lunedì 31 maggio 2010

Refusenik, il rifiuto dell'ingiustizia

Alcuni esprimeranno lo sdegno che si conviene. Altri chiederanno timide spiegazioni. Gli Usa ci fanno già sapere che provano "rammarico". Molti gireranno come sempre lo sguardo. Poi occupanti e filo-tali racconteranno le solite storie rigirando una frittata ormai putrida, tacciando di antisemitismo chiunque chieda loro perché fanno strage di cooperanti internazionali. I media faziosi o irreggimentati a dovere impaneranno abbondantemente il tutto per far digerire il boccone a una comunità internazionale che sta marcendo. Come la sua coscienza. Presto ricorderemo le ricorrenze candelabrodovute cospargendoci il capo di cenere.
Di fronte all'ennesimo massacro contro la Palestina e la sua storia tutto questo non conta nulla. La sola cosa che importa sono questi morti. E l'unica consolazione possibile: il rifiuto dell'ingiustizia.



"Lo sai amore, io ancora non so
che cosa voglia dire uccidere un uomo,
gli porti via tutto quello che ha
le sue speranze e i suoi ricordi vivi"

(Il Teatro degli Orrori, "Refusenik")

(Refusenik è ispirata alle vicende degli obiettori di coscienza israeliani che rifiutano di imbracciare le armi in segno di protesta contro l'occupazione dei territori palestinesi).

Israele, la spietata democrazia del più forte

Ancora una volta si manifesta con chiarezza la brutalità indiscriminata della condotta di Israele verso il popolo palestinese. Non contento di “colonizzare” (leggi rubare) la terra a quel popolo, si erge a gendarme imponendo con la forza il suo interesse e la sua prepotenza. Il tutto col tacito sostegno dei paesi occidentali, Stati Uniti in prima fila.
Israele, una nazione raccontata “civile” e “democratica” anche se usa le armi in maniera preventiva, perfino contro una missione umanitaria uccidendo, a quanto è dato sapere finora 19 operatori e ferendone altri trenta. Tutti appartenenti ad organizzazioni non governative.
La missione, cui erano coinvolti insieme ad altre centinaia di partecipanti cinque parlamentari (di Irlanda, Italia, Svezia, Norvegia e Bulgaria), era stata organizzata nel tentativo di consegnare ai palestinesi, incarcerati dagli israeliani nella striscia di Gaza, 10mila tonnellate di aiuti umanitari. Tra questi cemento, medicine, generi alimentari, e altri beni fondamentali per la popolazione di Gaza. Inoltre anche case prefabbricate e 500 sedie a rotelle elettriche.
L’atto umanitario delle Ong è stato visto dagli israeliani come un tentativo di forzare l’embargo da loro imposto, con l’uso delle armi, ai palestinesi. Questi ultimi sono accusati di essere terroristi perché, tramite libere elezioni interne hanno scelto di farsi governare da Hamas, una organizzazione considerata dagli israeliani, appunto, terrorista.
Non hanno più il senso della misura! Intervenire, a quanto è dato sapere, nelle acque internazionali, con soldati in assetto di guerra, armati di tutto punto, contro una flottiglia di navi (alcune delle quali battenti bandiera turca) e causare una strage è considerato, dal governo israeliano legittimo e non un atto di pirateria o di terrorismo.
Siamo all’assurdo: un popolo, quello israeliano, confina con un altro popolo, quello palestinese, nel mentre gli sottrae con le colonizzazioni, la propria terra. Tutto questo senza che nessuno dei campioni della “democrazia” e della lotta al terrorismo abbia nulla da ridire. Quegli stessi paesi occidentali, compresa l’Italia, intervenuti con le armi in altre aree del mondo proprio per "salvare la democrazia e proteggerci dal terrorismo”. Ma quest'attacco non è terrorismo? E vediamo se stavolta la Farnesina esprimerà un giudizio inequivocabile o si limiterà a verificare la sorte degli italiani coinvolti.
Di fronte all'ingiustizia storica perpetrata contro un popolo intero i paesi occidentali continueranno a considerare come terroristi solo gli atti che vanno contro i propri interessi, difesi con bombe e prepotenza in nome della democrazia del più forte. La spietata legge del più forte.

sabato 29 maggio 2010

Una provocazione, datori di lavoro o padroni?

A partire dalla fine degli anni ’70, con la cosiddetta “svolta dell’Eur” operata da Luciano Lama, è avvenuto un significativo cambiamento: improvvisamente il "padrone" è diventato "datore di lavoro".
Certamente è più "moderno" parlare di datore di lavoro che non di padrone.
Padrone è un termine forte, non gradevole. Padrone è il proprietario di un cane, di un oggetto, di un terreno o di una abitazione. Di tutto questo dispone a suo piacimento, secondo le regole certo, ma in maniera insindacabile e a suo esclusivo vantaggio.
Anche gli schiavi, i servi della gleba avevano un padrone. Essi sapevano bene che, su di loro, il padrone aveva diritto di vita e di morte. Quest'ultimo poteva usufruire dei loro servigi senza essere obbligato a retribuirli in alcuna maniera: in sostanza disponeva di loro, esseri inferiori privi di diritti, a proprio piacimento. Tale status era garantito dalle leggi, fatte da governanti assoluti che intervenivano per il rispetto e il mantenimento dell’ordine basato sul dominio di una classe superiore, detentrice di tutti i diritti, su una inferiore che, invece, ne era completamente priva. Lo schiavo era una persona completamente e involontariamente assoggettata a un'altra. Caratteristiche costitutive della schiavitù erano: la coercizione a svolgere un compito o a prestare un servizio; la riduzione a proprietà esclusiva di un altro essere umano, cioè del padrone; l'assoggettamento completo alla volontà di quest'ultimo.
Quale individuo, oggi, potrebbe tollerare un simile stato di cose?
Lo stato di schiavitù è, nella mente di ogni uomo libero, inaccettabile e insopportabile e, nel tempo, lo schiavismo è stato considerato un crimine odioso lesivo della dignità e libertà di coloro verso il quale è rivolto.
Per lo schiavo salariato la condizione cambia poco. Lo schiavo salariato (o proletario) non è più soggetto a vendita diretta, ma è costretto a autovendere la propria forza-lavoro a un altro soggetto per avere la possibilità, non avendo altro modo, di procurarsi da vivere. Nelle ore di lavoro, lo schiavo salariato, rinuncia alla propria libertà e mette a disposizione di un altro individuo le proprie capacità e la propria autonomia, per poterne trarre da vivere. Egli non è quasi mai nelle condizioni di imporre un prezzo equo alla propria prestazione a causa della mancanza di posti di lavoro e il padrone ne approfitta per imporre le sue condizioni e i suoi interessi. Lo schiavo salariato viene assunto e tenuto al lavoro a condizione che garantisca al padrone un profitto: l'utile è la condizione in assenza della quale, il padrone, non dà nessun lavoro o lo tronca se già esistente.
Mai si è potuto vedere un “datore di lavoro” dare lavoro se ci rimette. E’ la legge del nuovo dio: il mercato! Il padrone ti dà l'opportunità di procurargli profitto. Se non lo fai, non ti dà proprio nulla.
E’, quindi, lo schiavo salariato che dà nel rapporto di lavoro, non il contrario! Egli prima deve garantire un utile o profitto al “datore di lavoro”, poi può lavorare, se gli viene concesso, per procurarsi da vivere. Se però manca l’utile ed il profitto, il padrone non consente allo schiavo salariato di guadagnarsi la paga. Datore di lavoro quindi o usurpatore di profitto e "ladro" del sudore e della libertà altrui.
Modificare l’appellativo da padrone a “datore di lavoro” ha quindi permesso di mistificare su chi veramente dà qualcosa in un rapporto di lavoro dipendente. Una manovra esemplare per cancellare, nell'immaginario collettivo, la consapevolezza che chi è subordinato in un rapporto di lavoro è quasi sempre oggetto di una odiosa, preistorica e incivile sottomissione di classe.
Tutto questo vale solo come provocazione?

venerdì 28 maggio 2010

I padroni della Confindustra

Nel corso dell’ultima assemblea della Confindustria, la presidente dei padroni italiani si è lanciata in una serie di affermazioni e richieste di chiaro stampo classista: 1) taglio degli stipendi dei dipendenti pubblici; 2) aumento dell’età pensionabile; 3) tagli alla sanità; 4) diminuzione delle tasse a imprese e lavoro; 5 ) liberalizzazioni. Soprattutto, la presidente di Confindustria ha chiesto al governo che la politica di “rigore” nella spesa pubblica sia resa strutturale, cioè permanente e non per soli due anni come previsto dalla manovra varata.
Le richieste padronali sono di fatto già state esaudite dal governo, attraverso la “manovra”: i lavoratori del pubblico impiego avranno gli stipendi congelati (anche quelli a redditi prossimi alla soglia di povertà), tutti i lavoratori dipendenti andranno in pensione più tardi, avremo meno ospedali e più ticket sanitari, è stata tolta l’irap per le imprese del sud, mentre non è stata tolta nessuna tassa per i lavoratori e nulla è previsto per l’occupazione. Per quanto riguarda le liberalizzazioni, il padronato italiano è completamente libero di fare o non fare a suo piacimento. Infatti le imprese italiane, ad esempio, pur utilizzando denaro pubblico trasferiscono le proprie attività all’estero. Prendiamo il caso della Fiat, che mette in cassa integrazione migliaia di lavoratori italiani e trasferisce in Canada e altrove parte della sua produzione realizzando, in questo modo, l'esemplare operazione di classe della socializzazione delle perdite e della privatizzazione dei profitti: pago la manodopera quando mi dà utile e la scarico sulla collettività quando ciò non avviene. Tantissime aziende italiane seguono l’esempio, delocalizzando le proprie attività in aree del mondo dove la manodopera costa ancora meno, aumentando lo sfruttamento dei lavoratori con paghe da fame e chiudendo stabilimenti in Italia, con il licenziamento dei lavoratori.
Oppure approfittano di situazioni di crisi, come quella dell’Alitalia, per prendersi a prezzo stracciato la parte di società “sana” che produce profitto (good company) e scaricando sulle spalle della collettività la parte di società improduttiva (bad company).
Nel 2009, in Italia sono stati persi 700mila posti di lavoro e il ricorso alla cassa integrazione è aumentato di sei volte, anche se la produzione è aumentata del sette per cento, dice la presidente di Confindutria. Sorvola su un aspetto importante: se la produzione aumenta e la manodopera diminuisce, vuole dire che meno lavoratori hanno prodotto anche per i licenziati, con verticale abbassamento dei costi per gli imprenditori che continuano a lucrare profitto anche mentre licenziano o mettono in cassa integrazione i dipendenti. Questi ultimi, oltre tutto ciò, debbono pagare anche la politica di “rigore” nella spesa pubblica invocata dalla Confindustria e fatta propria dal governo(!) Ma ciò non basta. Il governo deve rendere permanente la “manovra” attraverso una “riforma”. Evviva i padroni sono diventati riformisti! O controriformisti?
Non hanno bisogno gli industriali di entrare direttamente nel governo, perché centrodestra e centro"sinistra" si contendono i loro favori. Già perché davanti ad una manovra così penalizzante per i lavoratori, pensionati, precari, l’opposizione di centro"sinistra" balbetta e propone misure diverse, che siano però ben in linea con le richieste della Confindustria, della quale contende al centrodestra il consenso e la rappresentatività. Il tutto, naturalmente in un sano e rinato spirito patriottico, cui tutti debbono collaborare accettando anche licenziamenti e tasse. Lo stesso sindacato, se non è addirittura d’accordo con la "manovra", indice uno sciopero generale di quattro ore non subito, ma tra un mese, con manifestazioni territoriali e spezzettate, come suggerisce la Cgil. Impedendo, in questo modo, una risposta adeguata e di massa alla manovra e al governo della Confindustria, nel tentativo di accreditarsi comunque a paladina dei lavoratori, con una iniziativa di “lotta” di facciata che non modificherà nulla.
Centrodestra e centro"sinistra" si rivelano ogni giorno di più schieramenti omologhi e intercambiabili nel gestire queste politiche di “riforma” antipopolari, liberiste e di chiaro stampo classista.
L’operazione del taglio delle province con meno di 220mila abitanti e il taglio delle spese della “politica” (la loro), ben lungi dal far calare la spesa alimentata da raccomandazioni, clientele e favoritismi, serve loro da specchio per le allodole. Il tentativo è quello di strumentalizzare il malcontento verso un ceto politico asservito e troppe volte corrotto e verso un livello di tassazione esorbitante per i redditi fissi, offuscando la realtà: tutto rimarrà come prima, solo che diminuiranno i servizi e si produrrà quella operazione di consenso, cui lavorava la P2, di taglio dei livelli democratici di partecipazione e controllo con l'assenso del popolo.
Occorre smascherare tali disegni e i loro sostenitori, di centrodestra o di centro”sinistra”. Occorre ricostruire un progetto e un modo di pensare diverso e alternativo a quello classista, liberale e padronale che, oggi, prevale nel Paese.

mercoledì 26 maggio 2010

La loro equità

Una delle parole più usate, in questi giorni in cui viene varata l'ennesima "manovra di risanamento dei conti dello Stato", è equità.
Se si va a cercare sul vocabolario il significato della parola equo troviamo due termini: giusto, imparziale.
Viene quindi considerato da chi governa giusto e imparziale, cioè senza privilegi o discriminazioni, un intervento finanziario che prevede, per quanto riguarda le pensioni da lavoro o di vecchiaia, si possa andare in pensione dodici mesi (contro gli attuali nove per effetto del sistema di finestre vigente) dopo la maturazione dei requisiti nel caso di lavoratori dipendenti pubblici e privati.
Con queste poche righe vengono sottratte ulteriori tre mensilità di pensione versate allo Stato. Per una pensione di vecchiaia ci sarà una perdita di circa 1.600 euro. Per una pensione da lavoro (di 1.200 euro mensili) la perdita sarà di circa 4.000 euro.
Ma non avevano detto che non avrebbero messo le mani in tasca agli italiani?
Quanto previsto poi in materia di tagli agli enti locali, con 13,2 miliardi in meno in due anni per regioni, province e comuni, molto probabilmente si trasformerà in riduzioni dei servizi e aumento di ticket sanitari o tariffe pubbliche per i cittadini. Con gravissimo danno per i redditi fissi.
Ancora il blocco dei contratti dei lavoratori del pubblico impiego, i tagli alle pensioni di invalidità, lo stop al turn over, sempre nella pubblica amministrazione (sostituzione di chi va in pensione), il congelamento dell'organico degli insegnanti di sostegno, i nuovi pedaggi sui raccordi per autostrade, ecc. Tutto questo, su quali redditi peserà? Naturalmente su quelli fissi privi di ogni tutela!
La "manovra economica", come al solito, non colpisce i profitti milionari o le rendite finanziarie o le grandi evasioni che, poi, sono alla base della crisi.
I miliardari, in euro, continueranno a godere della loro ricchezza, accumulata più o meno lecitamente. Loro non verranno toccati da questa manovra equa.
I precari, i disoccupati, i lavoratori o i pensionati, derubati del loro presente e del loro futuro, continueranno a essere precari o disoccupati (perché nella "manovra" non c'è nulla per l'occupazione), o a percepire redditi sempre più taglieggiati e servizi pubblici sempre più costosi e carenti.
Alla faccia dell'equità!
Che equità ci può essere fra il milionario che risiede a Montecarlo (e può tranquillamente continuare a farlo) per non pagare le tasse e la madre di famiglia costretta a rubare formaggio al supermercato, perché senza un reddito sufficiente per vivere non può dar da mangiare al proprio figlio malato?
La verità è che chi considera equa la "manovra" lo fa perché ritiene possibile e legittima l'esistenza contemporanea della ricchezza più sfrontata e della povertà più nera.
Se un termine va usato per questa "manovra economica", questo non è equa ma iniqua e classista.

martedì 25 maggio 2010

Sinistra


Chi si batteva
per il superamento dell’organizzazione capitalista dell’economia della società, chi si batteva per l’emancipazione del lavoro dallo sfruttamento, chi si batteva per una società e un ambiente a misura d’uomo, chi si batteva per l’uguaglianza sociale delle persone a prescindere dalle condizioni economiche, dal sesso, dalle idee politiche e religiose, a prescindere dal colore della pelle. Chi faceva tutto ciò si trovava a sinistra nelle aule parlamentari, nei consigli comunali o provinciali (e in qualunque altro organo rappresentativo) ed era seduto alla sinistra del presidente dell’assemblea.
Lo stare a sinistra era una scelta, visibile e inequivocabile.
I partiti interclassisti invece si ponevano al centro, mentre i partiti padronali e reazionari a destra: anche per costoro la collocazione nelle aule corrispondeva a una appartenenza politica ben precisa.
Sedersi a sinistra o destra aveva il significato di compiere una scelta di campo. A sinistra con i lavoratori e le loro istanze a destra con i padroni ed i loro interessi.
Non era un semplice schematismo.
Oggi, per quanto riguarda la sinistra, chi è seduto in quelle tradizionali postazioni non è più portatore degli stessi ideali e obiettivi. Pur mantenendo, per fini elettorali e di borsa, una ambiguità di fondo.
Non si tratta di sostenere tesi settarie, massimaliste o estremiste, o intolleranti o altro ancora. Non si tratta di tranciare giudizi sommari. Molto più semplicemente di chiamare le idee, le posizioni politiche dei partiti per quello che sono, con il loro vero nome e cognome, superando il valore, forse anche un po’ nostalgico e datato che la parola “sinistra” finora ha avuto e di cui, comunque, ancora oggi è spesso conveniente servirsi.
Occorre superare, quindi, l’ambiguità e la malafede di chi vuole far credere che il solo stare seduto a sinistra, negli organi rappresentativi, fa diventare di sinistra le proprie posizioni e scelte. Non si può pretendere, in base a ciò, il consenso e il voto, accantonando momentaneamente le tesi e posizioni politiche espresse e gli interessi reali rappresentati e difesi. O chiedere un consenso cui non si ha diritto, perché il soggetto sociale da rappresentare (la "classe" di riferimento) è diverso e con interessi contrapposti.
La responsabilità storica e politica di costoro, oltre al tradimento di valori e ideali, sta nel mantenere l’ambiguità, nel continuare a far credere di lavorare per un campo mentre si sguazza nell’altro.
La linea politica della "sinistra moderna e democratica”, negli ultimi decenni, ha contraddetto e si è sistematicamente contrapposta a quella sostenuta, dalla sua nascita in poi, dalla sinistra propriamente detta. Lo sforzo maggiore di questi “innovatori” sta nel tentare di presentare come una evoluzione la loro posizione attuale, spacciandola di sinistra e dalla parte dei lavoratori, mentre è quasi sempre sistematicamente il contrario.
L’appellativo di “sinistra” non è più, quindi, una discriminante. Non è più vero che dirsi di sinistra significa portare avanti i valori propri storicamente della sinistra e, quindi, stare dalla parte dei lavoratori, dei disoccupati, dei pensionati. In poche parole degli oppressi. Non è più vero che chiamarsi socialista o comunista significa quello che tali appellativi hanno, storicamente, significato.
Non ci si può più accontentare delle dichiarazioni di principio: sinistra, comunisti, socialisti, oggi, sono definizioni prive di contenuto. E troppo spesso vengono utilizzate non nella direzione di costruire una società senza classi, ma per ritagliarsi spazi e costruirsi fortune politiche, anche personali. Tutto ciò nell'ipotesi più benevola. Assumendo, cioè, che il passaggio dalla sponda dei lavoratori e del progresso a quella del padronato e della conservazione non sia un processo appositamente studiato per addormentare le coscienze e far perdere la consapevolezza della realtà sociale attuale. Impostata dalle sue fondamenta sul privilegio e la discriminazione.
Negli ultimi anni abbiamo assistito ai capovolgimenti più incredibili: partiti socialisti che governano con la destra nostalgica, conservatrice e reazionaria; partiti di “sinistra” essere in prima fila, sia sul piano politico che sindacale, a sostenere le politiche economiche più antipopolari, sullo stato sociale, sul fisco, sui contratti di lavoro e sui diritti, arrivando a condividere e sostenere interventi militari con uso della forza in varie aree del mondo.
Oggi, più che mai, deve contare la sostanza. Occorre denunciare e smascherare il tentativo di chi vuole negare che crescono sempre di più il privilegio e la discriminazione sociale di classe. Oggi più che mai c’è la necessità di forti aggregazioni politiche e sindacali che, con una chiara e determinata impostazione di classe, facciano chiarezza, agiscano e si battano per una società di liberi ed uguali. Occorre scongiurare il rischio di una perenne condizione di subalternità e di sfruttamento cui i lavoratori e i precari sembrano destinati.
Occorre, quindi, ripartire dal metodo delle analisi dei rapporti sociali e di classe per comprendere la realtà e ricominciare a lottare per costruire una società non più basata sull’ingiustizia e sullo sfruttamento dell’uomo sull’uomo.
Occorre ripartire dalle idee, dalle analisi e dalla chiarezza degli interessi rappresentati.

lunedì 24 maggio 2010

Le mani in tasca

Ancora una volta si apprestano a varare una "manovra economica" per "salvare" l'economia del Paese.
Ancora una volta taglieranno stipendi e pensioni, ancora una volta si arricchiranno di più.
Il balletto che si scatena a ogni fase della "crisi economica" è osceno.
Hanno detto che non metteranno le mani in tasca agli italiani. Hanno ragione perchè non ne ce n'è bisogno, col sostituto di imposta basta modificare una aliquota e il gioco è fatto. In tasca ai redditi fissi, lavoratori, precari e pensionati, la parte di stipendio destinato al fisco, che le aziende sono tenute a trattenere e versare per conto degli interessati, non entrerà mai. Ci penserà il sostituto d'imposta a trattenerla e dirottarla all'erario. Se verrà poi usata per la collettività non è dato sapere. Ma la storia ci insegna che non sarà così.
Anche la prossima "manovra finanziaria" servirà per spostare reddito dalle buste paga dei tanti ai soliti noti, come già da tempo hanno imparato a fare.
D'altra parte, come ha detto il Presidente del Consiglio in carica, se le tasse sono troppo alte è giusto evadere.
Loro in ogni caso lo possono fare, non hanno il sostituto d'imposta!
Poveri milionari costretti perfino a diventare contrabbandieri per mantenere le loro lussuose barchette evadendo, in maniera sacrosanta, le tasse sul carburante che, invece, il ricco pendolare deve giustamente pagare per intero.
Occorre moralizzare! Ci siamo abituati, dicono, a un tenore di vita troppo alto per le nostre possibilità!
Lavoratori, precari e pensionati, basta con gli sprechi!
Però, già che ci siamo, per incrementare le entrate, senza naturalmente mettere le mani in tasca agli italiani, dopo uno scudo fiscale e innumerevoli sanatorie si potrà fare un nuovo condono sugli abusi edilizi. Tanto per difendere l'ambiente! Sperando che il popolo caprone non se ne accorga.

venerdì 21 maggio 2010

No Usa, No Uk, Nobraino!

Una serata di pioggia. Roma sembra non volerne sapere della primavera e San Lorenzo è uno slalom solitario tra le pozzanghere. Girato l’angolo, dopo che un rasta ci chiede notizie del suo cucciolo di bassotto disperso, giungiamo alla meta. Un serpentone di gente fuori dalla “Locanda Atlantide” ci ricorda della disdetta di qualche sera prima: tutto esaurito per i Diaframma dopo mezz’ora di coda umida. Ma quanto tira ‘sto rock italiano? Almeno qui, nell’oscuro lato “alternativo” della capitale. “Avete una cartina?” Con un gesto falso e arrogante spezziamo la fila e il giogo della prevendita. Siamo dentro. Facce già viste, molte altre nuove. Facce sempre più numerose. Il tempo di constatare ciò, accaldati e accalcati, ricordando i nostri esordi in prima (e unica) fila al “MarteLive” che, accolti dal boato degli astanti, i “No Usa, No Uk, Nobraino” sono sul palco.
Subito è tutto un ballo e un canto, accaldato e accalcato, segno che la band di Riccione ne ha fatta di strada dalle selezioni del concorso romano. E stasera è serata di gala, giacché si presenta il nuovo nato, il terzo disco della band, prodotto da Giorgio Canali. Canali? Ma allora era proprio lui lo smilzo di mezza età al bancone del bar col drink in mano! E già parte la caccia di tutti i musicisti presenti in sala con tanto di demo in mano da consegnare. Ma li tengono in saccoccia nella speranza di incontrare un ex Cccp qualunque? Tornando a noi, con la band al gran completo, Kruger sul palco (ma anche in platea, sulle quinte, appeso a un lampadario) mena le danze come al suo solito e la gente conosce già a memoria le parole di “La giacca di Ernesto”, ultimo singolo. Terrificanti problemi tecnici sembrano innervosire un poco il frontman, che si fa largo tra la folla verso il mixer, dopo aver bestemmiato contro il microfono (e non solo), lasciando gli altri a improvvisare una “Romagna mia” da inserire stabilmente in repertorio. Poco male, tutto fa spettacolo, soprattutto coi Nobraino. Ritorna il sereno (tecnico) ed è una cavalcata sui nuovi brani della band che tutti ballano e cantano all’unisono: il disco, per stessa ammissione della band, è solo fissione su supporto scarsamente commercializzabile e distribuibile di quello che viene da tempo suonato live. “Nobraino, in nessun negozio di dischi”: ci dispiace per tanti feticisti nostalgici, noi compresi, ma questo significa vederci lungo (oltre che sottrarsi alla logica fascista delle case discografiche ecc, ecc, ecc). E poi quello che conta è la musica e i nostri questo lo sanno (e lo fanno) bene! “Narcisisti misti”, “Chi me l’ha fatto fare”, “La signora Guardalmar”: i nuovi brani confermano lo straordinario miscuglio di generi e rimandi, quello di cui t’innamori dal loro primo concerto (che sia il salotto, sconquassato come non mai, della Dandini o la sera prima, in incognito, per quattro fortunati alle tre di notte al “Contestaccio”).
Nestor alla chitarra, Bartok al basso, Vix alla batteria (e la sezione fiati con David jr Barbatosta e il Duca d’Abruzzo) smontano e riassemblano e citano e stravolgono tradizione melodica italiana, cantautorato, swing, jazz, rock, ma anche musica da film western, muto anni ’30, espressionismo tedesco (e sicuramente rimane fuori qualcosa), senza cadere nel manierismo o in un certo gusto retrò che oggi è così in voga, almeno quanto l’assenza di idee di tanti presunti fenomeni dell’indie italiano. Ne nasce un qualcosa di nuovo, probabilmente impossibile da definire se non nel risultato finale: il ballo instancabile e la gioia collettiva del pubblico dei loro concerti. Del pubblico della Locanda, stasera. E poi c’è lui. Eroe da film muto trasformato in punk microfonomunito, imperterrito acrobata come un novello Buster Keaton che incontra Groucho Marx che interpreta (con riverenza) Paolo Conte. Ottimo singer dalle cromature basse. Persona amabile. Lorenzo Kruger trasforma il mix musicale in qualcosa d’altro, come energia rinnovabile. Canta, balla, poga tra il pubblico, si arrampica sulle impalcature, distrugge microfoni e bicchieri, gioca pericolosamente con le pale dei ventilatori, spara (a salve) alle prime file, si rinchiude in una cassa. E in tutto questo è cantastorie allievo di De Andrè (“Notaio scarabocchio, “I signori della corte”) e interprete insolito ed efficace con un gusto alla Gaber (“L’italiano”).
Mentre si disquisisce su come possano averli scartati da Sanremo (che fortuna!) per andarsene "in tutti i modi, in tutti i luoghi, in tutti i laghi", sul palco sale il buon Canali, per una versione particolarmente rockettara di “Succhiami il cuore” e una decisamente insolita di “Bifolco”. Kruger lo prende abbondantemente in giro (eh, non c’è più rispetto per le vecchie glorie!) e Canali sta allo scherzo, alzando però il volume della chitarra a livelli parossistici tanto per far valere la sua legge da mito dell’underground italiano. Ci sta.
La seconda parte del concerto è dedicata ai classici in repertorio, col pubblico in delirio sulle note di “Ballerina straordinaria”, “Partì per l’America”, “Le tre sorelle” e (solo) le femmine in delirio per il nudo collettivo della band nel gran finale.
All’uscita, il tempo di constatare che piove sempre su Roma, incontriamo Kruger sull’uscio della Locanda. Dismessi i panni (fradici e a brandelli) del mattatore ci saluta in borghese e baffetti, dandoci appuntamento al prossimo concerto. Sembra volersi prendere cura del suo (meritato) pubblico.
Nobraino, non si può non volergli bene.

giovedì 20 maggio 2010

Lo Statuto dei lavoratori e l'inganno dei "modernizzatori"

Il 20 maggio del 1970, esattamente 40 anni fa, entrò in vigore la legge 300, lo Statuto dei diritti dei lavoratori. Questa legge introduceva delle norme innovative riguardanti la libertà e la dignità dei lavoratori, nonché regole che permettevano le attività sindacali anche nei luoghi di lavoro.
Gli articoli della legge, 41 in tutto, che sarebbe opportuno approfondire, permettevano al cittadino di continuare a godere delle libertà fondamentali dell'uomo anche dentro il luogo di lavoro: libertà di pensiero e di opinione, libertà di associazione in sindacati, diritto di assemblea nel posto di lavoro (10 ore l'anno), permessi e distacchi sindacali, diritto a non essere discriminato in base alla propria militanza sindacale (o per l'adesione a uno sciopero), libertà dal controllo di guardie giurate del "datore di lavoro", libertà dal controllo sanitario del medico di fiducia del "datore di lavoro" e il conseguente diritto alla riservatezza.
Nello stabilire norme per regolare le libertà sindacali veniva espressamente fatto divieto ai "datori di lavoro" ed alle loro associazioni di istituire o finanziare sindacati di comodo, nonché di limitare o impedire le attività sindacali pena sanzioni penali.
Nello Statuto venivano definite le regole e le procedure per i licenziamenti individuali, che da allora non potevano più essere operati per arbitrio, capriccio o convenienza padronale, pena il reintegro forzato nel posto di lavoro di chi veniva ingiustamente e illegittimamente licenziato. Venivano regolate le assunzioni, che non dovevano più essere nominative ma a graduatoria. Tramite gli uffici di collocamento, in questo modo, si toglieva ogni possibilità di scelta arbitraria al "datore di lavoro".
Indubbiamente la legge 300 fu una conquista di civiltà e libertà fondamentali.
Questa conquista fu ottenuta sulla spinta delle lotte dei lavoratori e dell'autunno caldo. Venne così sconfitta l'autorità indiscussa del potere padronale fino ad allora dominante.
Potrebbe, a questo punto, sorgere una domanda: come mai fu necessario varare (nel 1970) una legge che affermasse diritti già previsti e tutelati nella Costituzione italiana?
Evidentemente tali diritti nei luoghi di lavoro non trovavano applicazione perché persi dal cittadino al momento in cui diventava lavoratore, varcando i cancelli dell'azienda da cui dipendeva.
L'affermazione di tali diritti prevista nella Costituzione quindi non corrispondeva con la loro effettiva applicazione.
Oggi, nonostante quanto previsto dalla Costituzione e dalla legge 300, grazie a norme varate successivamente da governi di ogni colore con l'apporto di "giuslavoristi" magari di "sinistra" (e avallate dal sindacato), tutte queste conquiste sono messe in discussione o, in molti casi, già abolite e annullate.
La precarizzazione, che non riguarda solo i giovani in cerca di prima occupazione ma anche gli occupati stabili continuamente sotto la minaccia della perdita del lavoro e della destabilizzazione, ha vanificato le conquiste ottenute dai lavoratori negli anni passati.
Da quando modernizzare vuol dire togliere diritti fondamentali? Questo è il grande inganno.
Di fatto per un precario o un cassaintegrato i diritti di libertà e civiltà della legge 300 sono solo dei miraggi.
Il processo per la progressiva demolizione della legge 300 è stato lungo ed è tutt'ora in corso, vedi l'attacco della Confindustria all'art. 18 sui licenziamenti per giusta causa e impegna contemporaneamente sia le forze politiche e sindacali tradizionalmente schierate a favore degli interessi padronali che quelle che, sulla carta, dovrebbero opporsi.
La storia ci insegna che una conquista se non viene difesa si perde. Di questo si deve prendere coscienza.
Rifacciamo partire la locomotiva.

mercoledì 19 maggio 2010

Santoro, una brutta sensazione

Dal Corriere della Sera :"Santoro lascia la Rai, un accordo milionario". La sensazione è che entrambi abbiano ricavato il massimo dalla situazione. Sicuramente la dirigenza Rai, i cui scandali non verranno più raccontati. E, se le cifre sono vere, anche Santoro. Una brutta sensazione se si pensa che Annozero rappresentava una delle poche voci fuori dal coro in un Paese precipitato al 72esimo posto nel mondo in fatto di libertà di stampa (dietro Cile e Corea del Sud) e al 24esimo tra le 25 nazioni dell'Europa occidentale, dietro Cipro, Malta e (udite, udite!) Grecia. Una brutta sensazione se si pensa che Freedom House, l'organizzazione che ha stilato la classifica, è un istituto di ricerca finanziato prevalentemente con fondi governativi situato a Washington. Non un covo di pericolosi comunisti. Una brutta sensazione, se si pensa che col ddl sulle intercettazioni approvato oggi non verremo più a sapere dei malaffari della politica e dell'imprenditoria italiana.
La sensazione è che non bisogna affidarsi a eroi (o presunti tali) per cambiare lo stato delle cose. Occorre una presa di coscienza collettiva.

martedì 18 maggio 2010

Afganistan, morti per chi e per che cosa?

L'articolo 11 della Costituzione recita:"L'Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali".
L'intervento in Afganistan oggi, come quello in Iraq ieri, è stato motivato principalmente con due argomentazioni: 1) intervento contro l'estremismo religioso e il terrorismo internazionale; 2) intervento umanitario.
La contraddizione sta proprio quì: se l'intervento fosse stato dettato veramente da scopi umanitari non avrebbe dovuto essere affidato, anche in seguito, quasi esclusivamente a militari, armati di tutto punto e addestrati per la guerra, ma a organizzazioni (appunto) umanitarie preparate, attrezzate e sostenute (abbiamo in realtà recentemente visto, con Emergency, quanto poco gradito sia chi si adopera realmente in questo senso).
Alla luce di quanto sta accadendo, morti fra i militari e stragi tra la popolazione, ancora in questi giorni, emerge con chiarezza come l'aspetto dominante dell'intervento non sia quello umanitario ma quello militare.
Occorre che si dica chiaramente quindi, che allo stato dei fatti è in atto una guerra in cui siamo coinvolti in pieno senza, neanche, conoscerne i reali obiettivi.
Ciò che nessuno dice è che la situazione attuale in Afganistan, come in altre aree del mondo, è il risultato del comportamento spregiudicato di alcuni Stati occidentali dominanti volto prima a foraggiare qualunque Stato o organizzazione contrasti i loro oppositori (vedi Unione Sovietica negli anni '80) e a sostenere apertamente chi, in seguito, proprio da costoro è stato accusato di terrorismo internazionale (i mujaheddin afgani, ma anche l'Iraq un tempo alleato nella guerra all'Iran).
Perché in Darfur siamo così "umanamente" poco presenti?
Interventi umanitari, quindi, o calcoli geopolitici?
L'uso delle armi, e cioè la legge del più forte, non può e non deve essere il mezzo per risolvere i problemi tantomeno in casa d'altri, che interventi "umanitari" evidentemente, non vogliono riceverne. Non di questo tipo.
Bisogna perciò procedere, immediatamente, al ritiro dei militari e porre fine alla carneficina, riaffermando il principio del diritto all'autodeterminazione di ogni popolo, di ogni nazione.

Svuotiamo gli arsenali e riempiamo i granai!

domenica 16 maggio 2010

Crisi, per chi?

Il governo italiano è tutto affaccendato ad affrontare la “crisi economica” che investe l’economia mondiale, europea e italiana. Le crisi economiche sono cicliche nei sistemi capitalistici e sono utilizzate per produrre radicali redistribuzioni dei redditi sempre a favore di quelli da capitale o più alti. E’ dai lontani anni ’70 con la crisi del petrolio, che, con questa scusa, vengono sottratti ai lavoratori e pensionati salario e diritti.
C’è la crisi allora bisogna che tutti facciano sacrifici: politica dei redditi (leggi contenimento dei salari cioè stipendi dimezzati), via la scala mobile, via le pensioni di anzianità, in pensione più tardi e con pensioni più basse, flessibilità e precarietà soprattutto per i giovani, tasse e tickets sulla sanità, privatizzazioni, ecc. ecc, ecc.
I lavoratori a reddito fisso, i pensionati, i disoccupati hanno visto peggiorare, di giorno in giorno, le loro condizioni di vita e siamo arrivati alla condizione che queste categorie percepiscono i più bassi stipendi d’Europa, mentre pagano le tasse più alte e usufruiscono di uno stato sociale in progressivo disfacimento.
La crisi non ha toccato, però, tutti.
Anche in questi anni, infatti, mentre ai lavoratori e ai cittadini si è imposto di rinunciare a diritti salariali e sociali basilari, c’è chi si è continuato ad arricchire: gli imprenditori, padroni dell’economia, in primo luogo.
I loro profitti, grazie alla politica della “liberalizzazione del mercato”, delle privatizzazioni e del contenimento dei salari, sfuggono a ogni controllo, ammesso che qualcuno voglia controllarli. Per loro non vale la politica dei redditi. Milionari, o miliardari, in euro, che hanno accumulato, esportato capitali ed evaso legalmente, grazie anche allo scudo fiscale (non avendo il sostituto d’imposta), trasferito o delocalizzato attività produttive in aree del mondo dove la manodopera accetta e subisce salari più bassi e nessuno stato sociale, licenziando senza rimorso alcuno, precarizzato o ridotto allo stato di schiavitù i lavoratori ed i giovani.
Oppure parlamentari e manager, che continuano a percepire emolumenti e prebende, i più alti d’Europa, nonché privilegi, anche giudiziari, insultanti per tutti i comuni cittadini.
Ora, a seguito della crisi che esiste solo e quando conviene loro, per convincere il popolo “credulone” ad accettare ulteriori sacrifici, costoro, dichiarano di fare la loro parte di sacrifici, togliendosi il 5% (!) dei loro lauti emolumenti.
Tutti sappiamo che questo non avverrà mai e che questa è l’ennesima manovra per far digerire, a chi ha già dato, ulteriori tagli e sacrifici.
Rifacciamo partire la locomotiva.

sabato 15 maggio 2010

Palestina, 62 anni di menzogne

Oggi 15 maggio 2010 segna il 62esimo anniversario della Nakba ("catastrofe"), la pulizia etnica della Palestina da parte delle forze sioniste, prima e durante la creazione dello Stato di Israele.
Tra le innumerevoli menzogne raccontate dai "mezzi di disinformazione di massa" sulla pelle di persone dimenticate dai potenti della terra, si è detto che la Palestina fosse disabitata, che agli Ebrei fosse stata data una terra senza un popolo (per un popolo senza terra), che dal deserto sarebbe sorto un giardino.Il giardino non l'ha visto nessuno, sul deserto precedente questo video parla chiaro.



D'altronde l'idea che il "democratico governo israeliano" ha dello Stato palestinese la potete trovare qui.

Libertà

E’ libero un individuo che può agire, o non agire, senza che qualcuno possa condizionarlo o limitarne la volontà ed il pensiero.
L’articolo 3 della Costituzione afferma:
“Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono uguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.
E’ compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica economica e sociale del Paese.”

Siamo tutti liberi allo stesso modo? Oppure esistono forme di libertà diverse?
Gli ostacoli economici limitano o impediscono a tutti di essere liberi oppure solo ad alcuni?

Un lavoratore, un precario, un disoccupato o un pensionato sono liberi allo stesso modo di un milionario?
Se esistono libertà differenti, esiste l’ingiustizia sociale?
Esistono persone, sempre le stesse, che godono di libertà e diritti diversi e, soprattutto, enormemente maggiori?
Esistono persone, sempre le stesse, che godono di libertà e diritti diversi e, soprattutto, enormemente minori?
Esistono le classi sociali?
Esistono partiti o sindacati che si collocano su una impostazione di classe? Di quale classe?