli drasticamente e per renderli competitivi con quelli di altri paesi, a partire dalla Cina, altrimenti, sostiene Marchionne non ci sarà nessun capitalista a fare la fila per investire in Italia. In altre parole il ricatto del lavoro. Del resto quanto affermato da Marchionne fa il paio con le ultime esternazioni del Ministro del lavoro Fornero che ha testualmente dichiarato: ” Il lavoro non è un diritto, deve essere guadagnato, anche attraverso il sacrificio”, corriere della sera del 27 giugno u.s. La realtà è quindi quella di un determinato, feroce e finora inarrestabile attacco di classe del padronato, del Governo, dei partiti che lo sostengono (Pd, Pdl e Udc) e dei sindacati che, anche quando non sottoscrivono o approvano apertamente, fingono di opporsi e fanno passare tutto quello che vuole e conviene alla Confindustria e ai capitalisti italiani.

martedì 12 giugno 2012

Libertà e diritti diversi su basi di classe

La legge 20 maggio 1970, n.300, fu chiamata, al momento della sua approvazione in maniera significativa: Statuto dei Diritti dei Lavoratori. Con questa legge, fu detto, entrava la democrazia nei luoghi di lavoro e, il cittadino che diventava lavoratore dipendente, varcando la soglia del posto di lavoro, manteneva i diritti fondamentali di libertà sanciti dal Patto fondativo della Repubblica: La Costituzione. “Norme sulla tutela della libertà e dignità del lavoratori, della libertà sindacale e dell'attività sindacale nel luoghi di lavoro e norme sul collocamento”, era questo il primo capoverso della legge che al Titolo 1 riportava le nuove regole a tutela “Della libertà e dignità del lavoratore”. Fino allora al cittadino- lavoratore era impedito, manifestare, nel posto di lavoro, il proprio pensiero, le proprie convinzioni politiche e sindacali. Qualora queste si fossero trovate a collidere con quelle dell’imprenditore, il cittadino-lavoratore sapeva che ne avrebbe pagato le conseguenze come non essere assunto (norme sul collocamento e la chiamata numerica), essere discriminato, nel lavoro o essere licenziato senza alcuna tutela. Lo stesso “democratico” trattamento poteva toccare al cittadino-lavoratore qualora le sue opinioni religiose, colore della pelle, condizione sessuale o razziale, lingua e perfino condizioni personali e sociali, potevano non essere gradite sia al momento dell’assunzione che durante il rapporto di lavoro. Con la legge 300 furono messe le basi per superare tutto ciò, furono aboliti gli impianti audiovisivi di controllo dei lavoratori, gli accertamenti sanitari sull’idoneità e sull’infermità per malattia o infortunio del lavoratore dipendente e le umilianti visite personali di controllo da parte di medici di fiducia del padrone. Le sanzioni disciplinari, con l’art. 7, furono regolate in maniera da togliere dall’arbitrio e dalla prepotenza il cittadino-lavoratore. Fu vietata qualsiasi indagine sulle opinioni personali dei lavoratori per evitare qualsiasi che da questa fossero condizionati l’assunzione e lo svolgimento del rapporto di lavoro. Furono istituite norme per la tutela fisica dei lavoratori,e per i lavoratori studenti. Con l’art. 13 s’impediva al padrone di assegnare qualifiche professionali a suo piacimento o in base alle sue esclusive convenienze e non alle capacità professionali possedute. Con la legge 300 si consentiva per la prima volta l’attività sindacale nei luoghi di lavoro, le assemblee retribuite durante l’orario di lavoro e si vietava al padrone di mettere in atto comportamenti discriminatori a partire dai trattamenti economici o di costituire sindacati di comodo. Ecc. La legge rispondeva alla realtà di arbitrio e prepotenza che esistevano allora, che il padrone metteva in atto per discriminare, punire, perseguitare o licenziare chiunque in qualsiasi modo ostacolasse la sua volontà, interesse o convenienza. Con la legge 300 si toglieva dalle sue mani il ricatto del lavoro. A garanzia e tutela dell’effettivo ingresso in fabbrica dei diritti dichiarati di libertà e democrazia anche nei posti di lavoro c’era l’art. 18. Questo articolo, imponeva al padrone l’obbligo alla riassunzione in tutti i casi in cui il giudice avesse riconosciuto l’illegittimità di un licenziamento operato, e rendeva, quindi, esigibile la legge e con esso i diritti di democrazia e libertà previsti. Cancellare l’obbligo della riassunzione, in caso di licenziamento illegittimo, con l’istituzione pressoché generalizzata delle indennità sostitutive, salvo casi limitati, non ha l’obiettivo di rendere più facile le assunzioni e rilanciare l’occupazione (sempre più legata alla rinuncia di diritti e salario) come sostengono gli imprenditori e le forze politiche che si fanno partavoce dei loro interessi, ma di ridare forza, potere e arbitrio al padrone perché vengono tolte quelle tutele ai lavoratori per renderli più docili e sottomessi e sempre più esposti alla prepotenza e arroganza padronale. Approvare con il voto, come ha fatto il Partito Democratico, che ancora demagogicamente da ad intendere di essere di sinistra, o imbrigliare le lotte e non mettere in campo tutte le energie necessarie, per contrastare questa manovra antidemocratica, come ha fatto la Cgil, prima ancora di un errore è un tradimento degli interessi e dei diritti dei lavoratori che, essi dicono ancora di rappresentare e tutelare. Tradimento fondato sulla negazione dell’esistenza della divisione economica e sociale esistente e della lotta di classe, che lungi dal creare alcun posto di lavoro, priverà ancora di più i lavoratori delle loro libertà e dei loro diritti. La cancellazione dell’obbligo al reintegro ha, in ultimo, il fine di riaffermare e di sancire, nei fatti, l’esistenza di libertà e diritti diversi tra cittadini non solo nei posti di lavoro ma anche e soprattutto nella realtà sociale del Paese, per tutti quelli che a causa delle proprie condizioni economiche, sono o saranno costretti a cercare un lavoro o lavorare alle dipendenze di un padrone e possono godere solo di un diritto di livello inferiore.

martedì 22 maggio 2012

La lezione di Grillo

Le consultazioni elettorali dovrebbero essere l’occasione di massimo coinvolgimento dei cittadini, e quindi di democrazia popolare. L’esperienza di questi anni ci ha dimostrato che, nella realtà questo non avviene. I pronunciamenti popolari, anche ripetuti come nei referendum, sono tranquillamente ignorati. Suonano stonate le boriose, quanto ridicole, affermazioni di vittoria senza se e senza ma, del Partito democratico, incapace o peggio astutamente interessato a non cogliere la dimensione della protesta, evidenziatasi o col voto o con l’esponenziale crescita dell’astensione, contro il sistema e il Governo di cui fa parte. I partiti sono diventati ventri molli che, con gli stessi dirigenti di sempre, cambiano continuamente di nome, in base alle leggi del marketing, e ritenendo di ottenere più consensi si intestano a singoli soggetti, questo per tentare di evitare di rendere comprensibile la comune matrice di tutti alle politiche liberiste e di mercato. Il Governo Tecnico, comodo parafulmine per decisioni antipopolari di centrodestra e centro”sinistra”, è indifferente dal voto, è sottratto al consenso popolare e legifera spudoratamente e impunemente senza alcun mandato stravolgendo e calpestando leggi e conquiste costate anni e anni di lotte ai lavoratori. La cosiddetta classe politica alimenta il privilegio riservando per se e per pochi ricchi trattamenti negati al resto dei cittadini, sostiene la medesima politica antipopolare ed entra in competizione solo per la gestione del potere. I cittadini e i lavoratori sono costretti al ruolo di spettatori passivi da indottrinare e spremere con tasse esorbitanti, servizi da terzo mondo, salari e pensioni da fame e disoccupazione. Chi non è d’accordo con tutto questo, secondo chi detiene il potere e tutti i mezzi di comunicazione di massa, fa antipolitica, è tacciato di essere qualunquista e si schiera contro la cosiddetta coesione nazionale. Facili premesse di accuse di anti italianità e di tradimento della Patria. Se questo succintamente è il quadro della situazione, occorre riconoscere che il movimento di Grillo, pur con tutti i difetti imputabili ad aggregazioni prive di obiettivi strategici alternativi al sistema, pur con cadute ed errori, ha mandato al Paese alcuni precisi e condivisibili messaggi: 1) La politica non è dei politici ma dei cittadini; 2) Le decisioni che riguardano il popolo devono coinvolgere il popolo; 3) E’ possibile fare politica senza alcun finanziamento pubblico e senza apparati politici autoreferenziali e interessati solo a costruire il consenso su quello che decidono loro; 4) Si può ottenere consenso e stare tra la gente anche senza ricorrere al teatrino televisivo e dei mass media, senza disporre di mezzi economici e riscoprendo il contatto continuo con le piazze. 5) Se i cittadini hanno la possibilità (e il movimento cinque stelle l’ha data), dal voto anche parziale e amministrativo, può emergere un forte messaggio di protesta e di richiesta di grande cambiamento. Sono solo alcuni dei messaggi emersi. Sarebbe opportuno che di questi, la sinistra, quella che si schiera apertamente e chiaramente, contro il potere del mercato e il privilegio, tenga buon conto. Starà a questa sinistra, se lo saprà e se lo vorrà fare, cogliere il messaggio e l’occasione per svolgere il proprio compito e ruolo, contro il mercato e il privilegio, sottraendosi ai giochini dei partiti dei capitalisti e dei burocrati e ponendosi alla testa di quel movimento di protesta che c’è, ma ancora non ha rappresentanza e che è alla ricerca di una politica percettibilmente alternativa capace di lottare per il cambiamento. Si eviterà, se non altro, che questo movimento possa essere veramente facile preda del qualunquismo e quindi della destra.

lunedì 21 maggio 2012

L'impossibile unità

Dare spazio al lavoro e all’impegno per favorire la crescita. E’ questo lo slogan di fondo e la bandiera di un’iniziativa comune delle “forze sociali” viterbesi dall’Adoconsum e a seguire Adoc, Cgil, Cia, Cisl, Cna, Coldiretti, Confagricoltura, Confartigianato, Confcommercio, Confcooperative, Confesercenti, Federlazio, Legacoop, Ugl Uil e Unindustria. “Lo stato di sofferenza dei lavoratori, degli imprenditori e delle loro famiglie- sostiene l’insieme delle associazioni di cui sopra, in un apposito volantino- non lasciano indifferenti. Dobbiamo trovare una via d’uscita dal tunnel. Dobbiamo reagire, insieme e ciascuno per la propria parte. Possiamo farcela”. Su queste basi venerdì 25 maggio le associazioni di categoria e i sindacati hanno organizzato una manifestazione a piazza del Plebiscito alle 19,30. L’iniziativa parte dal presupposto per cui davanti alla crisi gli interessi dei soggetti rappresentati dalle singole “associazioni di categoria” siano indifferentemente gli stessi. Che i lavoratori e gli imprenditori e loro famiglie cioè, siano colpiti allo stesso modo e non esistano interessi configgenti fra loro. Per cui essi devono collaborare tutti insieme per uscire dalla crisi. Il richiamo all’unità del Paese e alla collaborazione nazionale, anche in una realtà di differenze economiche e sociali sempre più elevata, è diventato una costante nella politica dei partiti e vede impegnate anche le più alte cariche pubbliche. L’iniziativa del 25 maggio che tenta di unificare l’inconciliabile, lancia una serie di proposte di “alto contenuto politico”, inserendole in questo contesto, ha lo scopo di far credere a chi paga veramente la crisi, lavoratori, pensionati, precari e disoccupati di trovarsi sulla stessa barca di chi crea, contribuisce ad alimentare o sfrutta la crisi per il proprio tornaconto: ricchi, speculatori finanziari, banche e salvatori milionari del Paese. Che questa linea sia portata avanti da imprenditori o da organizzazioni sindacali storicamente interclassiste non rappresenta una novità. E’ cosa ben diversa quando questa posizione è sostenuta da organizzazioni sindacali con una storia di classe ben diversa, di lotte e di conquiste per i lavoratori e i discriminati, come la Cgil o da partiti che continuano a definirsi di sinistra. Non si tratta di rispolverare tesi che oggi sono sbrigativamente liquidate come viziate da pregiudizi ideologici superati. Al contrario, si tratta di chiamare le cose con il loro vero nome. La politica di “collaborazione sociale”, del resto. non è una novità del Governo dei Tecnici e dei partiti della cosiddetta seconda Repubblica. Essa fu inaugurata dal Governo Craxi che, nel 1984 tolse quattro punti di contingenza dai salari dei lavoratori, con la scusa di creare occupazione per i giovani. Da questi quattro punti dipendevano le sorti del Paese fu sostenuto. Persi i quattro punti tutto rimase come prima, con la sostanziale differenza che il potere di acquisto dei salari cominciò a tracollare, la disoccupazione in particolare quella dei giovani, invece continuò ad aumentare. Da allora in poi sempre peggio. Con la stessa logica di collaborazione sociale, basata sulla cancellazione di diritti e salario, fu azzerata del tutto la scala mobile, precarizzato il rapporto di lavoro (leggi Treu e Biagi), privatizzata la previdenza, attaccati i contratti collettivi di lavoro, cancellate le pensioni di anzianità e taglieggiati i redditi fissi attraverso l’inflazione e compromesse le stesse libertà sindacali. L’iscrizione a un sindacato “ragionevole e responsabile” è tornata a essere, come negli anni ’50, condizione o meno di lavoro. Il lavoro, sempre di meno, è stato sempre più condizionato alla rinuncia di diritti e salario. I salari “compatibili” hanno portato i lavoratori italiani a percepire compensi fra i più bassi d’Europa. La flessibilità della manodopera, teorizzata, purtroppo, anche dal sindacato, ha legato completamente il diritto a una vita dignitosa all’esistenza del profitto. Il carico fiscale per i redditi fissi è fra i più alti dell’Ue. Stipendi e pensioni sono taglieggiati dalle tasse alla fonte mentre i percettori di altri redditi, a partire da quelli d’impresa, possono tranquillamente dichiarare redditi inferiori a quelli dei propri stessi dipendenti. Il sistema previdenziale italiano è stato “riformato” e reso “compatibile” col mercato da governi di ogni colore, il cui lavoro ha prodotto il bel risultato che colloca la qualità della previdenza italiana, a partire dal 2020, all’ultimo posto nella graduatoria europea. Il “riformato” sistema previdenziale, inoltre, costringe i vecchi a lavorare fino a 67 anni, con contribuzioni più alte e pensioni dimezzate mentre i giovani sono condannati a essere precari a vita e a lavorare solo quando conviene al mercato e alle sue condizioni, senza avere la speranza di pensione dignitosa in vecchiaia. Che tipo di sorte in comune possono avere i lavoratori con “imprenditori” che de localizzano e licenziano per incrementare i propri profitti? Che comunanza di interessi possono avere i precari o i disoccupati, cui è negata la dignità e libertà di un lavoro, con chi per guadagnare di più, li deruba del presente e del futuro? Che sorte comune ci può essere fra una quantità crescente di discriminati che vede tracollare le proprie condizioni economiche e sociali con la sorte di quella fetta sempre più piccola che accresce contemporaneamente e a dismisura la propria ricchezza? Con la scusa “innovativa”del mercato globale gli imprenditori e i sindacati che hanno sposato questa tesi, vogliono in realtà convincere chi lavora che avere meno salari e meno diritti nel lavoro, significa costruire un futuro di occupazione e di progresso comune, salvare la Patria. E’questo il tentativo di chi vuole far credere ai discriminati di stare sulla stessa barca di chi discrimina. Chi non condivide l’afflato unitario nazionale è fuori dal coro. E’ accusato di fare antipolitica e di sostenere tesi e posizioni ideologiche in barba alla decantata democrazia. E’ vero il contrario. Prendere conoscenza e coscienza della realtà reale e non di quella che immaginaria, può contribuire a creare le condizioni per costruire una società diversa dove lo sviluppo sia rispettoso dei diritti e sia legato ai bisogni dell’uomo che lavora, non agli interessi di chi specula e di chi ha come obiettivo, solo l’arricchimento personale da perseguirsi ad ogni costo.

lunedì 16 aprile 2012

Bersani: ”Se qualcuno pensa di stare al riparo dall'antipolitica si sbaglia. Se non la contrastiamo, spazza via tutti."

E’ quanto va affermando il segretario del Partito Democratico lamentando la crescente disaffezione verso il suo partito che, pur essendo stato “all’opposizione”, fino all’avvento dei “tecnici”, è accomunato nel giudizio negativo che riguarda i partiti politici presenti in Parlamento giudicati come ladri e tutti uguali. Bersani paventa la possibile combinazione di una miscela esplosiva antipolitica e antiparlamentare e per questo antidemocratica che potrebbe creare le condizioni per un intervento eversivo e autoritario.
Su queste argomentazioni, politiciste, indirizzate, non ai cittadini, ma ai soci di governo dell’ABC (Alfano e Casini, oltre Bersani) per gli atteggiamenti furbeschi assunti nel sostegno al Governo “tecnico” Monti, si è sviluppato un dibattito che ha riguardato anche personaggi di “spessore” come Reichlin e Macaluso, anch’essi, perlomeno formalmente in passato comunisti.
No i partiti non sono tutti uguali, com’è possibile che il Pd, sostengono, possa essere accomunato e associato con quei personaggi e partiti che sono stati l’asse politico che ha governato il Paese che ha fatto vergognoso fallimento, ed ha ridicolizzato con i suoi comportamenti l’Italia in ambito internazionale?
È il partito della destra, sostengono, che ha comprato i deputati necessari alla maggioranza, ha corrotto i giudici, ha dichiarato che pagare le tasse è un furto, ha detto che col tricolore “ci si puliva il culo”. Ha imposto alla maggioranza parlamentare di votare solennemente, nell’aula storica di Montecitorio, che la signorina Ruby era effettivamente la nipote di Mubarak. Hanno insomma portato l’Italia sull’orlo del baratro.
Il Pd è altra cosa. Il Pd, oggi è l’unica forza consistente alternativa alla destra, che può rendere possibile un ricambio democratico. Non capire tutto questo significa fare antipolitica. L’antipolitica diffusa si combatte e si vince con la politica: se prevale la prima vuol dire che la seconda è debole.

Queste argomentazioni potrebbero essere definite miopi e primitive. Esse partono dall’assunto che l’onestà e la correttezza siano elementi caratterizzanti politicamente un partito, sufficienti per far acquisire al Pd quel consenso che invece non ha. Non perché l’onestà e la correttezza politica non siano valori. Perché non si può fondare un partito politico su queste basi. La storia lo dimostra, nessuna forza politica può rivendicarne l’esclusiva.
Quello che ha determinato la differenza sono state le utopie e i progetti politici, anche rappresentati con più o meno coerenza, onestà e correttezza.
L’azione politica del Pd e dei suoi esponenti, negli anni e nelle diverse denominazioni partitiche si è sempre di più caratterizzata, contrariamente da quello che ci sarebbe aspettato da un partito che, nonostante tutto, continua a definirsi di sinistra, nel sostegno dei principi del liberismo e del mercato, dei quali rivendica addirittura la rappresentanza.
La condotta del Pd e dei governi di cui questo partito ha fatto parte, ha risentito pesantemente di questa impostazione, che è però rivendicata anche dallo schieramento contrapposto di centrodestra con il quale il Pd è in competizione non sulla base di un progetto politico alternativo, ma per la presunta maggiore capacità, competenza, onestà e correttezza nel liberalizzare e nel privatizzare.
La competizione con il centrodestra, che a sua volta rivendica la stessa rappresentanza e politica, è su questo.
Quello che il Pd e i suoi dirigenti fingono di non capire è che i cittadini non intravvedono nel Pd un’alternativa al partito e a Berlusconi e al centrodestra, perché entrambi legati al mercato.
Come non considerare legate al liberismo le azioni dei governi che si sono succeduti negli ultimi venti anni? Prendiamo ad esempio il sistema previdenziale e le pensioni. La controriforma o destrutturazione, tesa a legare alle logiche di bilancio e non ai bisogni dei cittadini lo stato sociale, è stata inaugurata da un altro governo di “tecnici” presieduto da Dini, proveniente dal centrodestra, cui poi è tornato, e sostenuto anche dai Democratici di sinistra. Nei governi susseguitisi, l’operazione è andata avanti, sostenuta alternativamente dai due “schieramenti” a seconda della loro collocazione, o al governo o all’opposizione, per arrivare in ultimo al voto palesemente comune di cui è stato gratificato il nuovo “tecnico” Monti.
La precarizzazione del lavoro, non è forse sostanzialmente cominciata con la legge n.196 del 1997, dell’allora Ministro del Lavoro di centrosinistra, Treu e proseguita poi con la legge del centrodestra denominata Biagi n.30 del 2003?
Le politiche di azzeramento dei diritti sindacali e di contenimento dei salari, oltre che delle pensioni, per renderli compatibili con il mercato, non sono state perseguite indifferentemente da entrambi gli schieramenti? Non è a causa di queste politiche che si è determinato un crescente impoverimento dei redditi fissi a favore degli altri redditi? Senza creare, per aggiunta, in barba alle chiacchiere e della demagogia, alcun nuovo posto di lavoro ma incrementando solamente i profitti?
Se in Italia i lavoratori dipendenti hanno i redditi più bassi di quelli dei lavoratori degli altri paesi Ue è un fatto casuale? Se il reddito si concentra sempre di più nelle mani di pochi, a chi è da attribuirne la responsabilità? Se dal 2020 le pensioni italiane saranno le più basse d’Europa di chi è la responsabilità? Se il carico fiscale in Italia grava soprattutto sui redditi fissi ed è il più alto nel continente di chi è la responsabilità? Se sul piano fiscale il dipendente guadagna più dell’imprenditore, da cui dipende, di chi è il merito?
I vari interventi militari, naturalmente a difesa della pace e della democrazia, che si sono susseguiti negli anni, Jugoslavia, Iraq, Afganistan e Libia, non sono forse stati portati indifferentemente avanti dai governi dei due schieramenti? Non è stato proprio il Pd a determinare, con la sua posizione apertamente interventista, l’intervento italiano in Libia?
L’informazione, il sapere, la salute, l’energia e l’acqua, i trasporti, ecc. non rispondono sempre più a logiche di mercato e di profitto a danno della qualità e del sociale? Chi ha determinato ciò? Forse il Pd vuole cambiare questo stato di cose?
L’attuale situazione economico-politica è il prodotto di una sorta di staffetta politico-governativa fra centrodestra e centrosinistra alternatisi nel governare e ora arrivati dopo venti anni di contrapposizioni di facciata e di teatrini, a sostenere apertamente con il voto lo stesso governo e le stesse politiche che stanno determinando una macelleria sociale senza precedenti.
I cittadini hanno capito che il loro parere non conta e non è richiesto nemmeno. Nessun partito ha mai richiesto un mandato elettorale per tagliare le pensioni o produrre leggi di precarizzazione del lavoro o strozzare i redditi fissi con un carico fiscale insopportabile. Neanche dei molteplici pronunciamenti referendari dei cittadini i politici, di entrambi gli schieramenti, hanno tenuto o stanno tenendo conto: sul nucleare (due referendum), sul finanziamento dei partiti, sui ministeri dell’agricoltura e della sanità, ecc. Se questa è la democrazia …..
Perché mai i cittadini, i lavoratori, i pensionati, i precari e i disoccupati dovrebbero dare il proprio consenso a un partito che si dice di sinistra e poi è totalmente schierato su posizioni politiche legate al liberismo, al mercato, alle privatizzazioni e alle compatibilità capitaliste o tipicamente di destra come avvenuto anche con le “riforme” elettorali ispirate al sistema maggioritario?
I dirigenti del Pd ritengono che il loro punto di vista rappresenti la Politica, sia oggettivo ed indiscutibile, mentre quello di chi non concorda con loro sia dettato, a seconda dei casi e della convenienza, o da atteggiamenti pregiudiziali e ideologici o dall’antipolitica.
E’, invece, il confronto tra progetti alternativi credibili che può sconfiggere possibili tentazioni populiste (Berlusconi) o apertamente autoritarie.
L’opinione pubblica non vede nel Pd e nei suoi dirigenti una alternativa al centrodestra, perché con la loro condotta essi portano tutta la responsabilità storica e politica per aver contribuito a cancellare quello che di buono c’era, e non era poco, nella sinistra della cosiddetta prima Repubblica, altro che antipolitica.

giovedì 12 aprile 2012

Cgil Cisl e Uil fingono di opporsi alla “riforma delle pensioni”

Il 13 aprile si terrà a Roma la manifestazione nazionale di Cgil Cisl e Uil per “ottenere soluzioni immediate per chi è rimasto: senza lavoro, senza reddito e senza pensione e per cancellare l’ingiustizia delle ricongiunzioni onerose”.
La crisi economica ha determinato la chiusura di tantissime aziende e la perdita di centinaia di migliaia di posti di lavoro. Laddove è stato possibile sono stati sottoscritti accordi sindacali, anche con la partecipazione di rappresentanti pubblici che hanno agevolato l’esodo dei lavoratori anziani. Tantissimi lavoratori sono stati indotti a rinunciare al proprio lavoro e ad accettare il licenziamento perché prossimi alla pensione in base ai requisiti previsti dalle norme preesistenti la “riforma delle pensioni” del governo Monti.
Con la “riforma” Monti sono state abolite le pensioni di anzianità ed è stato elevato il limite di età e di contribuzione per l’accesso alle nuove pensioni questo ha prodotto che i lavoratori posti in esodo si sono trovati senza lavoro, senza stipendio e senza pensione a causa dell’incremento dell’età riguardante la speranza di vita.
A questo va ad aggiungersi l’incremento scattato dal luglio del 2010 che impone ai lavoratori, in particolare quelli esodati, per andare in pensione, pesantissimi oneri di ricongiunzione molto gravosi, in molti casi, di centinaia di migliaia di euro, con la conseguenza che molti lavoratori, non potendo pagare, si trovano nella condizione di non aver diritto a pensione.
Manifestare contro un governo che stravolge le regole pensionistiche e priva del necessario per vivere chi, dopo aver lavorato una vita, è arrivato al traguardo della pensione non solo è giusto ma sacrosanto.
La violenza esercitata su chi è incappato nelle “nuove” regole delle pensioni credendo nei suoi diritti e nello stato di diritto che dovrebbe esistere un Paese civile è enorme. Per loro non c’è salvezza alcuna, altro che decreto “salva Italia”.
Fa bene dunque il sindacato a manifestare contro questa palese ingiustizia e prevaricazione.
Stupisce e indigna però che non sia oggetto della protesta la riforma delle pensioni nel suo insieme ma essa sia circoscritta ai soli obiettivi, pur giusti, relativi gli esodati e le ricongiunzioni onerose.
Il 12 dicembre dello scorso anno Cgil, Cisl e Uil hanno indetto lo sciopero generale contro l’operato del Governo Monti, in particolare le richieste Cgil erano: La conferma dell’indicizzazione sulle pensioni medio basse; la conferma come requisito per l’accesso alle pensioni di anzianità di quaranta anni di contribuzione; la tutela dei lavoratori in mobilità o licenziati; di rendere più graduale l’innalzamento dell’età pensionabile per le lavoratrici; di rendere progressiva l’imposta sulla casa, altrimenti graverebbe soprattutto sui redditi medio bassi; di attuare la riforma degli ammortizzatori sociali.
In aggiunta la Cgil, nel definire iniqua la manovra perché colpiva soprattutto i redditi più bassi, contraeva i consumi, accentuava la recessione, creava nuova disoccupazione, chiedeva che a pagare fossero i più ricchi e chi non ha mai pagato. Per questo richiedeva: 1) Una imposta sulle grandi ricchezze; 2) La tassazione vera dei capitali scudati; 3) La tassazione dei capitali portati in Svizzera; 4) La vendita e il canone sulle frequenze televisive; 5) La riduzione delle spese per l’acquisto di 131 bombardieri F 35; 6) L’avvio di una seria e costante battaglia contro l’evasione fiscale, tra le più alte e scandalose al mondo.
Di tutte le richieste, pur molto moderate, avanzate dalla Cgil, quante sono state accolte? Pressoché nessuna. La stessa richiesta di riforma degli ammortizzatori sociali si è tramutata in un ennesimo attacco ai diritti dei lavoratori che sono i soli a pagare, sull’articolo diciotto.
Troppo poco.
La manifestazione del 13 aprile avrebbe dovuto essere il conseguente proseguimento di quanto iniziato con lo sciopero generale di dicembre. Invece sembra il suo definitivo affossamento poiché “dimentica” le rivendicazioni che lo stesso sindacato si era dato e cancella dagli obiettivi dell’iniziativa ogni rivendicazione di equità.
C’è da augurarsi che la manifestazione di domani coinvolga una grande massa di lavoratori che non è contro l’iniqua politica del Governo Monti e la sua politica pensionistica, ma solo sui problemi degli esodati e delle ricongiunzioni.
Questi obiettivi parziali fanno passare in secondo piano gli stessi pronunciamenti del sindacato pronunciati nelle piazze in occasione dello sciopero generale del 12 dicembre e riducono la protesta a soli obiettivi particolari con il fine di illudere i lavoratori sui reali contenuti della lotta, da una parte, e dare un messaggio politico ben preciso, al Governo ed al padronato, dall’altra, sulla reale intenzione del sindacato: Quello di rinunciare a combattere su tutto il resto. Del resto i pacchetti di sciopero a babbo morto lo dimostrano a pieno.

mercoledì 21 marzo 2012

Il governo di “tecnici” liberali e miliardari, dopo le pensioni demolisce le residue libertà dei lavoratori

Il dado è tratto e la “riforma” del mercato del lavoro è cosa fatta. Un governo composto da pasdaran del mercato e delle liberalizzazioni, coadiuvato dal padronato e da sindacati più realisti del re, cancella con un atto di forza l’ultimo strumento di libertà per i lavoratori, l’art. 18, che imponendo l’obbligo della riassunzione alle aziende, in caso di licenziamento operato senza giusta causa, permette ai lavoratori, nei posti di lavoro, di difendere i loro diritti senza il ricatto del licenziamento.
Marchionne e la Fiat, dopo aver negato ai tre delegati Fiom il ritorno al loro posto di lavoro, nonostante la sentenza della magistratura, salteranno di gioia. Hanno fatto scuola e tracciato la strada.
Quanto deciso dal Governo sulla spinta del padronato più arretrato e becero e dalle parti sociali, compresa la Confindustria, ma senza la Cgil, da la libertà al padrone di licenziare a suo piacimento, salvo poi un misero ed umiliante indennizzo.
Questo premia l’arroganza padronale e cancella il diritto calpestato di chi lavora e consentirà alle aziende di liberarsi comunque del personale scomodo (chi pretende i propri diritti, chi sciopera o aderisce a sindacati non graditi, chi si ammala, chi va in gravidanza, ecc.) con il pretesto di motivi economici, che ogni imprenditore potrà facilmente accampare, senza alcuna possibilità reale di controllo. La reintegra ci sarà nel solo caso in cui l’imprenditore dovesse dichiarare che licenzia una persona perché è nera o comunista o iscritta al sindacato. Cioè mai.
L’art. 18, dopo la cura Monti- Fornero, con la cancellazione dell’obbligo del reintegro toglie a chi lavora ogni tutela e lo piega alla volontà e all’interesse del padrone privandolo di ogni residua libertà.
Quanto successo è stato possibile dalla ritrovata aggressività del padronato ma soprattutto dal tradimento di quelle forze politiche e sindacali che hanno abbandonato l’obiettivo dell’emancipazione del lavoro dallo sfruttamento e dal profitto, e hanno fatto propri il liberismo, le compatibilità e il mercato.
I lavoratori si sono trovati, a seguito di ciò, senza rappresentanza in Parlamento e senza tutela sindacale e ne pagano le conseguenze.
La Cgil negli ultimi venti-trenta anni, dopo aver abbandonato la sua linea di classe in difesa dei lavoratori, ha sostenuto in prima persona, sottoscrivendo accordi, le ragioni delle imprese ed ha legato agli interessi del libero mercato e delle compatibilità capitaliste i diritti, l’occupazione, i salari, le condizioni di lavoro e lo stato sociale. Altre volte non ha sottoscritto furbescamente accordi. L’hanno fatto al posto suo Cisl e Uil con il successivo tacito e strumentale accodamento della Cgil.
Tutto questo è successo in più occasioni. I risultati li conosciamo: I lavoratori italiani hanno i salari più bassi d’Europa, la disoccupazione più alta, il sistema pensionistico più punitivo e sono colpiti dal più pesante carico fiscale del continente.
Di chi è la responsabilità di questo arretramento? Del padronato certo. Soprattutto però di un sindacato che ha mancato al suo ruolo anzi, che ha facilitato il processo facendo proprie le logiche di mercato delle aziende.
Quanto successo con l’ultima “riforma” delle pensioni lo chiarisce fin troppo.
Davanti alla prepotenza del Governo dei tecnici e dei miliardari che, con la manovra economica di fine anno, ha colpito lavoratori e pensionati e salvato i ricchi, il gruppo dirigente della Cgil ha in un primo tempo proclamato uno sciopero generale di … tre ore, preoccupato di una possibile protesta spontanea di massa dei lavoratori, da governare e imbrigliare. Siccome poi la protesta non c’è stata, la partita pensioni è stata chiusa in tutta fretta.
Oggi il gruppo dirigente della Cgil, quello che il 23 marzo 2002 organizzò la più grande manifestazione mai tenuta in Italia, contro la manomissione dell’art. 18, si trova nelle stesse condizioni in cui era per le pensioni, quella di non poter cioè approvare ma nemmeno contrastare l’operato del Governo, grazie anche al ruolo certamente non super partes svolto dal Presidente della Repubblica, l’ex comunista (?) Napolitano.
Solo una risposta largamente di massa alle iniziative di lotta che saranno fissate costringerà la Cgil e, con essa il Pd, ad agire veramente contro l’abolizione dell’art. 18: Entrambi sono ansiosi di collaborare col Governo Monti a salvare l’Italia dei ricchi, ma nello stesso tempo sono preoccupati di non perdere il consenso, soprattutto elettorale, dei lavoratori italiani dei quali senza meritarlo pretendono ancora la rappresentanza politica e sindacale.

martedì 13 marzo 2012

Dopo quella sulle pensioni la Cgil si appresta a una nuova sceneggiata sul “mercato del lavoro”

Il Corriere della sera di ieri 12 marzo riporta testualmente: ”Modello tedesco per i licenziamenti e un percorso negoziale che consenta alla Cgil di stare al tavolo fino all'ultimo momento”.
“L'articolo 18, così com'è, resterebbe solo per i licenziamenti discriminatori. Per i licenziamenti economici, secondo la proposta del leader della Cisl, Raffaele Bonanni, è previsto un controllo da parte del giudice limitato alla verifica che non si tratti di un licenziamento discriminatorio. Ma il giudice non potrà sindacare sull'effettività del motivo economico-organizzativo. Il licenziamento seguirà una procedura sindacale e non ci sarà un diritto al reintegro ma solo a un congruo indennizzo”.
Su tutta questa partita sembra difficile ottenere il consenso della Cgil, che però potrebbe restare al tavolo fino alla fine per negoziare tutta una serie di istituti che le consentano, pur non firmando l'accordo, di non strappare e riconoscere parzialmente la bontà dell'intesa. Una modalità che toglierebbe il Pd dall'imbarazzo di dover votare una riforma su cui la Cgil chiamasse invece lo sciopero generale che il leader della Cgil, Susanna Camusso”.

“Il terzo tipo di licenziamento è quello chiesto dalle imprese e riguarda i motivi disciplinari: in questo caso oggi il lavoratore, se il giudice ritiene che non esista il giustificato motivo, ottiene reintegro e indennizzo. Con la riforma invece avrebbe diritto, a discrezione del giudice, al reintegro o all'indennizzo fino a 18 mensilità, secondo il modello tedesco. Ma le nuove norme varrebbero solo per i nuovi assunti? Si sta affacciando l'idea che possano valere senz'altro per i nuovi assunti e tra un paio d'anni, a crisi superata, anche per i vecchi. Un modo per evitare il doppio regime. Su tutta questa partita sembra difficile ottenere il consenso della Cgil, che però potrebbe restare al tavolo fino alla fine per negoziare tutta una serie di istituti che le consentano, pur non firmando l'accordo, di non strappare e riconoscere parzialmente la bontà dell'intesa. Una modalità che toglierebbe il Pd dall'imbarazzo di dover votare una riforma su cui la Cgil chiamasse invece lo sciopero generale che il leader della Cgil, Susanna Camusso, in un'intervista al Corriere, ha comunque escluso”.
Che la posizione e il ruolo svolto dalla Cgil e dal Partito Democratico fossero solo apparentemente a favore dei lavoratori ma sostanzialmente contro le loro ragioni, si era capito benissimo.
La Cgil, sull’onda del liberismo, del mercato e delle compatibilità capitaliste trionfanti, ha reso possibile, con la sola resistenza di facciata di uno “sciopero generale” farsa di tre ore, insieme alle consocie cisl e uil, la controriforma sulla previdenza. Con questa controriforma l'Italia avrà la più alta età di pensionamento tra i Paesi membri, uguale per uomini e donne dal 2020, come certificato dal Libro bianco sulle pensioni diffuso dal commissario per l'Occupazione e gli affari sociali.
La Cgil ha consentito, con la sua condotta, una manovra economica che, salvaguarda i patrimoni si scarica taglieggiandoli solo sui redditi fissi dei lavoratori e dei pensionati, ha consentito che non fossero prese misure alcune per contrastare la disoccupazione e le delocalizzazioni.
Ora si appresta a far passare l’attacco finale all’ultimo dei diritti dei lavoratori con la cancellazione dell’articolo 18. Tutto questo dopo aver fornito le più ampie garanzie che la Cgil, protesterà pubblicamente un po', ma non prenderà alcuna iniziativa "vera" contro “l’accordo sul mercato del lavoro” che non firmerà.
D’altra parte la segretaria Camusso ha fatto bene intendere da che parte sta, apertamente con la TAV, contro di cui la Fiom, oltre a un movimento che si va allargando a tutta Italia si è schierata.
Il Pd, da canto suo, collaborerà in quest’opera di tradimento e di doppiogiochismo, sostenendo anche col voto, insieme ai soci del centrodestra e terzo polo, come ha fatto sempre per tutte le misure “tecniche” e antipopolari che il Governo Monti ha preso per la “salvezza dell’Italia” (dei padroni).
L’analisi del Corriere della sera sul comportamento di Cgil e Pd, visti i precedenti pertanto, non è solo credibile, ma è la logica conseguenza dei comportamenti che questi hanno tenuto da una ventina d’anni a questa parte.
Cancellato quest’ultimo baluardo di difesa della dignità di chi lavora, il padrone avrà campo libero e potere indisturbato per licenziare, discriminare, perseguitare tutti quei lavoratori o lavoratrici che a suo insindacabile giudizio ostacolano i suoi piani di profitto per malattia, gravidanza, sciopero o lotta sindacale, adesione a un sindacato alternativo, ecc..
Che il padronato punti a privare i lavoratori dei loro diritti e della loro libertà, si è toccato con mano dopo che la Fiat, che ha assunto il ruolo di punta del padronato italiano, non ha rispettato la sentenza del tribunale di Potenza che prevedeva il reintegro al lavoro di tre lavoratori licenziati per sciopero, obbligandoli all’umiliante posizione di percepire il salario stando in casa e senza lavorare. Il padrone, ha riacquistato arroganza e prepotenza e sulla forza dei suoi soldi si può permettere anche di umiliare impunemente chi gli resiste, altro che articolo 18.
Occorre acquisire la consapevolezza che chi agevola i disegni padronali non è dalla parte dei discriminati.
Per questo occorre denunciare senza tentennamenti o posizioni possibiliste il tradimento, ricostruire e rafforzare una visione alternativa e di classe, ricostruire e rafforzare tutte quelle realtà politiche e sindacali che sono realmente a fianco degli oppressi e dei discriminati se vogliamo veramente contrastare i disegni padronali e gettare le basi per una nuova stagione di lotte e di conquiste.

sabato 10 marzo 2012

L’informazione in un paese “democratico” ovvero l’indottrinamento del potere per il popolo caprone

Televideo Rai del 10 marzo 2012:
Raid Israele a Gaza, morti 12 palestinesi
Sale a 12 palestinesi morti e 19 feriti il bilancio di una serie di raid israeliani effettuati da ieri pomeriggio sulla Striscia di Gaza. Lo si apprende da fonti mediche palestinesi. Si tratterebbe di miliziani. L'offensiva israeliana è stata lanciata dopo che una quarantina di razzi e di colpi di mortaio erano partiti dalla Striscia verso il sud d'Israele ed avevano provocato il ferimento di 4 persone, una in modo grave, secondo quanto rende noto l'esercito di Tel Aviv.
Il Corriere della sera di oggi, riporta sostanzialmente la stessa notizia solo che la reazione israeliana è giustificata dall’ “attacco” palestinese con il lancio non 40 ma più di 80 missili che avrebbero causato il ferimento non di quattro ma di otto persone.
Questi avvenimenti tragici vedono pagare sempre il popolo oppresso palestinese un contributo di sangue sproporzionatamente più alto di quello degli israeliani che sarebbero, diversamente dalla realtà, “aggrediti”. E’ evidente la mistificazione operata dagli organi dell’informazione. Essi sono perennemente in competizione fra loro nell’opera volta a presentare i palestinesi come un popolo di terroristi e aggressori e i soldati e il governo israeliano come paladini della libertà, costretti a intervenire con le armi, loro malgrado, solo dopo ripetute provocazioni.
Poco importa se, come riporta il giornale della Confindustria nel sottotitolo della stessa notizia, a causare la reazione palestinese sia stata la morte (o assassinio) di un leader della resistenza venerdì dopo il lancio, naturalmente provocatorio, di due colpi di mortaio contro Israele. Un altro “democratico” raid israeliano ha ucciso, in quell’occasione, il leader dei Comitati di Resistenza Popolare Zuhir al-Qaisi e il genero che secondo l'esercito, stavano preparando un grave attentato in Israele al confine con l'Egitto.
Questo modo di presentare le notizie, degno di una propaganda di regime, non è teso a “informare” l’opinione pubblica ma a convincerla che, in sostanza, i palestinesi se la stanno cercando.
I palestinesi, infatti, a differenza dei militari israeliani, che eliminano solo pericolosi terroristi, se la prendono con le” persone” inermi e democratiche.
I palestinesi, infatti, non sono persone ma militanti o miliziani, cioè terroristi. Essi non sono brutalmente uccisi dall’esercito occupante israeliano, quando opera con i più sofisticati ordigni militari, ma, semplicemente, semplicemente muoiono in occasione dei raid.
L’esercito militare israeliano, davanti all’ipotesi della preparazione di un attentato, non ha bisogno di prendere delle misure precauzionali e prevenire, non ha nemmeno bisogno di celebrare alcun processo né di emettere alcuna sentenza di condanna: passa immediatamente all’esecuzione della sentenza di morte (assassinio?) dei “rei”, colpevoli di rivendicare il proprio diritto su territori strappati loro con la prepotenza e la forza delle armi e trattenuti arbitrariamente. Essi sono colpevoli preventivamente, prima ancora di aver attuato il loro intento criminale: Quello di lottare per essere liberi sulla loro terra, con una loro Patria riconosciuta e di non essere continuamente derubati dalla politica neocoloniale e aggressiva degli “insediamenti dei coloni” israeliani.
Come per altri casi simili, anche questa volta, non si leverà alcuna voce di condanna: i rappresentanti delle istituzioni e i partiti tacciono, gli organi d’informazione, nella quasi totalità dei casi, smorzano la gravità e drammaticità del massacro con titoli asettici che nascondono la realtà, le responsabilità e le proporzioni.
Questo è il modo in cui i paesi “democratici” intendono la libertà e il diritto dei popoli. L’Onu, di tanto in tanto, delibera e gli eserciti dei paesi “democratici” intervengono in difesa della “libertà” e della “democrazia”, ma solo se a loro conviene e se ci sono materie prime (leggi petrolio o altre risorse energetiche) o altri tornaconti economici o militari. In assenza di questi, i popoli possono tranquillamente continuare a subire, perché i paesi “democratici” addormentano le coscienze e con esse il senso del diritto.
Nessuno di costoro si preoccuperà se il popolo palestinese e i suoi legittimi rappresentanti continueranno a subire la prepotenza militare e coloniale del governo e dell’esercito israeliano, se i leader e i legittimi rappresentanti palestinesi continueranno a essere uccisi attraverso “operazioni militari” del “democratico” paese di Israele.

domenica 4 marzo 2012

“Liberalizzazione orari commercio” Ovvero la libertà dei liberisti

Con l’art. 31 del Decreto “Salva Italia”, il Governo Monti ha accelerato il processo di deregolamentazione, già in atto, nel settore del commercio. Ha dato, soprattutto, un illuminante esempio di come i fautori del mercato e delle compatibilità capitaliste intendono la libertà.
Per il liberismo e per i liberisti la libertà non riguarda tutti gli individui, ma solo quelli che possiedono beni che devono essere liberi di investire a proprio comodo e tornaconto.
Le principali politiche economiche liberiste sono legate alla liberalizzazione, anche selvaggia, degli scambi di beni, di servizi e di capitali, quindi all’azzeramento di qualsiasi vincolo e alla diminuzione considerevole delle leggi che regolano l'attività economica.
E’ per questo che i liberisti non tollerano restrizione alcuna, tantomeno da parte dello Stato che può intervenire ma solo a sostegno dell’iniziativa privata.
Su queste basi, incentrate sull’accumulazione di ricchezze e di privilegi economici e politici nelle mani di pochi, si attua una democrazia ristretta nella quale a essere libero non è l’individuo in quanto tale, ma il mercato e l’individuo in quanto possessore di beni capitali da mettere a profitto.
A questa democrazia, quindi, non partecipano a pari titolo tutti gli individui perché essa prevede l’esclusione e l’emarginazione di chi non possiede capitali.
L’applicazione delle teorie liberiste ha portato a concepire il lavoro, l’ambiente, le risorse naturali, la salute, la previdenza, la cultura, l’istruzione, l’informazione, lo sport, i servizi e il tempo libero non come beni di cui godere ugualmente e collettivamente, ma come strumenti di profitto da sfruttare.
Tutto quindi a servizio dell’accumulazione. La stessa informazione, accentrata nelle mani di grossi possessori di capitali, è costantemente impegnata nel convincere che la società liberista sia la migliore delle scelte possibili.
La ricerca del massimo tornaconto ha determinato, sia nei singoli paesi, che a livello mondiale, che i centri di potere effettivo siano diventati le banche e le grandi organizzazioni economiche.
Una "democrazia" perciò non basata sulle libertà dell’individuo, ma su quelle dell’impresa e a servizio dell’accumulazione capitalista.
In questo quadro non hanno cittadinanza i diritti e la libertà dei lavoratori.
Per il liberista, il lavoratore è senza diritti, la sua esistenza è solo in funzione delle esigenze del mercato e dei liberisti, per questo dei consumatori.
Su questa strada vanno perciò create le condizioni più favorevoli per la vendita e l’acquisto di beni, come tenere aperti gli esercizi commerciali il più a lungo possibile, tanto più se i consumi crollano a causa dell’inflazione e dei bassi salari.
E’ evidente che a godere della deregolamentazione degli orari di apertura delle attività commerciali, in particolare dei giorni festivi, domenicali e infrasettimanali, sarà, quasi esclusivamente la grande distribuzione, mentre sarà insostenibile per i piccoli esercizi di cui proseguirà l’azione di smantellamento già da tempo in atto.
I centri storici continueranno a spopolarsi e le città saranno ulteriormente violentate e sempre di più a misura di supermercato.
A subire pesanti conseguenze da quest’opera liberalizzatrice, ispirata alle più sfrenate logiche consumiste, saranno però soprattutto i lavoratori.
Le politiche di “flessibilità” concesse da un sindacato subalterno alle logiche del mercato e agli interessi imprenditoriali, e le leggi Treu e Biagi, volute da governi di centro”sinistra” e centrodestra, che hanno precarizzato il lavoro, permetteranno ancora di più al padronato di far leva sul ricatto occupazionale, con le logiche conseguenze sul piano delle prestazioni lavorative. Turni massacranti, straordinari, lavoro festivo faranno il paio con un ulteriore aumento del lavoro nero e sottopagato.
Quanto sta avvenendo con la liberalizzazione degli orari nel commercio, risponde alla stessa logica mercantile che sta seguendo la Fiat di Marchionne, che prevede sviluppo e occupazione solo a condizione dell’azzeramento dei contratti nazionali di lavoro, del diritto di sciopero, della malattia, delle pause dopo nastri lavorativi di otto ore, ecc. Solo dopo, cioè, la sconfitta dei lavoratori e la cacciata dalle fabbriche e dai luoghi di lavoro, di quei sindacati che come la Fiom e l’Usb si oppongono a questo piano padronale.
Contrastare e battere questo disegno liberista in tutte le maniere in cui si manifesta, significa lottare per una democrazia basata sulla libertà dell’individuo e non su quella dell’impresa e del mercato.
Significa battersi per la libertà. E'questo un impegno cui non ci si può sottrarre.

lunedì 27 febbraio 2012

Altro che coesione nazionale è di massacro sociale

Dai dati Eurostat, pubblicati nel rapporto “Labour market statistics “, riferiti ad aziende con almeno 10 dipendenti, emerge la classifica dei redditi percepiti dai lavoratori europei nel 2009.
Il dato che spicca riguarda il reddito che guadagna un lavoratore italiano confrontato con quello dei suoi colleghi europei, nell'anno di riferimento, 23.406 euro lordi: pari a circa la metà di quello che in Lussemburgo guadagna un operaio di pari qualifica (48.914), in Olanda (44.412) o Germania (41.100). Seguono in Irlanda (39.858), Finlandia (39.197) Francia (33.574) e Austria (33.384). E’ sorprendente anche il livello di reddito più elevato dei lavoratori di due Paesi in grave difficoltà economica, come la Grecia (29.160) e la Spagna (26.316) cui fa seguito Cipro (24.775), rispetto quello dei corrispettivi italiani.
Tutte le panzane, che ci hanno raccontato i soloni e i “tecnici” interessati dell’economia, i fanatici della competitività e del mercato, per spiegarci che per salvare l’Italia, i lavoratori dovevano accettare le compatibilità capitaliste e con esse rinunciare ai diritti consolidati, dal sistema pensionistico e alle pensioni di anzianità, a un salario equo e al passo con l’inflazione e a un posto fisso, si dimostrano per quello che sono false e interessate.
False perché con il finto pretesto della competitività globale, il padronato italiano, aiutato da un sindacato subalterno e asservito e da un centro”sinistra” che ha sposato le teorie del libero mercato, ha ottenuto un gigantesco spostamento di ricchezza a suo favore.
Non sono quindi i redditi dei lavoratori né i diritti sociali e contrattuali di cui essi usufruivano, sui quali è stata scatenata una infamante e bieca propaganda, ad aver creato il baratro del debito pubblico italiano.
Altri paesi capitalisti europei, soggetti anch’essi dello stesso mercato, con gli stessi problemi di competitività globale, hanno economie più forti della nostra e i lavoratori redditi dignitosi.
La situazione della Germania è indicativa: I lavoratori tedeschi, a parità di qualifica e di lavoro, percepiscono redditi pari circa al doppio di quelli dei lavoratori italiani. Nonostante questo l’economia tedesca non è al tracollo, anzi cresce, non solo è competitiva, detta legge.
Completa il quadro il dato relativo la pressione fiscale in Europa: L’Italia non è né quinta, né settima, ma sempre e invariabilmente prima o almeno sul podio delle prime tre in classifica, con una pressione fiscale, che grava prevalentemente se non esclusivamente sui redditi fissi, pari al 51,6%.
I richiami alla coesione nazionale lanciati dalle più alte cariche istituzionali mentre era, ed è, in atto un forsennato attacco agli interessi e diritti dei lavoratori, sono come meschini tentativi, in base ad un presunto interesse nazionale per far digerire altri sacrifici a lavoratori e pensionati italiani.
Davanti a questi dati è illuminante la dichiarazione rilasciata dal Ministro del Lavoro Fornero, tuttora impegnata a “riformare” le regole del “mercato del lavoro”: In Italia abbiamo "salari bassi e un costo del lavoro comparativamente elevato. Bisogna scardinare questa situazione, soprattutto aumentando la produttività".
Questo Ministro “tecnico” non si arrende neanche davanti all’evidenza e tenta di volgere la realtà emersa a favore delle imprese e del padronato. Per il Ministro, infatti, i salari sono bassi, non per l’ingordigia e la prepotenza del padronato italiano, ma perché taglieggiati da un costo del lavoro troppo elevato.
La ricetta che propone perciò non è ne costringere il padronato a pagare di più, ne abbassare il costo del lavoro e il carico per i lavoratori, diminuendo le tasse e i contributi previdenziali in busta paga, ma …. aumentare la produttività.
In soldoni il padronato può tranquillamente continuare a sottopagare e i lavoratori italiani, se vogliono guadagnare di più, devono lavorare e sudare di più.
Questa ricetta è tipicamente di parte e risponde agli interessi del padronato altro che proposta di un tecnico al di fuori delle parti.

Dobbiamo dire basta a questi “tecnici” di cui si servono i ricchi, i sindacati e i partiti filo padronali per non sporcarsi direttamente le mani.
Le loro ricette non servono per l’interesse del Paese ma di quella parte di società di padroni, ricchi, speculatori, evasori e corrotti che con la scusa dell’emergenza vogliono continuare nell’opera di arricchimento e assestare il colpo definitivo ai redditi e ai diritti dei lavoratori italiani.

mercoledì 22 febbraio 2012

Invidia sociale o superbia sociale

Due episodi hanno evidenziato la violenza dello scontro sociale in atto in Italia. Al solito buonismo e alla solita ipocrita demagogia, che in genere assume chi è impegnato nell’opera di scaricare la crisi sui discriminati, negli ultimi due giorni si sono sostituiti atteggiamenti dettati da autentico livore e odio di classe.
Il primo episodio vede la Presidente di Confindustria Emma Marcegaglia affermare testualmente:
”Noi non vogliamo abolire l'articolo 18, il reintegro deve rimanere per i casi discriminatori (che evidentemente ci sono), ma vogliamo poter licenziare le persone che non fanno bene il loro mestiere”. Ha poi aggiunto rivolta ai sindacati: “Vorremmo avere un sindacato che non protegge assenteisti cronici, ladri e quelli che non fanno il loro lavoro”.

Il padronato italiano rivendica il potere di decidere insindacabilmente chi nelle aziende si macchia del crimine di assenteista cronico o chi, addirittura sia ladro, magari istituendo delle mini prigioni aziendali o ripristinando il metodo delle punizioni corporali.
La cosiddetta “riforma del mercato del lavoro”, per la Confindustria, che per l’occasione getta la maschera, a questo deve servire: Ripristinare il dominio e l’arbitrio assoluto del padrone anche nei posti di lavoro con più di quindici dipendenti. Non altro. Con buona pace di chi sta per perdere un lavoro o di chi un lavoro non ha e aveva qualche attesa nella trattativa.
Per ottenere lo scopo la Presidente degli industriali italiani individua i soggetti sociali da indicare al disprezzo dell’opinione pubblica: Sono i lavoratori che non lavorano e non fanno il loro dovere, si assentano e rubano. Sono loro i responsabili della crisi. Sono loro che non permettono alle ottime aziende di riprendersi e di assumere rilanciando l’economia del Paese.
L’attacco della Marcegaglia bruscamente interrompe il torpore buonista dell’interclassismo politico, sindacale e padronale e smentisce coloro che hanno attribuito alla Confindustria il ruolo di parte sociale. I padroni non sono buoni, sono padroni. Il loro fine è il profitto attraverso ogni mezzo e senza scrupoli, altro che storie.
Non hanno avuto scrupoli quei padroni che hanno costretto a lavorare in ambienti molto pericolosi e a morire migliaia di lavoratori (e le sentenze di questi giorni ce ne danno conto). Non hanno scrupoli i padroni che chiudono le loro fabbriche, pur produttive e in attivo e licenziano in Italia per trasferirsi in aree con manodopera a costi più bassi e più alti profitti. Non hanno scrupoli i padroni che precarizzano i propri dipendenti o assumono solo precari che derubano del presente e del futuro per guadagnare di più. Non hanno scrupoli nel licenziare per malattia o maternità o infortunio, nel discriminare o perseguitare secondo opinioni politiche o sindacali. Non hanno scrupoli nel dare tangenti a un sistema di politici asserviti, né a evadere le tasse o a fare e godere di insultanti scudi fiscali. Non hanno scrupoli a inquinare scaricando per risparmiare nell’ambiente i rifiuti tossici abusivamente. Non hanno scrupoli a imporre un sistema di sviluppo basato sui consumi più sfrenati e inutili. Non hanno scrupoli a imporre condizioni di lavoro insopportabili, togliere diritti, tagliare salari, cancellare dai posti di lavoro i sindacati più combattivi e licenziare i lavoratori più sindacalizzati.
Non hanno avuto scrupoli a pretendere, con la collaborazione di una sinistra che ha tradito, i tagli alle pensioni, gli insopportabili aumenti di tasse per i redditi fissi e l’azzeramento dello stato sociale.
I padroni pretendono di imporre sacrifici intollerabili ai lavoratori e al Paese mentre loro continuano ad aumentare i propri profitti e capitali cresciuti in maniera esponenziale a differenza dei redditi fissi che sono tracollati.
Oggi alcuni di essi si fanno anche belli agli occhi dell’opinione pubblica, pubblicando i propri redditi. Si tratta del secondo episodio.
Abbiamo appreso ufficialmente che siamo governati da paperoni. Nel 2011 i ministri “più poveri” dichiarano redditi di centinaia di migliaia di euro mentre i più ricchi sono ben oltre i dieci milioni di euro.
Sono proprio costoro, ricchi sfondati, che impongono la tassa sulla prima casa, che aumentano l’iva e le accise sulla benzina. Sono loro che costringono a restare a lavorare fino a 70 anni, con pensioni da fame. Sono loro che tagliano lo stato sociale e tolgono diritti e servizi. Sono loro che, da “tecnici” si sono arrogati arbitrariamente il ruolo di censori e di moralizzatori a differenza dei lavoratori spreconi che hanno provocato il debito pubblico e pretendono ancora trattamenti che lo Stato non può più permettere.
"Si deve dire che chi guadagna e paga le tasse non è un peccatore, e va guardato con benevolenza, non con invidia". E’ quanto ha detto, riprendendo uno degli slogan di un altro paperone milionario, il ministro della Giustizia Paola Severino rispondendo ai giornalisti che le ricordavano che il suo reddito dichiarato è il più alto fra quelli dei ministri. “Chi produce redditi in nero - ha aggiunto il ministro - deve essere considerato in termini negativi, ma chi guadagna e paga le tasse deve essere guardato positivamente”.
Questo è stato l’insulto più significativo. La Ministra paga le tasse, forse vuole una medaglia. Non s’interroga però sulla moralità dei suoi guadagni e delle sue ricchezze. Com’è possibile considerare giusto ed equo che esistano soggetti cui è possibile guadagnare in un anno cifre enormi, mentre ad altri non è permesso affatto guadagnare o guadagnare a sufficienza per vivere?
Perché chi ha trattamenti economici milionari invece di colpire chi può pagare, si accanisce contro i più deboli e discriminati? Qual è la morale? Quale l’etica?
Lo spiega la ministra Severino: Le differenze sociali e di classe.
Per tutti questi paperoni è morale che a pagare siano i pensionati a cui è giusto perfino togliere l’adeguamento della pensione da lavoro al costo della vita, per un importo di circa 29 euro mensili. Non sarebbe stato più giusto che a decidere i tagli e i sacrifici fossero stati non dei nababbi che non hanno problemi, ma cittadini privi di tali patrimoni?
Invece accade che solo i lavoratori, i pensionati e i disoccupati devono pagare e se protestano, per la loro condizione contro questi scandali economici, è perché sono mossi da invidia sociale e di classe.
Siamo davanti ad una classe arrogante, ricca e privilegiata che vuole imporre ai discriminati i suoi interessi e li vuole convincere che i disoccupati e gli affamati possono e debbono coesistere e convivere pacificamente e senza protestare con chi vive nel benessere come ricchi e nababbi onesti che, bontà loro pagano le tasse.
No, non si tratta di invidia di classe dei lavoratori, ma di superbia di classe di chi è ricco e capitalista.