domenica 28 novembre 2010

La vera posta in gioco (parte prima)

La situazione politica e quanto avviene nel Paese, per ultimo la manifestazione della Cgil di ieri, richiedono un’attenta e approfondita analisi degli interessi economici e sociali che i vari soggetti politici rappresentano e tutelano e sui quali intessono le loro concrete strategie. Tutto questo al di là di affermazioni demagogiche, fatte per ottenere consensi a buon mercato.
Nella manifestazione nazionale della Cgil di ieri, sia da parte del sindacato stesso, sia da parte dei manifestanti con i loro slogan che da parte dei “politici”, è stato rappresentato l’insieme dei problemi che riguardano i discriminati, che i partiti e la Cgil dichiarano di rappresentare e difendere. O, almeno, danno a intendere di essere interessati a farlo.
Un aspetto fra quelli più richiamati è stato senza dubbio l’unità dei lavoratori e dei partiti che a loro si richiamano, o che comunque sono all’opposizione. Unità che avrebbe come scopo immediato la cacciata del governo e prima di tutto del suo leader.
Sarebbe ben difficile non essere d’accordo su questo punto: più forte è la spallata più certa e rapida è la cancellazione di questo esecutivo.
Berlusconi è il rappresentante politico, al di là delle ”note di colore” o delle vicende da gossip, che ha rappresentato gli interessi padronali e della Confindustria (e di se stesso) in maniera più aperta, riuscendo a stravolgere il sistema politico e sindacale nel paese. Quello che è peggio e che l’ha fatto con il consenso dei cittadini, grazie alla sua demagogia populista, alle sue televisioni e ai suoi giornali. Berlusconi è stato capace di far prevalere nella società italiana e tra i cittadini i suoi valori e quelli tradizionalmente propri del padronato più becero e arretrato. Berlusconi ha saputo imporre a un popolo di disoccupati e di affamati, bastonati a colpi di salari bassi, contratti a progetto e lavoro nero, i “valori” tipici delle società "liberali", all’interno delle quali le libertà e il benessere ci sono e sono tutti e solo per i "meritevoli". O meglio quelli che intende lui: gli altri si possono pure arrangiare.
Tutto ciò è stato però possibile perché il suo neoliberismo ha trovato non solo campo libero, ma il sostanziale e diretto sostegno dei partiti della “sinistra”, che a questa filosofia si sono convertiti.
La cartina tornasole di ciò è rappresentata dal tipo di “contrasto” e dagli argomenti su cui quest’opposizione si è concretizzata. “Opposizione” al soggetto Berlusconi e al suo governo. Non però delle sue politiche, in primo luogo in materia economica e sociale.

domenica 21 novembre 2010

La guerra in Afghanistan finisce. Anzi continua

Sarebbe stato auspicabile che con la riunione della Nato tenutasi in Portogallo si fosse posta la parola fine a quella che, oggi, viene apertamente chiamata guerra in Afghanistan. Questo a maggior ragione dopo le rivelazioni fatte “sull’intervento”, che dura da quasi nove anni, dal fondatore di Wikileaks, che ha diffuso notizie riguardanti le innumerevoli vittime civili, da alcuni ritenute semplici "effetti collaterali dell’intervento umanitario".
Le premesse non erano certo buone. Non si capisce perché di questa “azione umanitaria” se ne debba occupare un’alleanza di alcuni paesi e non l’Onu nella sua interezza. Tanto più se si considera che è un'alleanza militare, residuo della guerra fredda tra Usa e Urss, che oggi non avrebbe senso di esistere essendo venuto meno “l’interlocutore”, vista la scomparsa dell’impero sovietico.
Nella riunione Nato è stato deciso senza contraddittorio che “l’azione umanitaria” terminerà alla fine del 2014 (come chiesto dal presidente Karzai), avendo come obiettivo il completamento del passaggio delle consegne sul terreno militare agli afghani. Il segretario Nato, Anders Fogh Rasmussen, ha però chiarito ieri che “truppe internazionali” rimarranno anche “dopo il 2014, però non con una missione di combattimento (che ora evidentemente hanno), bensì di appoggio, che comprenderà la formazione delle forze di sicurezza nazionali”.
Annunciano l’inizio della fine della missione di combattimento, invece decidono il suo proseguimento a tempo indeterminato.
A questo si aggiunge la dichiarazione del presidente del consiglio italiano Berlusconi, che ha sottolineato: “L'Italia è presente in Afghanistan fin dall'inizio (nove anni) e ultimamente ci è stato chiesto dal presidente americano Obama e dal segretario generale della Nato Rasmussen un aumento del numero degli addestratori. Aumenteremo questo numero di altri duecento”.
Dal canto suo il ministro degli esteri Frattini ha aggiunto trionfante: ”Con i nuovi apporti l'Italia diventa la nazione che ha il numero più elevato di addestratori dopo gli Usa”, occupando il terzo posto in classifica per quanto riguarda le operazioni “di pace”, dopo Usa e Regno Unito, insieme a Francia e Germania.
Evviva. Evviva l’intervento umanitario. Evviva le forze di pace (militari) della Nato e dell’occidente. Peccato che avevano detto che l’intervento in Afghanistan era temporaneo e di natura “umanitaria” per l’affermazione della “democrazia”, contro il sopruso quotidiano dei talebani e di al Qaeda, che imponevano un’islamizzazione estremistica e terrorista di quella realtà.
Per convincerci hanno mostrato gli aspetti, che pure ci sono, più intollerabili e inaccettabili, come le esecuzioni sommarie, le punizioni corporali, le umiliazioni alle donne afghane, la distruzione della cultura.
Le bombe “democratiche” della coalizione della Nato, di cui l’Italia fa parte in misura crescente, sono forse più tollerabili di tutto ciò? Forse per le vittime della guerra fa differenza sapere qual è il colore della bandiera di chi ti uccide? Sarebbe sbagliato affermare che forse gli afghani avrebbero fatto a meno dell’intervento “umanitario” della Nato?
Davanti a tutto ciò è assordante il silenzio “dell’opposizione” italiana che si ostina a chiamarsi, geograficamente e non politicamente, di sinistra.

Iraq, Afghanistan.



Interventi umanitari.

martedì 16 novembre 2010

Bersani e l'elenco dei valori di sinistra traditi

L’altra sera, in un programma televisivo, sono comparsi due "politici" che avevano un’unica preoccupazione e presunzione: quella di accreditarsi come campioni degli schieramenti (destra e "sinistra"), rivendicandone di diritto la rappresentanza e la "moderna" interpretazione della rispettiva "evoluzione".
Occupandoci della pretesa di Bersani, segretario del Partito democratico, a essere il legittimo rappresentante della sinistra in Parlamento, verrebbe da chiedersi di quale sinistra pensi di essere paladino lo stesso e a quale titolo ne rivendichi la rappresentanza. A meno che la sinistra, per costui, non sia solo una sistemazione geografica nelle aule parlamentari.
Storicamente collocarsi a sinistra ha significato stare dalla parte dei lavoratori e dei discriminati (cioè della loro classe) e battersi per l’uguaglianza, la libertà e l’emancipazione dallo sfruttamento. Opporsi di netto, quindi, all’ingiustizia sociale e al privilegio che il profitto e il mercato generano.
Bersani singolarmente pretende di essere titolare della rappresentanza dei lavoratori, insieme a quella dei padroni. Pretende, inoltre, che “l’evoluzione” politica del Partito democratico di cui è segretario faccia diventare di sinistra ciò che invece, nei fatti, non lo è.
Il Pd è, nella realtà, un neo-partito interclassista che si occupa di un mondo idilliaco dove possano tranquillamente e legittimamente coesistere oppressi e discriminati (lavoratori, disoccupati, precari e pensionati al minimo) con miliardari e capitalisti, perché anche questi ultimi si rendano conto che ”nessuno può stare bene da solo: stai bene se anche gli altri stanno un po’ (!) bene”; per questo sostiene Bersani: “Ci vuole un mercato che funzioni”. Certo, dovrebbe spiegarlo soprattutto a Marchionne o ai proprietari delle aziende che delocalizzano (ed evadono, sfruttano, monopolizzano ecc).
Bersani predica la rassegnazione, la subalternità economica e culturale della classe operaia e pretende di farlo come leader della sinistra, immaginando un mondo idealizzato e inesistente, in cui possano felicemente convivere il capitalista e il precario, il miliardario e il disoccupato, il privilegio e l’ingiustizia sociale, il forte e il debole, il profittatore e lo sfruttato. Tutto ciò auspicando non che i ricchi e i padroni rinuncino alle loro ricchezze, ma che ne lascino di buon cuore un po’ ai proletari (esistono ancora nei fatti, solo che non possono permettrsi neanche i figli ormai).
Per Bersani sostenere le teorie interclassiste (che furono proprie della defunta Democrazia cristiana) e farle diventare il fulcro della propria azione politica non significa tradire i discriminati, ma fare una politica di sinistra; usurpando, per soli fini elettorali, uno spazio politico cui non ha più diritto. Contribuire ad alimentare tale equivoco significa diventare complici della mistificazione.
Quali gli obiettivi da elencare per una sinistra realmente dalla parte dei lavoratori e degli ultimi? Lavoro garantito per i disoccupati e un reddito per tutti sufficiente e dignitoso (anche con il ripristino del meccanismo d’indicizzazione dei salari: la scala mobile); abolizione del precariato e delle leggi che lo permettono (Treu e Biagi); divieto di delocalizzazione delle aziende e penalizzazione, anche fiscale, per chi lo ha realizzato; abolizione delle “riforme” pensionistiche (Dini, Prodi e Berlusconi); no alla sanità privata, si a quella pubblica gratuita e uguale per tutti; no ai finanziamenti pubblici delle scuole private e dei partiti; si a una stampa e a un’informazione democratica, togliendola dalle mani dei politici-editori; tutela e non rapina dell’ambiente; cessazione immediata di ogni intervento militare armato dell’Italia in qualsiasi area del mondo. Senza dimenticare di realizzare un sistema fiscale che liberi i redditi fissi e colpisca, in maniera adeguata e progressiva, le grandi ricchezze, le rendite parassitarie e i profitti. Come inizio di cose di sinistra può bastare.

venerdì 12 novembre 2010

“Riformisti” al lavoro al soldo dei padroni

L’aggressione alle conquiste dei lavoratori da parte del padronato e del Governo sta conoscendo una nuova fase. L’attuale Ministro del lavoro del Governo di centrodestra ed ex socialista (?) Sacconi, ha sostenuto che: ”L’attuale centralismo regolatorio di matrice pubblicista e statalista riflette assetti di produzione propri della vecchia economia”. Per questo si sta tentando di sostituire allo Statuto dei diritti dei lavoratori il “moderno” modello conosciuto come “accordo di Pomigliano”, che nega diritti costituzionali e lascia libero arbitrio al padronato, con la pretesa di migliorare la competitività delle aziende attraverso l’abbattimento dei diritti conquistati dai lavoratori nel corso di decenni. Tutto ciò attraverso un disegno di legge delega, di due articoli, che affida al Governo il compito di riscrivere il diritto del lavoro.
Il principio fondamentale, scritto nell’articolo uno del testo proposto, indica che la nuova legge è fatta “al fine di incoraggiare una maggiore propensione ad assumere e un migliore adattamento tra le esigenze del lavoro e quelle dell’impresa”. Sacconi punta a eliminare buona parte delle oltre mille leggi che “pesano” sul mercato del lavoro. Accanto all’obiettivo della semplificazione c’è quello di un mercato del lavoro sempre più libero (per chi?).
Il principio ispiratore del provvedimento sembra essere quello che ispirava il meccanismo dei Fasci e delle Corporazioni. L’idea fondamentale è, infatti, quella di una pretesa affinità e convergenza d’interessi tra imprese e lavoratori, con la conseguente necessità di una gestione “coordinata e armonica” (?) degli interessi dei lavoratori e dei padroni. In pratica, si legge nel testo di legge che il ministro ha presentato ieri nel corso di una conferenza stampa, gli unici diritti universali e indisponibili del lavoratore, garantiti dalla legge, rimarranno quelli scritti nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. Si tratta per esempio del divieto di schiavitù e di tratta degli esseri umani, del diritto di sciopero e del diritto al giorno di riposo settimanale, oltre che alla parità tra uomini e donne e del divieto del lavoro minorile. A tutti gli altri principi stabiliti dall’attuale legislazione italiana, si potrà, con lo Statuto dei Lavori, derogare. A partire dall’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori, quello che di fatto vieta il licenziamento senza giusta causa nelle aziende con più di 15 dipendenti. Questo perché, secondo Sacconi, ”non rientra tra i diritti fondamentali, tanto che non è applicato a tutti i lavoratori”.
Invece di estendere l’applicazione di quest’articolo a tutti i lavoratori a prescindere dal numero dei dipendenti, perché tutela il diritto di ogni lavoratore a non essere licenziato che per giusta causa e non per arbitrio padronale, tale diritto è definitivamente cancellato.
Il testo predisposto da Sacconi prevede inoltre la “possibilità per la contrattazione collettiva di una loro modulazione e promozione nei settori, nelle aziende e nei territori, anche in deroga alle norme di legge, valorizzando il ruolo e le funzioni degli organismi bilaterali”. Organismi bilaterali che sono sostanzialmente una riedizione della Camera delle Corporazioni: le parti sociali, datori di lavoro e sindacati, di fatto legiferano sul mercato del lavoro. Il progetto di Sacconi indica anche gli indici che questa contrattazione/normazione dovrà seguire: “Andamento economico dell’impresa, del territorio o del settore di riferimento”; “caratteristica e tipologia del datore di lavoro”; “caratteristiche del lavoratore con specifico riferimento all’anzianità continuativa di servizio, alla professionalità o all’appartenenza a gruppi svantaggiati”; modalità di esecuzione dell’attività lavorativa autonoma e coordinata con un solo committente”; “finalità del contratto con riferimento alla valenza formativa o d’inserimento al lavoro”.
Per i lavoratori sarà pertanto prassi, a differenza di quanto sarebbe giusto (a parità di lavoro, parità di salario), la frammentazione salariale e normativa dei loro trattamenti e delle loro condizioni di lavoro. Accadrà cioè che due lavoratori che svolgono il medesimo lavoro per la stessa quantità di ore percepiranno salari diversi secondo l’azienda in cui si trovano a lavorare. Con buona pace della contrattazione collettiva.
Altro importante e illuminante aspetto del disegno è quello relativo al ruolo assegnato “ai rappresentanti dei lavoratori” (il sindacato). Essi diventano “gestori paritetici” e attori del “buon andamento aziendale” e saranno, così, totalmente e definitivamente sganciati dal rapporto e dal controllo dei lavoratori. Perché semplicemente non li rappresenteranno più.
Il disegno di legge quindi punta a realizzare un sistema di “diritti” dei lavoratori tutto subalterno agli interessi del mercato, della competitività (tutta incentrata sulla compressione dei salari e dei diritti) e quindi del padronato.
Davanti a ciò, invece di mobilitarsi e mobilitare i lavoratori, il sindacato sostanzialmente condivide. Così esplicitamente fa la Cisl, mentre la Cgil inizia la solita farsa di una fumosa “opposizione” a parole (ma senza alcuna iniziativa di protesta) e che, come sempre, non produrrà alcun effetto e non bloccherà l’azione “innovatrice” e “riformatrice” del Governo e del padronato.

lunedì 8 novembre 2010

Lo sciopero di lor signori

E' rivolta tra gli industriali vicentini: ”I danni del maltempo sono vasti e gravi e, se gli aiuti non arriveranno, se il Veneto continuerà a essere lasciato solo, sarà rivolta fiscale”. La promessa, che suona come una minaccia, è arrivata dal vicepresidente degli imprenditori della provincia Luciano Vescovi, in un'intervista a Radio 24. “Questa volta non passa - ha detto -. Se il sostegno alle imprese e ai cittadini vicentini non ci sarà da parte dello Stato, noi non pagheremo le tasse”.
Quando si tratta di non pagare le tasse tutti i pretesti sono buoni per gli “imprenditori” che chiamano a raccolta e solidarietà (novelli populisti) anche i cittadini e i lavoratori, per protestare contro il Governo e per ottenere indennizzi e finanziamenti a causa dei danni subiti dopo le ultime avversità meteorologiche.
Certamente il maltempo ha provocato dei danni che andranno riparati. Gli industriali veneti però, non fanno come un qualsiasi imprenditore del tanto vituperato Mezzogiorno assistito che si limita a chiedere. Loro non chiedono, pretendono. Se lo Stato non interviene pronta cassa smetteranno di pagare le tasse (come fosse una novità per molti di loro), estendendo l’invito a fare altrettanto a tutti i veneti.
Non tutti i veneti però, pur magari volendolo, potranno fare ciò. L’art. 53 della Costituzione stabilisce che: ”Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva. Il sistema tributario è informato a criteri di progressività”. E’ dovere per il cittadino italiano pertanto pagare le tasse. Questo però non è in via di principio subordinato alla condivisione delle politiche del governo italiano in nessuna materia, tantomeno in quella economica e fiscale, come danno a intendere gli industriali veneti.
La loro pretesa di non pagare le tasse e fare uno sciopero fiscale, in caso di mancati interventi pubblici, potrebbe essere un’originale forma di protesta. Solo che questa non è attuabile proprio dai soliti vessati: i contribuenti a reddito fisso, come dipendenti e pensionati.
A differenza degli imprenditori, infatti, i cittadini a reddito fisso, non possono effettuare alcuna protesta fiscale, né tantomeno alcuno sciopero fiscale
. Il sostituto d’imposta provvede per loro a versare le varie Irpef, per Stato ed Enti locali, mentre per le tasse indirette (come l'Iva) provvede direttamente il commerciante a trattenere. I quattrini riservati per tasse entrano solo figurativamente nei prospetti paga, non nelle tasche dei redditi fissi. I soliti poveri cristi pertanto non potranno fare alcuno sciopero fiscale come sollecitato dagli industriali, i quali tra l’altro, come sostituti d’imposta, sanno bene come funziona il fisco in Italia.
Per gli imprenditori pagare le tasse è sostanzialmente un optional. Essi non pagano il fisco anticipatamente e sul salario o pensione percepito (come dipendenti e pensionati), ma successivamente. E non sul reale percepito ma solo su quello che dichiarano. Il gioco, per loro, è possibile, facile e conveniente. Anzi a questo punto qualsiasi pretesto per non pagare le tasse è buono.
Cosa succederebbe se i lavoratori dipendenti e i pensionati aprissero gli occhi e imparassero a fare come gli imprenditori veneti, chiedendo l’abolizione del sostituto d’imposta per pagare anche loro le tasse su dichiarazione e solo se soddisfatti del governo? In questo modo si potrebbe, se c’è un qualche motivo di protesta verso il comportamento dell'amministrazione di turno, evitare almeno di pagare le tasse: c’è disoccupazione? C’è lavoro precario? Cancellano diritti costituzionali e ci tolgono la libertà? Istituiscono ticket sulle medicine? Privatizzano la scuola? (ecc, ecc, ecc). Allora sciopero fiscale. Si abbatterebbe almeno un’altra insultante e odiosa discriminazione.

venerdì 5 novembre 2010

Diritto al lavoro? No, diritto al profitto

Il governatore della Banca d’Italia, nel suo intervento al convegno della Facoltà di Economia dell’Università Politecnica di Ancona ha detto, testualmente, che l’Italia rischia di “trovarsi di fronte a un bivio” tra stagnazione e crescita, con i giovani che corrono i maggiori rischi, anche perché la mobilità sociale nel nostro Paese è tra i livelli più bassi in Europa.
“L’economia italiana fatica a crescere e per questo non bisogna smettere di preoccuparsi” ha affermato Draghi, per il quale la difficoltà dell’economia italiana sta sia nella mancata crescita che nell'incapacità per la stessa di produrre reddito. “Dobbiamo ancora valutare - ha aggiunto il governatore - gli effetti della recessione sulla nostra struttura produttiva. È possibile che lo shock della crisi abbia accelerato la ristrutturazione almeno di parti del sistema, accrescendone efficienza e competitività; è possibile un semplice, lento ritorno al passo ridotto degli anni pre-crisi; è anche possibile un percorso più negativo”.
“Nel mercato del lavoro - ha detto il governatore - il dualismo si è accentuato. Rimane diffusa l’occupazione irregolare, stimata dall’Istat in circa il 12 per cento del totale delle unità di lavoro. Le riforme attuate, diffondendo l’uso di contratti a termine, hanno incoraggiato l’impiego del lavoro, portando ad aumentare l’occupazione negli anni precedenti la crisi, più che nei maggiori Paesi dell’area dell’euro”. “Ma senza la prospettiva - ha concluso il governatore - di una pur graduale stabilizzazione dei rapporti di lavoro precari, s’indebolisce l’accumulazione di capitale umano specifico, con effetti alla lunga negativi su produttività e profittabilità”.
Quello che era emerso dalle prime battute di quanto detto da Mario Draghi, massimo responsabile finanziario del capitalismo italiano, avrebbe lasciato interdetto chiunque. Ma come, la flessibilità del lavoro e la sua precarizzazione sono alla base nella "nuova rivoluzione industrial-capitalista" nel mondo occidentale e hanno permesso un’enorme ridistribuzione di reddito a favore dei pochi ricchi imprenditori e il governatore della Banca di Italia che fa, si preoccupa invece dei precari sfruttati, sottopagati, senza diritto e senza futuro? Vuoi vedere che si sono finalmente decisi a riconoscere i diritti dei giovani e dei lavoratori a una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del lavoro svolto o in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un'esistenza libera e dignitosa, come previsto (ma sinora non applicato) dagli articoli 2, 3, 4, 5, 36 e 37 della Costituzione italiana?
Macché: la preoccupazione di Draghi è di evitare il calo di produttività. Per questo è necessario stabilizzare i precari. L'impegno “dell’economista” non è quello di restituire il futuro, la dignità e la libertà ai giovani. Perché di questo sono stati privati a causa della mancanza di un lavoro. E occorre sempre ricordare che, come prevede l’art. 3 della Costituzione: “È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese”; senza dimenticare l'art. 4: “La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto”.
Niente di tutto ciò. Il diritto a un lavoro certo è sollecitato da Draghi perché questo rafforza l’accumulazione e produce effetti positivi su produttività e profittabilità. Altro che folgorazione sulla strada di Damasco! Il governatore si preoccupa di garantire profitto e utili, non più con la precarizzazione del lavoro, che evidentemente ritiene superata per lo scopo, ma con la stabilizzazione dei precari. Magari da sottoporre subito alla cura Marchionne.
E il sindacato che dice? D'accordo con il governatore della Banca d'Italia si è detto il neosegretario generale della Cgil, Susanna Camusso, secondo la quale Draghi "rimette al centro i veri problemi del Paese". "Il futuro dei giovani passa dal lavoro - aggiunge il leader della Cgil - e i primi temi da affrontare sono quelli della stabilizzazione dei rapporti di lavoro precari e della regolarizzazione dell'occupazione". Inoltre, prosegue Camusso, "giustamente Draghi collega la ripresa, oltre che alla stabilizzazione dei precari, anche alla crescita dimensionale delle nostre imprese che rimane ridotta nel confronto internazionale".
Allineato e coperto. C’era forse qualche dubbio?

martedì 2 novembre 2010

Furto aggravato di spazzatura

Due marocchini sono stati denunciati e arrestati per furto aggravato di spazzatura a Capizzone, Bergamo, su iniziativa del sindaco che li ha sorpresi a rovistare nel cassonetto dei rifiuti, di proprietà esclusiva del Comune.
Su una notizia del genere si potrebbero fare molte considerazioni, anche per l’aspetto metaforico che questa vicenda paradossale contiene.
Come non paragonare questo episodio a quanto sta accadendo in Campania, dove tonnellate di immondizia (che nessuno si preoccupa di togliere o tantomeno rubare) marciscono per le strade e tra le case? Come non pensare al rifiuto sacrosanto di quelle popolazioni di continuare a convivere con discariche di cui farebbero volentieri a meno (realizzate in aree protette), che ammorbano l’aria e procurano malattie e morte e delle quali nessuno rivendica la proprietà?
Ma i rifiuti si prestano bene per evocare ben altro tipo di “monnezza” con la quale abbiamo a che fare di questi tempi. Come non paragonare a una discarica l’immondizia sociale, etica e morale degli scandali giudiziari e sessuali che riguardano i potenti di turno, che riescono a evitare una “giustizia” che è così “benevola” nei loro confronti, nonostante le pesantissime accuse in ballo?
La vicenda di Capizzone è emblematica per la palese discriminazione e ingiustizia cui sono stati oggetto i due derelitti. A costoro non è consentito di appropriarsi né delle briciole, né tantomeno degli scarti. Se lo fanno vengono puniti da una “giustizia” implacabile e “severa” nei loro confronti. Tutto ciò mentre ad altri, colpevoli di ben altri ladrocini, è consentito di continuare a farlo, di vantarsi di averlo fatto e di proporsi come esempio per tutti.
Quanto accaduto ai due marocchini, che non avrebbero probabilmente mai immaginato di compiere alcun atto illecito nel cercare tra la spazzatura qualcosa che potesse servire loro, non è l’ultimo curioso e anomalo episodio o l’incidente involontario e maldestro accaduto in un piccolo paese italiano a causa del pazzoide di turno. Quanto accaduto a Capizzone evidenzia meglio di altri fatti l’involuzione sociale, economica e culturale di un Paese, l’Italia, nel quale solo pochi ”fortunati” sono detentori di diritti e libertà non riconosciuti a tutti gli altri cittadini.
I primi sono liberi di sottrarsi alle leggi e alle regole, anzi di farsele su misura: possono utilizzare i beni di tutti a loro vantaggio esclusivo e arricchirsi spropositatamente, mentre tolgono diritti e libertà agli altri licenziando, delocalizzando, privatizzando, precarizzando, cancellando diritti civili, sociali e contrattuali, tagliando pensioni o imponendo ticket. Mentre gli altri non possono che subire tutto ciò. Non c’è stata e non ci sarà alcuna forza pubblica a intervenire a tutela del loro diritto e della loro libertà. Tutto questo fa e deve fare scandalo. Non le “avventure” di qualche inguaribile e patetico despota che può contare su una “opposizione” che si attiva solo su queste vicende, mentre lascia campo libero e condivide tacitamente tutto il resto.
L’assenza di un’opposizione, prima che politica, culturale e di classe a questo sistema, completa il quadro. Quadro che i potenti e i loro lacchè si spendono per far credere e considerare l’unico e il migliore possibile e non come un insieme di regole economiche e sociali, nonché di classe, di cui sarebbe opportuno liberarsi al più presto. O quantomeno ridiscutere.