Il 20 maggio del 1970, esattamente 40 anni fa, entrò in vigore la legge 300, lo Statuto dei diritti dei lavoratori. Questa legge introduceva delle norme innovative riguardanti la libertà e la dignità dei lavoratori, nonché regole che permettevano le attività sindacali anche nei luoghi di lavoro.
Gli articoli della legge, 41 in tutto, che sarebbe opportuno approfondire, permettevano al cittadino di continuare a godere delle libertà fondamentali dell'uomo anche dentro il luogo di lavoro: libertà di pensiero e di opinione, libertà di associazione in sindacati, diritto di assemblea nel posto di lavoro (10 ore l'anno), permessi e distacchi sindacali, diritto a non essere discriminato in base alla propria militanza sindacale (o per l'adesione a uno sciopero), libertà dal controllo di guardie giurate del "datore di lavoro", libertà dal controllo sanitario del medico di fiducia del "datore di lavoro" e il conseguente diritto alla riservatezza.
Nello stabilire norme per regolare le libertà sindacali veniva espressamente fatto divieto ai "datori di lavoro" ed alle loro associazioni di istituire o finanziare sindacati di comodo, nonché di limitare o impedire le attività sindacali pena sanzioni penali.
Nello Statuto venivano definite le regole e le procedure per i licenziamenti individuali, che da allora non potevano più essere operati per arbitrio, capriccio o convenienza padronale, pena il reintegro forzato nel posto di lavoro di chi veniva ingiustamente e illegittimamente licenziato. Venivano regolate le assunzioni, che non dovevano più essere nominative ma a graduatoria. Tramite gli uffici di collocamento, in questo modo, si toglieva ogni possibilità di scelta arbitraria al "datore di lavoro".
Indubbiamente la legge 300 fu una conquista di civiltà e libertà fondamentali.
Questa conquista fu ottenuta sulla spinta delle lotte dei lavoratori e dell'autunno caldo. Venne così sconfitta l'autorità indiscussa del potere padronale fino ad allora dominante.
Potrebbe, a questo punto, sorgere una domanda: come mai fu necessario varare (nel 1970) una legge che affermasse diritti già previsti e tutelati nella Costituzione italiana?
Evidentemente tali diritti nei luoghi di lavoro non trovavano applicazione perché persi dal cittadino al momento in cui diventava lavoratore, varcando i cancelli dell'azienda da cui dipendeva.
L'affermazione di tali diritti prevista nella Costituzione quindi non corrispondeva con la loro effettiva applicazione.
Oggi, nonostante quanto previsto dalla Costituzione e dalla legge 300, grazie a norme varate successivamente da governi di ogni colore con l'apporto di "giuslavoristi" magari di "sinistra" (e avallate dal sindacato), tutte queste conquiste sono messe in discussione o, in molti casi, già abolite e annullate.
La precarizzazione, che non riguarda solo i giovani in cerca di prima occupazione ma anche gli occupati stabili continuamente sotto la minaccia della perdita del lavoro e della destabilizzazione, ha vanificato le conquiste ottenute dai lavoratori negli anni passati.
Da quando modernizzare vuol dire togliere diritti fondamentali? Questo è il grande inganno.
Di fatto per un precario o un cassaintegrato i diritti di libertà e civiltà della legge 300 sono solo dei miraggi.
Il processo per la progressiva demolizione della legge 300 è stato lungo ed è tutt'ora in corso, vedi l'attacco della Confindustria all'art. 18 sui licenziamenti per giusta causa e impegna contemporaneamente sia le forze politiche e sindacali tradizionalmente schierate a favore degli interessi padronali che quelle che, sulla carta, dovrebbero opporsi.
La storia ci insegna che una conquista se non viene difesa si perde. Di questo si deve prendere coscienza.
Rifacciamo partire la locomotiva.
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