venerdì 23 dicembre 2011

Articolo 18 ultimo diritto di chi lavora

L’art. 18 della legge 300 del 20 maggio 1970, chiamata Statuto dei diritti dei lavoratori, è l’ultimo diritto rimasto a chi lavora. Quello per cui un lavoratore non può essere licenziato se non per giusta causa o giustificato motivo. E’ questa una norma che richiama un principio costituzionale: quello dell’uguaglianza dei cittadini.
L’art. 18 non impedisce alle aziende di liberarsi del personale eventualmente eccedente. Le aziende che devono procedere a riduzione di personale, infatti, attraverso apposite procedure, dichiarano lo stato di crisi e la quantità di personale in esubero. Per procedere all’eventuale successivo licenziamento si devono stabilire, i criteri sulla base dei quali avverrà l’eventuale individuazione del personale interessato. Questi riguardano:le qualifiche interessate alla procedura di riduzione, dell’anzianità di servizio, dell’età, del carico familiare, dell’appartenenza o meno a categorie sociali protette del personale coinvolto.
L’art. 18 non impedisce quindi la cessazione di un rapporto di lavoro. Impedisce che a determinare l’eccedenza non sia un problema oggettivo legato alla produzione, ma l’arbitrio del padrone che, per liberarsi di un lavoratore scomodo ricorre al licenziamento.
Un lavoratore può essere scomodo
se è iscritto a un sindacato come la Fiom ad esempio, se aderisce o no a uno sciopero, se si ammala troppo spesso, se è vecchio, se pretende i suoi diritti contrattuali, se si oppone allo straordinario, se pretende tutto in busta paga, ecc. Se si tratta di una lavoratrice la lista si allunga, ai pretesti di cui sopra si aggiungono il matrimonio, la maternità o perfino il ricatto sessuale.
Togliere il lavoro, cioè lo strumento che consente di “rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando, di fatto, la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese” (articolo 3 della Costituzione), è una cosa inaccettabile. Se questo avviene arbitrariamente diventa ancor più intollerabile: Perché si configura come un attacco e una violenza verso chi lavora per costringerlo a subire nel posto di lavoro o ad andarsene.
Per questo è il giudice del lavoro che sancisce, acquisiti tutti gli elementi, la legittimità del licenziamento. Qualora questa non fosse riconosciuta, ordina la riassunzione dell’interessato.
Pretendere l’abolizione di questa norma, da parte del ministro al lavoro e della Confindustria, significa annullare la libertà di chi lavora attraverso il ricatto perenne del licenziamento.
Abolire l’art. 18 non comporta per le aziende alcun risparmio, serve solo a ripristinare il diritto feudale e la supremazia del padrone verso il lavoratore che non è più, a quel punto, nemmeno formalmente, un soggetto di diritto, una persona libera ma uno schiavo a tutti gli effetti.
L’art. 18 non si applica a tutti. Sono esclusi i dipendenti cui non si applica la legge 300 (aziende con meno di 15 dipendenti). Non si applica nemmeno per i precari, per i Co. Co. Pro., e per i lavoratori con contratto a tempo determinato. Su ciò i “moderni” economisti” e gli “illuminati giuslavoristi” hanno costruito l’ennesima mistificazione: Chi può usufruire dell’art. 18 , per costoro, è un privilegiato. Pertanto va eliminato il privilegio e va ristabilita l’uguaglianza.
Altro che abolire l’art. 18 esso va esteso a tutti i lavoratori e vanno abolite le leggi Treu e Biagi che precarizzano il rapporto di lavoro consentendo lo stato di totale subalternità del lavoratore al padrone.
Difendere l’art.18 non significa mantenere un privilegio. Significa lottare per mantenere uno strumento di libertà e di dignità per chi lavora.
E il Partito Democratico? Che cosa ha detto in proposito? Il suo segretario Bersani ha affermato che “toccarlo ora è roba da matti”.
Per Bersani, quindi l’art. 18 si può toccare. Non ora però. Forse perché questo potrebbe far scoccare la scintilla della protesta di chi lavora verso una classe politica e padronale che dopo la cancellazione del collocamento, dei contratti nazionali di lavoro, della scala mobile, delle pensioni di anzianità vuole determinare la sconfitta definitiva dei lavoratori non solo nei posti di lavoro ma soprattutto nella società per avere campo libero verso le loro libertà e liberalizzazioni. Meglio cancellarlo in momenti più adatti.

lunedì 19 dicembre 2011

Il Partito Democratico si è tolto la maschera

Con il voto di fiducia sulla manovra del Governo Monti si è finito il percorso che, iniziato con la liquidazione del Partito Comunista Italiano, ha portato alla costituzione di una “nuova” maggioranza politica che include, oltre il Partito democratico, il terzo polo (ex fascisti compresi) fino al cosiddetto Popolo delle libertà di Berlusconi, tutti uniti a sostenere l’ultimo attacco alle condizioni dei discriminati nel mentre rimane intatto (avrebbe potuto essere diversamente?) il privilegio. La novità consiste nel voto “unitario” con i partiti del centrodestra e neofascisti, del Partito democratico, finora impegnati in una finta competizione fra loro, che chiarisce anche formalmente l’ambiguità della sua rappresentanza e della sua collocazione politica e di campo.
Il sostegno alla manovra è classista perché colpisce a senso unico quelli che sono stati chiamati come soliti noti, e grazia come sempre i ricchi, gli alti redditi, patrimoni e le imprese che addirittura ottengono contemporaneamente finanziamenti aggiuntivi.
Questo voto fa chiarezza sulla situazione. Chi ha sostenuto la manovra appartiene al campo del liberismo e del capitalismo che considera giusta e possibile l’esistenza contemporanea della ricchezza più sfrenata con la miseria più nera, del privilegio con la discriminazione.
Per i liberisti, i lavoratori e i discriminati, se vogliono vedere migliorata la loro condizione o trovare lavoro, devono rinunciare ai loro diritti consolidati, sia sul posto di lavoro sia nella società.
Con questa logica, i diritti dei lavoratori, conquistati a prezzo di dure lotte, diventano dei tabù o dei totem del passato e chi si ostina a difenderli un conservatore. Il loro interesse e tornaconto privato, invece, rappresenta il progresso, il moderno e il futuro. Per i liberisti la parola “riforma” coincide con i loro interessi elevati a condizione ed interesse generale.
Lo sviluppo, per costoro, è possibile solo a condizione che i lavoratori accettino, come finora sono stati costretti a fare, di sottostare alla loro legge e alla loro convenienza che hanno prodotto, da venti-trenta anni a questa parte solo un enorme spostamento di ricchezza a favore dei ricchi e dei padroni a danni dei redditi fissi.
I diritti dei liberisti sono sacri ed inviolabili, quelli dei lavoratori sono “riformabili”. La loro libertà non è legata alla libertà dal bisogno ma alle liberalizzazioni capitaliste, alla libertà di de localizzare, di licenziare, di tagliare salari e pensioni, di calpestare leggi e contratti e di imporre diktat padronali fino a stabilire quali possano essere i sindacati ammissibili in azienda cui i lavoratori possano iscriversi e quali no. Tentando di azzerare la presenza dei sindacati più combattivi quale la Fiom.
Con il voto di fiducia sulla manovra della Camera, che si ripeterà al Senato, si compie l’atto politico definitivo che chiarisce il tradimento e il cambio inappellabile di campo di quella doppia e serpiforme “sinistra” che si toglie la maschera dimostrandosi con il suo vero volto di falso amico dei lavoratori e di vero sostenitore del capitalismo e dei padroni.
La loro azione subdola e mistificatrice ha seminato, tra i lavoratori, confusione e disorientamento ed ha determinato che i valori e le convenienze dei padroni diventassero interessi generali e fossero accettati anche da coloro che si trovavano a subirne le conseguenze determinandone la sconfitta politica, sindacale e culturale: concertazione, compatibilità, flessibilizzazione, precarizzazione, delocalizzazioni sono parole che hanno marcato l’arretramento politico, economico e culturale della classe operaia italiana falsamente e subdolamente presentate da costoro come naturale sviluppo politico del sindacato e non come tradimento e svendita.
Prendere atto di ciò è condizione per cominciare a invertire la rotta e reinnestare la marcia della riscossa. Prima lo facciamo meglio sarà.

lunedì 5 dicembre 2011

E’ in gioco la salvezza dell’Italia

Di quale Italia stanno parlando? Dell’Italia dei disoccupati? Di quella dei precari? Di quella dei lavoratori che percepiscono salari di fame e cui sono tolti tutti i diritti? Oppure di quella dei pensionati cui è promessa una misera pensione solo a 67 – 70 anni? Oppure di quella di tutti i redditi fissi che a fronte di un carico fiscale insostenibile e crescente, corrisponderà l’assenza pressoché totale di servizi da parte dello Stato e degli enti locali?
L’allungamento dell’età per l’accesso alle pensioni di anzianità e di vecchiaia, l’addizionale dell’irpef per le regioni, la reintroduzione dell’ici e il previsto aumento dell’iva del 2%, produrranno un altro colpo per le condizioni di vita dei disoccupati e dei redditi fissi e sposteranno ulteriormente la ricchezza a favore di chi ricco già lo è.
Siamo costretti a pagare attraverso quelle che fraudolentemente chiamano “riforme” e che invece sono tagli a senso unico e interessi degli speculatori che incamerano con i bot interessi spropositati, facendo tracollare il debito pubblico. Per costoro ci sono lauti guadagni mentre per tutti gli altri cittadini fame e miseria.
L’iniquità dell’ennesima manovra che colpisce a senso unico è resa ancora più evidente dall’assenza, in essa, di qualsiasi accenno di tassazione sui grandi patrimoni; dal mancato incremento dell’irpef sui redditi elevati, dal mantenimento di trattamenti pensionistici di decine o addirittura centinaia di migliaia di euro il mese nello stesso tempo è tolta l’indicizzazione delle pensioni superiori a … 936 euro mensili, ecc.
Non è l’Italia dei lavoratori e dei pensionati
quella che vogliono salvare, ma l’Italia dei privilegiati, dei ricchi e dei padroni. Che tipo di salvezza si prospetta per chi vive di misere pensioni, di un lavoro incerto e precario o è disoccupato. Che cosa hanno a che spartire essi con i destini di chi, oggi, impone lacrime e sangue.
Sarà poi questa l’ultima manovra taglieggiatrice?
Il Governo “tecnico”, paravento di centrodestra e centro”sinistra” è stato appositamente nominato per prendere quelle che sono state definite misure impopolari per consentire a questi partiti di non sporcarsi. Non ha deluso il “tecnico Monti” le attese del padronato e della Confindustria e di tutti i partiti di centrodestra e centro”sinistra” che, schierati tutti su posizioni liberiste e di mercato, sono tutti indaffarati (partito democratico compreso) a spiegarne l’ineluttabilità e l’impossibilità di misure di segno radicalmente diverso.
Il sostegno di questi partiti, alle misure varate dal Governo, avvenuto sostanzialmente con distinguo e riserve per non precludersi possibili vili vie di fuga per poterne prendere le distanze in caso di malaparata, sarà direttamente proporzionale alla risposta che verrà dai lavoratori e da tutti quelli che sono colpiti dalla manovra.
Se ci sarà una forte risposta di massa e di protesta, non esiteranno a far cadere il Governo “tecnico” per scaricare poi su di esso i possibili malumori delle piazze. Se questo non sarà, tanto meglio, allora daranno il loro esplicito voto e faranno diventare legge la manovra.
Davanti a questo quadro in Parlamento se si esclude una minima minoranza rappresentata dal partito di Di Pietro e dalla Lega (delle cui “innovative” posizioni è evidente la strumentalità), non trova voce e rappresentanza chi è colpito e chi si oppone a questa politica persecutoria e di classe del padronato e dei partiti che esplicitamente sosterranno con il voto le misure antipopolari.
Sarà finalmente chiaro e in maniera definitiva, da che parte sta il Partito Democratico e quali interessi difende e rappresenta e quanto la politica del Pd coincida con gli interessi delle banche e dei padroni. Cadranno tutte le maschere.
Il sindacato finora balbetta. Davanti a quest’ennesimo frontale attacco alle condizioni di vita dei discriminati non hanno ancora preso una posizione chiara e alternativa. Non è stata ancora decisa alcuna forma di protesta se si esclude lo sciopero di protesta … di ben due ore previsto per il 12 dicembre p.v. di Cisl e Uil da una parte e quello di quattro ore della Cgil dall’altra, iniziative veramente inadeguate alla circostanza che annullano, per il momento, l’ipotesi di una risposta adeguata e più forte. Cosa ci si può aspettare, d’altra parte, da chi ha sostenuto da sempre le politiche di compatibilità e di concertazione, da chi ha permesso al padronato in questi anni di demolire ogni tutela dei salari, di azzerare il collocamento, di licenziare anche senza giusta causa, di cancellare i diritti e lo Statuto dei lavoratori, o i contratti nazionali di lavoro, ecc.
Davanti alla manovra occorre una risposta di lotta forte e adeguata da parte di chi è colpito da questa politica di classe che la sottintende.
Occorre prendere tutte le iniziative di lotta possibili, compreso un referendum per l’abolizione degli strumenti legislativi che saranno presi per legittimare l’operazione.
Occorre schierarsi, protestare, ribellarsi a chi ci toglie il futuro per arricchirsi ancora di più. Occorre far sentire in ogni modo possibile la nostra voce, rabbia e determinazione e contrastare fino in fondo le misure, nei posti di lavoro, nelle piazze, nelle sedi di tutti i partiti e sindacati e in tutti gli spazi possibili, attraverso il web, la stampa ecc. Tutto è nelle nostre mani. Compresa la nostra sconfitta.
Occorre perciò avere consapevolezza dell’impronta sociale di classe di quanto avviene. Occorre prendere coscienza che la risposta deve essere di classe, della classe degli oppressi organizzandoci per ricostituire il sindacato di classe dei lavoratori e degli oppressi che condividono la stessa sorte e le stesse condizioni di vita, per imporre la cancellazione di quanto deciso, produrre un’inversione di rotta e mettere al centro le condizioni di vita dei lavoratori e dei pensionati e non gli affari, i profitti e gli interessi di speculatori e padroni.

mercoledì 16 novembre 2011

L’Italia è una repubblica di politici, “tecnici”, imprenditori, banchieri e dottori-professori

A scorrere l’elenco dei “tecnici” nominati ministri nel neonato governo Monti si certifica l’assenza, come d’altra parte avviene da troppo tempo anche negli esecutivi di nomina politica, di qualsiasi seppur minima o simbolica rappresentanza dei cittadini che non appartengano alle categorie di cui sopra.
In barba ai “sacri” principi di parità e uguaglianza enunciati dalla Costituzione, oggi più che mai inapplicati, i lavoratori, i disoccupati, i pensionati e i precari sono sistematicamente esclusi da quella cerchia di persone privilegiate che prendono le decisioni. Decisioni che sono assunte da politici e “tecnici” che non fanno parte del popolo, perché non ne condividono le condizioni economiche ma sulla cui pelle pretendono di decidere.
Il politico, l’industriale, il banchiere e il professionista (i ricchi) non hanno bisogno di uno stato sociale, di servizi, scuole, ospedali, ecc. funzionanti, efficienti ed efficaci. Per costoro i servizi sono solo sprechi. Essi godono di condizioni economiche enormemente superiori a quelli di tutti gli altri cittadini e di privilegi inaccettabili. Non hanno il sostituto d’imposta, pagano il fisco (quando per gentile concessione lo fanno), non su quello che percepiscono, ma su ciò che dichiarano e a consuntivo; scaricano dal proprio reddito tutto e il contrario di tutto; usufruiscono d’incentivi, finanziamenti, privatizzazioni, sgravi e scudi fiscali, sconti, bonus, condoni, ecc., ecc., ecc.. Ora potranno acquistare beni pubblici, immobili e fondi agricoli che loro stessi gestiscono a prezzi di saldo.
Tutto questo si verifica per un solo motivo: sono loro che fanno le leggi. Loro è la classe privilegiata e dominante.
Come spiegare diversamente la sistematica esclusione dal Governo proprio di quei cittadini che sono declassati a spettatori passivi delle scelte delle elite: il lavoro, la pensione e l’età di pensione, le tasse dirette e indirette, i servizi, istruzione, sanità, ecc.? Non sarebbe opportuno che fosse proprio una rappresentanza diretta di quelli che pagano e usufruiscono dei servizi pubblici, perché non sono in grado di pagarsene di privati, a decidere su tutto ciò che li riguarda?
Il governo dei “tecnici” e dei competenti non serve per migliorare ma per rendere “compatibili” con le convenienze dei privilegiati sia le entrate sia le uscite dello Stato. Poco importa se peggioreranno le condizioni di vita del popolo, se i giovani non troveranno lavoro o saranno precari a vita.
La realtà è quella che vede l’ennesimo riproporsi di un governo iperliberista, sotto la maschera di governo superpartes, ma che è espressione diretta dei poteri forti, delle lobby, di quel mondo che ci ha portato nella crisi attuale. Un governo, legato alle banche, alle imprese, al Vaticano, alle università private, ai privilegiati e ai ricchi, che è il contrario di quello che servirebbe ai discriminati. Un governo ipocritamente definito "tecnico", di cui nessun partito politico che siede in Parlamento vuole condividere le responsabilità di decisioni "impopolari", ma che tutti ritengono necessarie per evitare il default del Paese. Perché tutte le forze politiche condividono, senza avere il coraggio di dirlo, l'amara medicina della Bce che è da loro ritenuta una buona ed efficace terapia. Non sarà certo la tiepida patrimoniale che forse si farà o forse no a conferire alla manovra un timbro di equità.
La manovra che Monti varerà colpirà, infatti, con inaudita durezza innanzitutto i ceti popolari, l'impalcatura del welfare, il lavoro. Si capisce perché il Pd, completamente immerso nell'ideologia liberista e pienamente solidale sulla linea dettata dalla Bce, non voglia assumersi la responsabilità delle misure impopolari che saranno decise dal governo Monti. E' meglio, anzi necessario, condividerle con la destra, per fare in modo che la prevedibile reazione sociale non si ne individui la responsabilità esclusivamente su chi in questi anni è stato “all'opposizione”. Magari il Pd può cogliere l'occasione del Governo "tecnico" per sperimentare, nell’inarrestabile percorso di spostamento a destra, “nuove” alleanze politiche perfino con Berlusconi e il suo partito, o addirittura con gli ex fascisti.

sabato 12 novembre 2011

La “coerente responsabilità" del Partito democratico.

1) Il 14 ottobre il Governo Berlusconi ha ottenuto per la cinquantunesima volta la fiducia del Parlamento mentre “l’opposizione” di centro”sinistra” ha disertato la votazione e non si è opposta.
2) L’otto novembre il Governo sul rendiconto generale dello Stato ha ottenuto 308 voti perdendo la maggioranza alla Camera dei deputati. Il centro”sinistra”, pur presente in aula non ha votato, permettendo così l’approvazione del provvedimento.
3) L’11 novembre il senato della Repubblica ha approvato il disegno di legge di Stabilità (finanziaria). Il centro”sinistra”, con l’esclusione dell’Italia dei valori di Di Pietro che ha votato contro, non ha partecipato al voto.
4) Oggi 12 novembre si è ripetuto alla Camera, dove il centrodestra non ha la maggioranza, lo stesso scenario. Il disegno di legge di Stabilità, voluto dall’Unione europea, che produce un vero e proprio massacro sociale, è passato anche in questo caso solo grazie alla decisione di non partecipare al voto “dell’opposizione” come se la cosa non la riguardasse, con i voti minoritari del centrodestra, del terzo polo. I soli voti contrari (26) sono stati quelli dell’Italia dei Valori.
Che opposizione è mai questa? Il suo comportamento lungi dal proporre ricette alternative e dal creare ostacoli alla politica discriminatoria del Governo, ne facilita l’approvazione. Ogni volta il pretesto è diverso. Quello che conta, però, è la sostanza. Nonostante l’incomunicabilità di facciata e le liti di circostanza con Berlusconi, il centro”sinistra” facilita la sua opera di macelleria sociale e ne diventa complice.
Con la caduta del Governo, causata non dall’azione dell’opposizione parlamentare o dalla spinta delle lotte di piazza, che gli oppositori di circostanza si sono guardati bene dal promuovere, ma per un’implosione interna allo stesso popolo delle libertà (delle libertà di Berlusconi e dei padroni), si apre uno scenario che, per “l’opposizione” è in naturale continuità. Quella cioè di sostenere la necessità, non un pronunciamento popolare del popolo caprone ( sarebbe pericoloso), di quel popolo che è costretto come sempre a pagare, ma della formazione di un Governo “tecnico” a guida dell’esperto economista Mario Monti (nominato negli scorsi anni commissario europeo da Berlusconi e confermato, tanto per cambiare, dal governo di centro”sinistra” presieduto da D’alema, in coerente continuità).
E’ chiaro a tutti che il governo "tecnico" è solo una formula letteraria, intrinsecamente truffaldina, tesa a far credere una neutrale oggettività delle misure che si vogliono adottare, come se la Bce fosse un prodotto dell'Accademia delle scienze e le sue ricette equiparabili a un postulato della fisica. In realtà, non esistono, non sono mai esistiti e non esisteranno mai governi tecnici. Tutti i governi sono politici. Più di tutti quelli che dissimulano i propri intendimenti attraverso il travestimento tecnocratico. E’ quello che i lavoratori hanno imparato dal “tecnico” Dini che, proveniente dal centrodestra (in cui oggi è tornato), presiedette il primo governo “tecnico” con i voti del centro”sinistra”. Governo che inaugurò l’iter di azzeramento del sistema previdenziale pubblico e delle pensioni di anzianità, portato avanti poi indifferentemente dai vari governi Prodi e Berlusconi in perfetta continuità fra loro.
Il comportamento tenuto dal centro”sinistra” e dal Partito Democratico che permette, se all’opposizione, o decreta in prima persona pesanti attacchi alle condizioni di vita dei discriminati, se al governo, da troppo tempo certifica, se ce ne fosse ancora bisogno, la sua rinuncia a svolgere il compito di rappresentanza e di difesa degli oppressi e dei loro bisogni e chiarisce la sua collocazione sociale e politica nel campo del mercato e delle compatibilità capitaliste. Come da tempo anche il Partito Democratico esplicitamente va teorizzando e rivendicando.

mercoledì 2 novembre 2011

La democrazia dei capitali

La decisione assunta dal governo greco, di indire un referendum popolare sulle misure imposte dall’Europa per la “salvezza” della Grecia, ha suscitato un putiferio generale in Europa. Il Presidente francese e la Cancelliera tedesca hanno fatto esplicitamente capire il loro malcontento rispetto all’iniziativa che metterebbe a rischio la stessa stabilità economica dell’eurozona e della moneta.
Da parte loro gli speculatori finanziari, la cui attività speculativa non è messa da alcuno in discussione, ma è accettata come ineluttabile, hanno fatto tremare le borse e i vari indici economici che da tempo assillano i comuni cittadini che hanno sperimentato la triste realtà: Se questi indici sono positivi, non saranno loro a goderne i benefici, mentre se questo non è, a loro toccherà pagarne le conseguenze.
E’ ciò che sta avvenendo da troppo tempo nei paesi dell’eurozona, nei quali a una povertà crescente e generalizzata fa riscontro un altrettanto crescente ricchezza di pochi.
Come mai però la decisione del governo greco di ascoltare i cittadini ha fatto tanto scalpore? Come mai i governi dei paesi democratici dell’Unione Europea così solleciti e sensibili a intervenire militarmente, con le micidiali, costose e distruttive armi, per difendere la democrazia in tante aree del mondo (Iraq, Afganistan, Libia, ecc.), si scandalizzano quando un governo sente la necessità di far pronunciare il popolo sulle misure dolorose e drammatiche che intende realizzare? Il licenziamento di ventimila dipendenti pubblici, la decurtazione del 20% delle pensioni, ecc., per uscire “dalla crisi” non devono passare per una consultazione democratica? Perché?
La crisi colpisce soprattutto il popolo che è chiamato a essere il principale, se non esclusivo, bersaglio delle misure stesse. Il ceto politico invece ne è esentato e mantiene intatti i propri privilegi. Gli speculatori finanziari si arricchiscono allo stesso modo di quella cerchia di “imprenditori” che de localizzano e rimangono sul “mercato” mentre ai lavoratori si impongono patriottici sacrifici.
Come mai una consultazione popolare e democratica rischia di mettere in crisi la stessa Ue? Eppure un referendum, seppur tardivo, non solo fornisce l’opportunità ai cittadini di pronunciarsi sulle misure e ne testa anche l’equità?
E’ probabilmente quest’ultimo aspetto a essere pericoloso, a fornire un insidioso precedente e a spaventare le classi politiche e imprenditoriali così democratiche in altre e più convenienti occasioni.
Di quale democrazia si parla allora?
E’ un aspetto consolidato, infatti, quello che esclude sistematicamente dalle consultazioni elettorali i cittadini quando si tratta di salari, stato sociale e leggi sul lavoro. Mai è avvenuto, infatti, che qualche formazione politica di qualsiasi schieramento, di centrodestra o centro”sinistra” presentasse un programma elettorale che prevedesse l’azzeramento delle pensioni di anzianità e l’innalzamento dell’età pensionabile, eppure sono venti anni che il ceto politico ci lavora. Mai è stato chiesto da alcun partito un mandato per abolire il meccanismo di indicizzazione delle retribuzioni. Mai è stato richiesto un mandato per precarizzare il lavoro, come è avvenuto con le leggi Treu (del centro”sinistra” e Biagi del centrodestra). E si potrebbe continuare.
Tutte queste “misure” sono state decise sempre in date ben lontane da consultazioni democratiche esse hanno colpito solo il popolo per addormentarne poi le coscienze.
Finora, infatti, le sole risposte che i governi, che si sono succeduti hanno saputo dare riguardano il contenimento coattivo delle retribuzioni, i tagli ripetuti della spesa sociale e dei diritti acquisiti dai lavoratori. I privilegi del ceto politico e gli interessi economici degli imprenditori sono intoccabili.
Che democrazia è mai quella che mette d’accordo tutti i partiti, in caso crisi, nel chiedere sacrifici ai soliti noti cittadini, che fa sparire differenze apparentemente insormontabili che in tutte le altre occasioni ci sono e che mette d’accordo fieri avversari “nell’oggettività” di misure a senso unico?
Che democrazia è mai quella che chiede la fiducia del mercato, delle borse e degli speculatori e non si fida di quella dei cittadini?

giovedì 27 ottobre 2011

Con La scusa della crisi tagliano le pensioni e licenziano: perché non usare direttamente il gas nervino sulla gente?

Il Governo italiano ha inviato all’UE una lettera d’intenti su quanto intende realizzare per far uscire l’Italia dalla crisi, le principali decisioni riguardano: Pensione a 67 anni e licenziamenti facili.
Questi sono i capisaldi che dovrebbero creare le condizioni strutturali favorevoli alla crescita (di chi?).
A questi inimmaginabili e innovativi capisaldi di crescita economica, fa sponda il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano che afferma testualmente: ” nessuna forza politica italiana può continuare a governare, o può candidarsi a governare, senza mostrarsi consapevole delle decisioni, anche impopolari, da prendere ora nell'interesse nazionale e nell'interesse europeo”.
Quindi assonanza e condivisione col Governo anzi la stessa “opposizione” se vuole candidarsi a governare non può che condividere l’opera “riformatrice” il messaggio è chiaro.
Il contenzioso politico si riduce quindi, vista “l’oggettività” delle cose necessarie, al come farle digerire, in un afflato patriottico, ai lavoratori, pensionati e precari l’ennesima operazione di “risanamento” includendo, oltre le pensioni, ulteriori facilitazioni sui licenziamenti e Cassa integrazione per i dipendenti pubblici.
Maggioranza governativa e “opposizioni” devono dimostrare di essere capaci di assumere decisioni antipopolari. Chissà se l’ex (molto ex) comunista avrebbe avuto la stessa determinazione “riformatrice” trenta o quaranta anni fa. Oggi è più facile.
Il governo è in mano ad un monarca miliardario che ha ridotto il parlamento in un’assemblea impegnata prevalentemente a occuparsi dei fatti suoi e l’”opposizione” (di qualsiasi colore dell’arcobaleno) compete per sostituirsi a lui nella gestione delle stesse politiche economiche e sociali con le stesse logiche “riformatrici”.
Non esiste oggi, infatti, nel Parlamento, in barba alle decantate virtù democratiche della Costituzione, alcuna aggregazione politica che non sia schierata pienamente a favore del liberismo, le privatizzazioni, le compatibilità, la competitività capitalista e il mercato, delocalizzazioni e licenziamenti compresi.
Tutti i partiti che si sono alternati al Governo in questi ultimi venti anni, si sono impegnati, i fatti lo dimostrano, a tagliare pensioni e stato sociale, rendere “flessibile” il lavoro, a precarizzare l’occupazione e tagliare i servizi, mantenendo contemporaneamente un sistema fiscale che strozza i redditi fissi mentre grazia tutti gli altri. Favorendo così l’accumulo di ricchezza di pochi a danno della povertà di troppi.
Bel coraggio impopolare dovrebbero avere costoro. Prendersela ancora con i discriminati e graziare di nuovo i privilegiati. Del resto è quanto hanno fatto con gli scudi fiscali, condoni, leggi ad personam, emolumenti da nababbi per i parlamentari, profitti miliardari per gli speculatori finanziari e per gli industriali che possono licenziare e de localizzare e licenziare.
Belle riforme. Gran coraggio riformatore, anche se impopolare. Rilanciare lo sviluppo dell’economia della classe dei ricchi stroncando i salari e le pensioni.
Questa classe “politica”, si fa paladina fino alle estreme conseguenze, degli interessi dei privilegiati a discapito di quelli dei discriminati e non è un’esagerazione dirlo dei diseredati.
Occorre prendere coscienza di ciò. Da troppo tempo costoro propongono per l’oggi sacrifici in attesa di un domani migliore che per il popolo, tanto per rimanere in tema, non arriverà mai.
E la sinistra?
Se c’è una vera sinistra che si schiera dalla parte dei discriminati e che non spaccia per generali gli interessi dei padroni, è ora che si faccia avanti, denunciando i falsi amici dei discriminati e rimettendo le cose al suo posto: I privilegiati con i privilegiati e i discriminati con i discriminati, altro che centro”sinistra”.

martedì 18 ottobre 2011

La lezione del 15 ottobre

Quando si indice una manifestazione di protesta, lo si fa per evidenziare le cause di un malessere sociale e per attirare l’attenzione dei cittadini su qualcosa che altrimenti rimarrebbe sconosciuta.
Se questo è allora, occorre constatare che il messaggio che, anche grazie alle forzature dei mass media, è emerso dalla giornata degli indignati del 15 ottobre, ha annullato completamente quelle che erano e sono le ragioni dell’iniziativa, non allargando il consenso attorno a queste anzi fornendo alibi e scappatoie proprio a chi era l’oggetto della protesta.
E’ scomparso tutto dall’orizzonte: I tagli allo stato sociale, la disoccupazione galoppante, il precariato, la disperazione e la rabbia di tutti quelli che sono derubati del presente e del futuro, l’impoverimento della maggioranza dei cittadini e l’arricchimento senza freni di una minoranza, la speculazione finanziaria e la conseguente crescita forte dell’ingiustizia e della discriminazione sociale di pochi a danno di tanti.
A causa delle violenze di alcuni, non è stato possibile denunciare la continua violenza che subisce chi è impossibilitato a tirare avanti o lo fa a gran fatica, sacrifici e rinunce.
Queste questioni sono state completamente oscurate, grazie all’azione di pochi che con la loro violenza hanno stravolto l’iniziativa e impedito che, com’è avvenuto nel resto del mondo, la denuncia si alzasse forte e sonora dalle centinaia di migliaia di persone accorse a manifestare per segnare l’inizio di una stagione di lotta e di riscossa.
Il messaggio che è emerso invece è stato quello del disordine, del saccheggio e degli atti di vandalismo intollerabili verso i cittadini e delle violenze gratuite e ingiustificabili verso gli uomini delle forze dell’ordine che sono figli di lavoratori e lavoratori oppressi allo stesso modo di chi manifestava e che sono assurdamente diventati il nemico e il bersaglio delle violenze.
Questi “manifestanti” con il loro comportamento hanno fornito un aiuto inaspettato al Governo, al padronato e agli speculatori che oggi alla luce di quanto accaduto, hanno facile gioco a invocare l’ordine, il loro, e leggi liberticide. Il loro successo è tale che sono state vietate manifestazioni a Roma per i prossimi trenta giorni, a partire da quella della Fiom sulle questioni della Fincantieri.
Le violenze di sabato hanno fatto passare in secondo piano oltretutto le affermazioni eversive di personaggi istituzionali che continuano a prosperare sopra ogni legge e regola. Per costoro non c’è nessuna richiesta d’inasprimento di pene, non ci sono indagini ma impunità.
Il 15 ottobre nonostante tutto può essere una tappa importante se ne cogliamo il segnale. Quello che evidenzia la necessità di trovare un’interpretazione e una lettura originale e complessiva delle problematiche economiche e sociali che determinano l’attuale stato di cose. Assumendo la consapevolezza che ciò che viviamo non è determinato dal caso o dal destino cinico e baro e che l’arretramento economico e sociale subito dai discriminati è coinciso con l’arrembaggio economico e sociale dei privilegiati di cui è conseguenza.
Individuare cioè strumenti di analisi che permettano di risalire alle ragioni vere alla base della crescente disparità e ingiustizia sociale e ai soggetti veri che le determinano.
Due sono gli aspetti che indicano questa necessità.
Da una parte il bisogno di contrastare le ragioni ipocrite di chi accusa il movimento di essere antipolitico, come se la politica fosse un’entità astratta e soprannaturale, come se quella attuale fosse l’unica politica possibile. Costoro difendono una democrazia politica di parte che permette a gruppi di potere di usare gli strumenti democratici a loro esclusivo vantaggio, piegando le leggi a proprio piacimento, tagliando demagogicamente, in nome dell’interesse nazionale, le pensioni, precarizzando e affamando i cittadini. Sono proprio costoro che continuano a dichiararsi di sinistra usurpando fraudolentemente uno spazio politico che non appartiene loro perché ormai sono aperti sostenitori del liberismo, del mercato e delle privatizzazioni, al pari di chi governa, al quale non si oppone se non per competere per il posto di capotavola (altro che altra sinistra …).
L’altro aspetto riguarda la marginalizzazione e la rinuncia attuale del movimento a dare un’interpretazione e una lettura complessiva, organica e conseguente sulle cause e le responsabilità che determinano l’ingiustizia e la discriminazione sociale attuale.
Se da una parte è stato giusto relegare i partiti che avevano aderito alla giornata di lotta alla coda del corteo, per segnalare i difetti e gli errori del partitismo e del politicismo interclassista privo di scelte strategiche alternative, dall’altra parte, ciò ha segnalato anche sul piano organizzativo la rinuncia alla ricerca analitica delle cause dell’attuale malessere sociale e degli strumenti che solo un’utopia può fornire perché altrimenti non è possibile individuarne i responsabili, relegando le iniziative ad una pura ed esclusiva denuncia e protesta indefinita. Occorre invece avere acquisire la consapevolezza che alla radice di tutto sono la competizione sociale delle classi ed i meccanismi ad esse collegati.
In questo modo emergerà con chiarezza la collocazione che dovranno assumere le organizzazioni dei lavoratori e dei discriminati: Alla testa non alla coda del movimento e delle sue manifestazioni.
Occorre avere la consapevolezza che l’ingiustizia sociale di cui è vittima la maggior parte dei cittadini non è casuale, che i ripetuti tagli allo stato sociale non servono al Paese ma ad arricchire chi ricco già lo è: Capitalisti, padroni e speculatori. Questi ultimi all’unisono privano i lavoratori, i giovani e i pensionati dei loro diritti sociali e contrattuali e della loro libertà traducendoli in nuovi diritti e libertà per loro.
Per questo occorre dire basta a una finta sinistra che ha fatto proprie le tesi e gli interessi del padronato, del liberismo e del mercato e ha tradito gli interessi dei lavoratori costringendoli a subire e a pagare i costi di una crisi di cui non sono responsabili per “salvare” il Paese mentre i padroni de localizzano e licenziano.
Ricostruire e rilanciare perciò sulle analisi nuove energie politiche e sindacali che lottino coerentemente e conseguentemente per i diritti e gli interessi degli oppressi e dei discriminati ponendosi alla testa e non alla coda del movimento e della lotta.

sabato 8 ottobre 2011

I veri responsabili della strage di Barletta

Quattro euro l’ora, fino a quattordici ore al giorno di lavoro.
Questo, secondo il racconto dei parenti delle quattro operaie morte nel crollo della palazzina di Barletta, avrebbero percepito le donne che lavoravano, sempre secondo quanto si è appreso, a nero all'interno della maglieria travolta dalle macerie dell'edificio.
Ancora oggi è possibile riscontrare condizioni lavorative ben al di sotto di ogni limite di tolleranza.
Non sono state e non sono sufficienti tutte le norme che precarizzano il rapporto di lavoro e che costringono i lavoratori al ricatto continuo di rinunciare ai diritti contrattuali e civili di un equo salario in condizioni lavorative dignitose Senza contratto e ricompensate con quattro euro l’ora, anche per quattordici ore il giorno..
In un’epoca contrassegnata dal liberismo, dal mercato e dalla competitività internazionale, con un padronato arrogante e agguerrito, che intende cancellare tutte le regole di progresso e di civiltà costate lacrime e sangue, i lavoratori e le lavoratrici sono costretti per tirare a campare a subire condizioni lavorative inaccettabili e incivili.
Chi ha la responsabilità di queste morti?
A quello che è dato sapere il Pubblico Ministero interessato indaga per i reati di disastro colposo, omicidio colposo plurimo e lesioni colpose plurime e ha effettuato le iscrizioni al termine di tre giorni di interrogatori e di acquisizione di atti. Sarebbero interessati agli atti alcuni dipendenti comunali, l’amministratore di una società costruttrice che stava svolgendo lavori nelle vicinanze per verificare se i lavori eseguiti dall’impresa possano aver contribuito al disastro, e il titolare del maglificio in cui sono morte le donne, che nel disastro ha perso una figlia di quattordici anni, per accertarne la correttezza.
Non vi sono, al momento altri coinvolgimenti.
E’ illuminante quanto dichiarato dal sindaco di Barletta Nicola Maffei. ''Non mi sento di criminalizzare chi, in un momento di crisi come questo viola la legge assicurando, però, lavoro, a patto che non si speculi sulla vita delle persone'', ha sostenuto il primo cittadino. ''Qualora sia accertato che le operaie morte nel crollo della palazzina di via Roma lavoravano in nero o in condizioni di sicurezza precarie, questo significherebbe soltanto che si tratta di un fenomeno diffuso anche da noi, qui in città''.
Le affermazioni del sindaco oltre a sminuire le responsabilità locali enunciano molto semplicemente la realtà che tutti conosciamo. La realtà che vede il crescente impoverimento e l’inarrestabile precarizzazione dei lavoratori e li costringe a subire condizioni di lavoro e di salario infami. Che li obbliga, pena il licenziamento o la delocalizzazione aziendale, a subire l’arroganza padronale che li priva dei diritti acquisiti. L’aumento crescente del costo della vita, i ticket sanitari, le tasse, i continui tagli dello stato sociale fanno il resto.
E’ più che probabile che si tratti di un fenomeno diffuso a Barletta certo, ma dilagante in tutta l’area capitalista a libero mercato dove a farla da padrone, sono le leggi del profitto e della competitività globale con le loro spietate ligiche.
Le grandi aziende dell’abbigliamento, nella corsa inarrestabile al profitto, decentrano la loro attività dando lavoro conto terzi. In questo modo ricattano il “piccolo imprenditore” o padroncino strozzandolo con compensi non remunerativi per lui, ma fin troppo convenienti per loro e costringendolo ad caricarsi degli obblighi lavorativi e contrattuali verso i dipendenti, liberando e scaricando da ogni responsabilità civile, penale o contrattuale le aziende committenti.
Quest’ultime, con i loro avidi proprietari non saranno mai chiamati a rispondere dei reati di disastro colposo, omicidio colposo plurimo e lesioni colpose plurime o di sfruttamento di riduzione in schiavitù dei lavoratori. Pagheranno però, pur con le loro responsabilità che saranno accertate, figure di contorno che non sono la causa, semmai lo strumento di quanto accade. E tutto può tranquillamente continuare.
Vi è poi un’altra grande responsabilità che non sarà mai accertata e che non produrrà punizioni di nessun tipo, nemmeno morali, perché nessuno, oggi, pensa di attribuire: Quella delle istituzioni e dei Governi, di centrodestra e di centro”sinistra” che hanno sposato le tesi liberiste del padronato e del mercato operando “riforme” che hanno cancellato leggi e norme di civiltà e di progresso fondamentali, che hanno rotto i contratti di lavoro e con essi le regole e le certezze per le quali i lavoratori hanno combattuto. Governi che hanno permesso un gigantesco spostamento di ricchezza verso i pochi capitalisti a danno dei cittadini, dei lavoratori, dei precari e dei pensionati, attraverso un sistema fiscale perverso e persecutorio verso i redditi fissi, attraverso il taglio delle pensioni, attraverso le liberalizzazioni e le privatizzazioni, attraverso finanziarie e leggi che hanno, non è retorica, affamato i redditi fissi e tolto ai giovani qualsiasi speranza sul presente e sul futuro. Attraverso politiche che tutto hanno fatto tutto fuorché preoccuparsi di creare lavoro.
Vi è in ultimo la responsabilità del sindacato e dei partiti della “sinistra” che sposando le tesi liberiste - capitaliste, concertative, flessibiliste e patriottiche hanno lasciato soli i lavoratori davanti all’attacco di classe favorendo l’arroganza padronale e determinando l’arretramento e la sconfitta attuale dei lavoratori.

sabato 1 ottobre 2011

Le “riforme coraggiose, urgenti e profonde” di Emma Marcegaglia e della Confindustria

Il presidente di Confindustria, Emma Marcegaglia, ha presentato alla stampa il Manifesto-Progetto delle imprese per l'Italia. "Siamo pronti a fare la nostra parte come imprese" ha coraggiosamente esordito illustrando le priorità, secondo Confindustria, Abi (associazione banche), piccole e medie imprese, coop, Ania (associazione nazionale delle assicurazioni),contenute nel documento.
“Salvare l’Italia non è uno slogan retorico”, ha detto la patriottica rappresentante del padronato italiano. ”Non si può assistere inerti a questa spirale. E’ in gioco più della credibilità del Governo e della politica (?). Sono a rischio anni e anni di sacrifici (sacrifici fatti da chi?) ”. E, continua, “è a rischio la possibilità di garantire ai nostri figli (i figli di chi?) un Paese con diritti ( come Pomigliano? e i contratti di lavoro? e l’art.8? e il lavoro precario? e i ticket sanitari? e le pensioni?), benessere e possibilità pari a quelli che abbiamo ( abbiamo chi?) avuto fino a oggi”.
La leader di Confindustria ha affermato ancora: "L'Italia è a un bivio: crescita o declino" per questo il documento contiene le proposte (innovative e coraggiose) al governo, del padronato italiano, per rilanciare l'economia. Qualora le proposte non trovassero ascolto e non ci fosse concretezza " non ci sarà più dialogo", cioè la Confindustria smetterà di sostenere l’attuale Governo.
Quali sono, per gli industriali italiani, le cose da fare urgentemente e concretamente?
Pensioni. La riduzione della spesa pubblica, a partire dalla riforma delle pensioni.
Per la Confindustria si deve aumentare l'età pensionabile per tutti a 65 anni, e “riformare” le pensioni d'anzianità (cioè eliminarle), limitando il pensionamento anticipato. Abrogare, inoltre, tutti i regimi speciali previsti dall'INPS e dagli enti previdenziali. "In questo modo – sostiene la “riformatrice coraggiosa” - si eliminerebbero privilegi che non trovano alcuna giustificazione", (ci sono forse privilegi che trovano giustificazione? Con quale diritto e legittimità la massima rappresentante del padronato italiano denuncia il privilegio visto che il padronato è fra i soggetti titolari di privilegio il principale?).
Ci vuole proprio un bel coraggio a proporre di tagliare le pensioni dopo quindici anni di tagli e dopo averla quasi completamente tolta alle giovani generazioni. Coraggio nelle scelte che, soprattutto, colpiscono i lavoratori ed i discriminati non certo i benestanti che non debbono certo vivere di stipendi e pensioni.
Le pensioni ormai taglieggiate e immiserite da venti anni di “rigorose e coraggiose riforme” operate da governi di ogni colore, per salvare l’Italia naturalmente (l’Italia di chi?), sono lo strumento sociale, che il padronato propone di decurtare ulteriormente, per salvare l’Italia naturalmente, attraverso il quale oggi le famiglie, in maniera sempre meno sufficiente, si sostituiscono allo stato per il sostentamento dei giovani derubati, tanto per parlare del diritto, del diritto al lavoro e a un’esistenza libera e dignitosa. Diritti tanto sonoramente affermati nella Costituzione, quanto negati nella realtà.

Riforma fiscale. La “riforma fiscale è un’altra delle cinque priorità indispensabili per la crescita individuate da Confindustria, sulle quali il Governo deve intervenire al più presto perché “ non c’è più tempo e si deve agire ora”. La prima azione da fare sarebbe ridurre il costo del lavoro(bella novità, non basta il cuneo fiscale varato dal Governo Prodi che regalò un 5% del salario differito alle aziende sottraendolo dalle tasche dei lavoratori), prolungando, ad esempio, la deduzione dalla base imponibile IRAP delle spese relative gli apprendisti. "Una misura per incentivare il lavoro giovanile" (diminuendo i costi per le povere aziende).
Incentivare l'innovazione, aumentando gli sgravi fiscali per i capitali investiti in ricerca e sviluppo e introducendo forme d’incentivazione stabili a sostegno delle quote di salario correlate a incrementi di produttività ed efficienza.
Prevedere da subito "l'aiuto alla crescita economica (ACE)" previsto dalla bozza di legge delega per la riforma fiscale e assistenziale, che consente una riduzione del prelievo Ires commisurata al nuovo capitale immesso nell'impresa.
Contrastare radicalmente, in ultimo, l'evasione fiscale. Come? Incentivando l'uso della moneta elettronica: cioè fissare a 500 euro il limite per l'utilizzo di contante, prevedendo premi fiscali legati all'aumento di reddito per far emergere il sommerso e obbligando anche le persone fisiche a indicare il proprio "stato patrimoniale" nella dichiarazione dei redditi.
“la patrimoniale andrebbe introdotta e dovrà servire ad abbassare le tasse sulle imprese e sul lavoro” sostiene la Marcegaglia. Di tutte le priorità fiscali enunciate dal Manifesto, che comportano vantaggi solo per padroni e imprese, con sgravi, incentivi e, addirittura premi fiscali legati all’aumento di reddito derivante dall’emersione del sommerso, non ce n’è alcuna che preveda sgravi fiscali per i lavoratori e i cittadini a reddito fisso, i quali, grazie al sostituto d’imposta che toglie loro le tasse senza che essi le abbiano potute nemmeno intascare, non potranno percepire alcun premio fiscale. Continueranno, però naturalmente, a pagare le tasse più di tutti e per tutti.
Cessione del patrimonio pubblico. Non vi sono dubbi, per Confindustria, Abi, Ania e rete imprese cooperative (comprese quelle di “sinistra”?) che hanno sottoscritto il documento: per stimolare la crescita bisogna cedere tutto il patrimonio immobiliare degli enti statali e locali. I proventi potrebbero così essere utilizzati "al di fuori dei limiti del Patto di stabilità interno, per opere pubbliche, manutenzione straordinaria e ristrutturazione del patrimonio esistente, anche a fini di efficienza energetica".
Chi, e quali categorie sociali, sarebbe in grado di approfittare di questa priorità, delle cessioni e dell’utilizzo dei proventi di queste, forse i lavoratori con il loro misero stipendio o gli operai in cassa integrazione della Fiat, o i precari, o i disoccupati, o i pensionati, oppure tutto questo provocherà profitto per i soliti noti, intrallazzi e corruzione?

Liberalizzazione e semplificazione
. La trovata “innovativa” della Confindustria è chiara: liberalizzare tutto. Trasporti, attività economiche, servizi professionali, vietando la fissazione di tariffe ( a vantaggio e a danno di chi?) e riformando gli ordini professionali. Per la semplificazione, bisogna investire nell'informatizzazione dei processi e dei documenti, così da velocizzare il rapporto tra imprese e pubblica amministrazione. Le solite “proposte disinteressate” di chi approfittando della crisi vuole mettere le mani e legare ad una logica di profitto attività e servizi ai danni dei cittadini.
Infrastrutture ed efficienza energetica. Convertire le infrastrutture italiane, sostengono i disinteressati imprenditori, è una misura sempre più urgente. Per farlo, le soluzioni proposte sono molteplici, partendo dall'incentivare il coinvolgimento della finanza privata negli investimenti pubblici. Bisogna "concentrare le risorse sulle grandi priorità infrastrutturali - scrivono - d'interesse europeo e nazionale, e su pacchetti di piccole opere" (…. soldi alle imprese e tangenti ai politici).

Per l'efficienza energetica si dovrebbero, come minimo, prorogare gli incentivi fiscali (ma va e a favore di chi?) fino al 2020, pensando nel frattempo a introdurre una normativa per promuovere l'uso di standard tecnologici più efficienti in tutti i nuovi investimenti. E gli industriali di efficienza ne hanno dimostrata fin troppa nell’arricchirsi a spese di tutti in attività strategiche come l’energia, i trasporti, acqua, ecc.
Il manifesto, quindi, non dice nulla di nuovo e di diverso da quanto il padronato nostrano va dicendo da sempre e, in modo più insistente, dagli ultimi trenta anni, contrabbandando i propri interessi con il bene nazionale. Nulla nel manifesto è previsto, nonostante i roboanti proclami sulla parte di sacrifici che dovrebbero dare loro, riservando il loro coraggio solo per affermare la parte degli altri.
“Siamo pronti a fare la nostra parte come imprese” dice la Marcegaglia. In che modo? Questo non è detto nel loro manifesto.
Sono forse disponibili:
A non de localizzare le loro imprese per lucrare sulla manodopera sfruttando gli occupati all’estero e licenziando gli operai italiani che dicono di voler salvare?
A mettere fine al precariato che distrugge la libertà dei giovani e consente loro di arricchirsi alle loro spalle privandoli della libertà?
A non condizionare i lavoratori con il ricatto: o lavoro o diritti?
A non mettere in discussione i Contratti nazionali di lavoro?
A pagare le tasse e non portare i capitali all’estero?
Queste sono solo alcune delle tante domande, che si potrebbero fare.
La realtà è sotto gli occhi di tutti: Gli imprenditori sono a carico dello Stato (il loro), finanziato però dai lavoratori, nonostante ciò, essi contestano lo Stato e i Governi di ogni colore che, li hanno mantenuti per decenni a nostre spese attraverso politiche su misura e di classe, concessioni e finanziamenti. Ora cercano di rilanciarsi attraverso pseudo priorità “coraggiose e innovative” che invece ripetono e ripropongono ancora una volta come salvifici i triti interessi padronali, per costringere i discriminati a piegare ancora la schiena in attesa di un futuro migliore che, per loro, non verrà mai.

sabato 24 settembre 2011

"Prima la pace, poi lo Stato. E solo attraverso negoziati diretti".

E’ quanto ha risposto il premier israeliano Benyamin Netanyahu alla richiesta avanzata dai dirigenti palestinesi all’Onu, tesa a ottenere il riconoscimento dello stato di Palestina entro i confini del 4 giugno del 1967 con Gerusalemme est capitale.
Netanyahu, pur facendo riferimento alla pace, con la sua frase sintetizza l’arroganza e la prepotenza della posizione israeliana. Di un paese cioè che contando sulla forza delle proprie armi e sull’appoggio perenne degli Stati Uniti, che hanno permesso e garantito la recente nascita dello stato d’Israele sulla terra di Palestina, pretende di dettare le condizioni per il riconoscimento del diritto all’esistenza di un altro popolo sul territorio su cui da sempre i palestinesi hanno vissuto.
Il riconoscimento dello stato palestinese, secondo Benyamin Netanyahu, sarebbe condizionato, dal preventivo riconoscimento dello stato di Israele e dalla pace con esso. La strumentalità di questa posizione appare evidente: Quale entità nazionale, geografica e politica potrebbe e dovrebbe fare la pace con Israele se non ne esiste alcuna riconosciuta da parte palestinese?
Perché la nazione di Israele è uno stato riconosciuto anche in sede Onu, mentre la nazione palestinese no?
Perché e sulla base di quale ragione, Israele pretende di condizionare il riconoscimento del diritto all'esistenza in vita di una forma stato di un altro popolo, quello palestinese?
Dal 1967, anno della guerra dei sei giorni, Israele occupa buona parte dei territori palestinesi, e, con la scusa della sicurezza interna, porta avanti con la forza delle armi una politica aggressiva di colonizzazione di quel territorio, con consistenti e inarrestabili insediamenti abitativi armati cacciando ed espellendo dalla propria terra i palestinesi.
Tutto ciò non acuisce la crisi e rende sempre più improbabili le possibilità di pace?
La realtà dei fatti è che non conviene a Israele arrivare a una pace perché, nelle condizioni attuali, con il pretesto della propria sicurezza nazionale, riesce ad allargare con la forza ininterrottamente da più di quaranta anni i propri confini. Nel frattempo l’intero popolo palestinese è sottoposto a una feroce e aggressiva occupazione militare e umiliato sulla propria terra.
Il Presidente palestinese nel suo intervento di ieri alle Nazioni Unite ha attribuito la responsabilità per il fallimento dei negoziati di pace a Israele, che ha accusato di cimentarsi in una «politica colonialista» verso gli arabi che si somma «all'occupazione militarizzata» dei Territori palestinesi. «Israele continua la sua campagna demolitrice e la sua pulizia etnica verso i palestinesi» ha detto Abu Mazen, rilevando che tale aggressione non risparmia i «luoghi sacri» arabi. Il Presidente palestinese ha chiarito che il suo discorso non intende «isolare o a delegittimare Israele», ma «delegittimare la sistematica colonizzazione» dei Territori palestinesi.
«Dichiaro qui che l'Olp è pronto a tornare immediatamente al tavolo del negoziato» se cesseranno le «attività d’insediamento» nei Territori occupati.
Il consenso ricevuto dall’intervento all’Onu di Abu Mazen fa sperare che le giuste richieste palestinesi vengano accolte, superando il preannunciato veto americano che, grazie a regole ingiuste diventa determinante.
Il consenso ricevuto dall’intervento di Abu Mazen all’Onu fa sperare che quest’organismo dimostri, nonostante tutto, la sua autonomia contribuendo alla libertà e al diritto del popolo palestinese e non alimentando il sospetto di intervenire solo quando interessi agli Stati Uniti, alle banche e al mercato.

venerdì 9 settembre 2011

Linguaggi fumosi e negazione delle differenze sociali

Il Presidente della Repubblica, nel mentre in Parlamento si stanno prendendo decisioni che peggioreranno molto la vita dei cittadini italiani, in particolare quelli a reddito fisso (lavoratori e pensionati), interpretando il suo ruolo di garante e custode super partes della Costituzione e dei “valori” nazionali, tenta di rilanciare un discorso “unitario” o meglio interclassista, nel tentativo di convincere il popolo che sì, ci sono cose che non vanno ma che esistono tutte le condizioni per la rinascita del Paese e con essa per il superamento dei problemi esistenti, basta solo che, tutti insieme si lavori per risanare la finanza pubblica e si superi la crisi.
Il Presidente si riferisce subito all'ondata di antipolitica che scuote il Paese. Napolitano, in sintesi, invita a non generalizzare: "Oggi bisogna prestare qualche attenzione all'uso dilagante di certe espressioni come casta politica o si rischia di diventare come la notte in cui tutto è grigio e diventa nero. Non posso che parlare del Parlamento come di un’istituzione fondamentale, insostituibile, irrinunciabile e con una funzione pedagogica".

Si potrebbe dire che il suo sforzo, teso a smorzare la rabbia crescente dei cittadini taglieggiati verso una classe politica intoccabile e privilegiata, è sovrumano, ma è destinato a fallire. Infatti, anche se non esistono, allo stato attuale dei fatti, aggregazioni politiche che denuncino l’esistenza conclamata e dilagante dell’ingiustizia e della discriminazione sociale è vero, però, che la maggior parte dei cittadini, che paga sulla propria pelle le scelte che governo e padronato stanno portando avanti da tempo, che vede diminuire i suoi diritti, peggiorare le proprie condizioni economiche, azzerare i servizi e cancellare il proprio futuro, un giudizio di fondo, che non è qualunquismo, sull’attuale classe dirigente: Governo, Parlamentari e imprenditori, l’ha definitivamente dato con una parola che oggi va molto di moda: Casta (coloro che condividono una medesima condizione sociale ed economica diversa e privilegiata rispetto quella di altri, la maggioranza, che di conseguenza sono discriminati).
La parola “casta” o privilegio sicuramente più “moderna” sostituisce quella che molti, compreso Napolitano usavano fino a pochi anni fa: Classe o discriminazione.
Denunciare l’esistenza di una casta o differenziazione di classe non può essere solo lo scoop di qualche avveduto giornalista che cerca di diffondere la convinzione per cui il privilegio è un’esclusiva dei soli parlamentari. Di questa realtà, si stanno convincendo masse crescenti di discriminati che, davanti al drammatico peggioramento delle loro condizioni di vita, vedono permanere, anzi aumentare il privilegio, la ricchezza di pochi e la disuguaglianza, in barba alla Costituzione.
Napolitano, dimenticandosi delle proprie convinzioni (?) giovanili, di quando da dirigente del Partito Comunista Italiano si schierava dalla parte dei deboli e dei discriminati contro l’ingiustizia e la prepotenza padronale, oggi cerca di far credere che sostenere le stesse analisi e denunciare l’esistenza del privilegio, sia far proprie tesi antipolitiche o qualunquiste, simili a quelle che determinarono l’avvento del fascismo in Italia e per questo siano un attacco alla politica (?) e, soprattutto alle istituzioni democratiche. Con l’occasione, Napolitano cita Antonio Gramsci e la sua riflessione sulla responsabilità della sinistra nella genesi del fascismo, facendo un improbabile parallelo con la situazione attuale e tentando di accreditare la tesi per cui, fra le tante responsabilità dei comunisti "fummo anche noi senza volerlo parte della dissoluzione generale della società italiana", dove "quel noi si riferiva alla parte che Gramsci rappresentava", ci sia anche quella di aver facilitato l'avvento del fascismo.
Napolitano fa, oggi, tali considerazioni, si appella al suo passato per disconoscerne, ancora una volta, le ragioni e taccia per antipolitica e attacco alle istituzioni il comportamento di chi, anche davanti alla realtà, oggi si ostina a parlare di casta e di privilegio.
Se esiste la casta e il privilegio, allora esiste l’ingiustizia e la discriminazione. Del resto come non definire privilegio quello di cui godono i parlamentari che tagliano pensioni e stipendi e, mentre aumentano le tasse per i cittadini e chiudono ospedali, mantengono intatte, al di la del fumo, le proprie condizioni e il proprio privilegio?
Come non definire casta quella della Confindustria e del padronato che incamera profitti enormi, di cui non è nemmeno possibile stabilire l’entità, che evade le tasse rifugiandosi nei paradisi fiscali, che de localizza le proprie aziende per risparmiare sulla manodopera (alla faccia dello spirito patriottico), che precarizza, che toglie il diritto di sciopero di malattia e che pretende di licenziare senza giusta causa ripristinando rapporti economici e sociali superati dal tempo e dalle lotte dei lavoratori?

"Per restare in Europa è necessario un esame di coscienza collettivo che deve riguardare anche i comportamenti individuali di molti italiani di ogni parte politica e sociale. Molti italiani devono comprendere che non siamo più negli anni ottanta e tanto meno negli anni settanta. Il mondo è radicalmente cambiato e anche noi dobbiamo cambiare i nostri comportamenti e le nostre aspettative in senso europeo per mantenere una nostra prospettiva in Europa". E’ quanto sostiene il Presidente della Repubblica. Occorrerebbe che spiegasse cosa significa però oggi restare in Europa, a quale prezzo e perché mai i lavoratori, i pensionati e i precari dovrebbero desiderare di stare in Europa?
Ancora cosa significa esame di coscienza collettivo anche dei comportamenti individuali, a chi ci si riferisce? Quali sono i soggetti sociali che devono cambiare i propri comportamenti e le proprie aspettative e soprattutto in che modo, per mantenere una nostra prospettiva in Europa?
Sarebbe necessario forse un linguaggio più chiaro e diretto in una situazione come l’attuale. Sarebbe soprattutto necessario che il crescente malcontento dei lavoratori contro l’attuale evoluzione politico-economica trovasse adeguate voci e rappresentanza nel Paese e in tutti quei luoghi dove si decide sulla loro pelle.

lunedì 5 settembre 2011

Le “riforme” del Governo e lo sciopero generale.

La “crisi economica” che colpisce come sempre i lavoratori sta fornendo, al Governo e ai suoi sostenitori Cisl, Uil, Confindustria e partiti politici, il pretesto per l’assalto finale a quello che resta dei diritti di quei cittadini che per necessità sono costrettti a diventare lavoratori dipendenti.
L’enormità di quanto sta accadendo appare evidente nella norma (art. 8) della manovra economica del Governo. Questo articolo da il diritto e la libertà ai “datori di lavoro” di licenziare un lavoratore dipendente o di derogare a leggi e contratti di lavoro, quando questo sia deciso in accordo con sindacati percentualmente più rappresentativi a livello territoriale o aziendale. Questi sindacati, in base all’art. 8 possono sottoscrivere accordi con le aziende in deroga che privano i lavoratori di tutele e diritti compresi quelli previsti dalla Costituzione. L’ultima modifica all'articolo del decreto stabilisce che possono sottoscrivere le intese in questo senso non solo le "associazioni dei lavoratori comparativamente più rappresentative sul piano nazionale o territoriale", ma anche le "loro rappresentanze sindacali operanti nelle aziende"; le intese avranno, però, "efficacia per tutti i lavoratori”.
I diritti fondamentali dei cittadini, quelli sanciti dalla prima parte della Costituzione, e i contratti di lavoro diventano, per chi lavora sotto padrone, carta straccia.
Molte considerazioni possono essere fatte in proposito. Due in particolare: E’ sufficiente un accordo territoriale o addirittura aziendale, fra imprenditori e sindacati “rappresentativi” per privare un lavoratore dei diritti di libertà e uguaglianza fondamentali. Il lavoratore, in base a ciò, non è più titolare di tali diritti a prescindere, come cittadino della Repubblica, perché questi gli possono essere tolti e revocati da altri soggetti quali il padrone e il sindacato che hanno, loro, il potere di farli diventare cittadini detentori di diritti di serie b.
Quale democrazia è mai quella che permette a soggetti terzi sulla base di valutazioni economiche di privare altri cittadini di diritti inalienabili e primari, previsti dalla legge fondamentale, nata dalla lotta partigiana, sulla quale è costruito il patto fondante del Paese e del Popolo italiano?
Il diritto all’uguaglianza dei cittadini è definitivamente compromesso perché, anche formalmente, i cittadini sono titolari di diritti diversi legati alla loro condizione economica e al loro stato sociale che li costringe a diventare lavoratori dipendenti.
La contrattazione decentrata a livello territoriale e aziendale non è un’invenzione di questo governo, da sempre è stato possibile sottoscrivere, laddove ve ne erano le condizioni e la forza, contratti migliorativi di quelli esistenti e mai intaccare o far venire meno leggi. A differenza del passato, però, ora il sindacato, in particolare quei sindacati disponibili e collaterali al padronato e ai suoi interessi, potranno, in base alle “ innovazioni” firmare e validare accordi peggiorativi di leggi e contratti che possono negare diritti consolidati e irrinunciabili.
Il sindacato inoltre cessa, anche formalmente, di essere uno strumento di organizzazione e difesa degli interessi e dei diritti dei lavoratori perché diventa uno strumento istituzionale di gestione dei rapporti di lavoro oppure, addirittura, uno strumento delle aziende e del padronato acquisendo il potere e il diritto (sulla base di quale mandato?) di privarne, chi dovrebbe tutelare nei suoi diritti di cittadino, quando diventa lavoratore. Non sono questioni da poco.
In questo contesto occorre sostenere quelle forze sindacali alternative che sono dalla parte dei lavoratori e che resistono all’attacco padronale. A partire dalla Fiom che è il vero motore dello sciopero generale del 6 settembre unitamente ai sindacati di base, per rafforzare la sua battaglia contro il padronato e le componenti concertative e liberiste presenti nella Cgil che hanno prodotto la deriva compatibilista e flessibilista con gli interessi del mercato del più grande sindacato italiano e che fanno diventare portavoce delle forze sociali la Marcegaglia, per fare il modo che il 6 settembre sia l’inizio di una stagione di ripresa delle lotte e di riscossa dei lavoratori e non solo un sistema per accontentare le frange più combattive del mondo del lavoro e poi far passare, come fino ad oggi è stato fatto, anche questa ennesima manovra antipopolare e liberticida.

mercoledì 10 agosto 2011

La “crisi economica” è il pretesto per incrementare la discriminazione sociale e il privilegio.

La prima crisi del petrolio si verificò quaranta anni fa, agli inizi degli anni ’70, dopo le lotte e le vittorie del movimento operaio e studentesco. Lotte che produssero un notevole passo in avanti per i lavoratori, sia sul piano economico, sia sul piano sociale sia dei diritti.
Da allora, in maniera palese o attraverso logge massoniche segrete è ripreso, con ogni mezzo, il lavorio per togliere ai discriminati quelle conquiste che erano riusciti a strappare al padronato, ai ricchi e ai privilegiati.
Questo è stato possibile a seguito della cancellazione e dalla scomparsa dallo scenario politico italiano di qualsiasi partito o sindacato che avesse, utilizzando lo strumento dell'analisi dei rapporti di classe, l’obiettivo di battersi contro l’ingiustizia e la discriminazione in rapporto all’appartenenza sociale. Non esiste più, infatti, una forza politica o sindacale credibile, tantomeno in Parlamento, che non basi la sua azione politica sul liberismo e sul mercato e che non abbia ricorso o quantomeno permesso, in queste “crisi interminabili” lo sterminio sociale dei discriminati, favorendo, nei fatti, il privilegio dei ricchi e dei potenti e le differenza sociali che sono tornate a crescere con la ripresa e l'aumento dell’ingiustizia sociale e della discriminazione.
Fare l’ennesimo elenco delle conquiste rubate sarebbe ripetitivo e avvilente. E’ un fatto però che non s’intravvede la fine di questa fase di aggressione sociale dei privilegiati e di sconfitta e di arretramento sociale per i lavoratori e per chi condivide, con loro, la medesima condizione sociale.
Il padronato e le forze politiche che portavoce dei loro interessi, continuano ancora a discutere su cosa altro togliere ai lavoratori (non soltanto sul piano economico e le pensioni, su cui stanno “lavorando” ormai da più di venti anni, ma anche su quello dei diritti per “salvare l’economia” naturalmente. Stanno, proprio in questi giorni studiando come cancellare definitivamente lo Statuto dei Diritti dei lavoratori), mentre nulla prevedono verso le ricchezze e i patrimoni.
Costoro hanno spogliato i lavoratori ed i discriminati di ogni conquista e di ogni diritto. Dove vogliono arrivare? Non basta, per “salvare” questa economia, togliere diritti fondamentali di libertà e dignità ai cittadini lavoratori, decurtare stipendi e pensioni e cancellare qualsiasi accettabile prospettiva futura alle giovani generazioni? Credono forse, che per rilanciare l’economia, occorra tornare alla servitù della gleba? Ma in quel caso quale economia si salverebbe? Quella di chi ha incrementato il loro privilegio ed ha continuato ad arricchirsi non certamente quella dei discriminati che non vedono la fine delle rinunce e del peggioramento delle loro condizioni.
Occorre prendere conoscenza e coscienza che non siamo tutti sulla stessa barca. Che la crisi non colpisce tutti. Che in questa Repubblica, contrariamente ai giuramenti ed alle dichiarazioni solenni, non siamo tutti uguali perché non siamo detentori tutti degli stessi doveri e degli stessi diritti, non condividiamo lo stesso destino.
Avere coscienza di ciò è la condizione per far cessare l’attuale andazzo politico ed economico e tentare di cominciare ad invertire la situazione avendo la consapevolezza della difficoltà, dei tempi e delle lotte necessari.

lunedì 25 luglio 2011

Liberi speculatori

Rating, spread, default, mercati, competitività, borsa, speculazione finanziaria, debito pubblico, sono termini di cui sentiamo sempre più spesso parlare. Pochi conoscono il loro esatto significato.
Abbiamo tutti imparato però a nostre spese, che ogni volta se ne sente parlare arrivano tasse, tagli alla spesa pubblica, ai servizi, alla sanità, alla scuola, stipendi e pensioni, diritti sociali, uniti a un peggioramento delle condizioni di lavoro e disoccupazione.
Quando gli indici economici sono negativi, quando Piazza Affari "perde", i giornali e la tv danno enorme risalto alla notizia diffondendo ansia e angoscia. Se poi una delle agenzie che realizzano (Moody’s o Standar & Poor’s) ricerche finanziarie e analisi su titoli azionari e obbligazioni modifica in peggio il rating del Paese, arriva il panico. Quando gli indici economici sono negativi, (sempre) si crea nell’opinione pubblica una situazione da psicodramma. Non sono contestati i dati negativi. Non è contestata l’azione speculativa di chi, per proprio esclusivo vantaggio e guadagno è insensibile ai richiami patriottici (il denaro non ha nazionalità) e vince, incamerando privatamente una valanga di denaro, mentre quando perde a pagare è la collettività (ovvero i cittadini) non lui.
Il mercato, la speculazione e la competitività sono diventati i nuovi totem, la nuova dogmatica ideologia. Sono la “nuova” variabile indipendente, cui condizionare tutto il resto: occupazione, salari, diritti civili e sociali, servizi.
Se gli indici economici sono negativi, non è ricercato chi o coloro che, con azioni predatorie, costringe alla fame nazioni e popoli, tutt’altro. La speculazione e tutte le sue conseguenze negative sono considerati possibili e quindi legittimi, poco importa se produrranno lacrime e sangue per i redditi fissi e i disoccupati.
Quando gli indici economici sono negativi, il Presidente della Repubblica, il Governo, i partiti (tutti), la Confindustria e il sindacato cominciano a parlare di Patria e coesione nazionale, di politica di rigore e di sacrifici. Sacrifici che non faranno gli speculatori, né chi durante tutti questi anni ha continuato ad arricchirsi mentre tutti gli altri s’impoverivano. Personaggi che anzi potranno continuare tranquillamente a speculare. Non ci sarà alcuna forza dell’ordine che li perseguiterà o arresterà per le sofferenze che procureranno, per la semplice ragione che non esiste alcuna legge che vieti la speculazione. Ci mancherebbe altro. E’ il mercato bellezza. La legge e le leggi nostrane antepongono al diritto collettivo, a un’esistenza dignitosa e libera, il diritto privato all’arricchimento sfrenato, senza limiti, a qualunque costo.
Quando gli indici economici sono negativi (anche quando non lo sono, in realtà), gli speculatori possono continuare tranquillamente a esportare clandestinamente capitali all’estero e a ripulirli con lo scudo fiscale al cinque per cento (tanto saranno i salari a essere tartassati, togliendo perfino i trattamenti di famiglia); possono trasferire o de localizzare le loro aziende in altri paesi e licenziare i lavoratori; possono guadagnare utili o profitti senza limite alcuno, congelare stipendi e pensioni e costringere alla precarietà intere generazioni di lavoratori; possono incamerare stock option per milioni di euro annuali e fare new company tagliando pause e diritti; possono andare in pensione dopo soli due anni e mezzo se parlamentari e obbligare i cittadini a non andarci mai, o dopo quarantuno anni di lavoro; possono curarsi all’estero, avendone le risorse (a partire dai massimi rappresentanti del governo e del padronato) e costringere invece i cittadini a reddito fisso ad accontentarsi della chiusura di ospedali o di pagare ulteriori ticket per le prestazioni sanitarie (stesso discorso per la scuola).
Tutto ciò può tranquillamente continuare e non essere messo in discussione, fa parte della libertà (?). Agli speculatori non è chiesta alcuna coesione nazionale.
La coesione nazionale viene richiesta ai lavoratori, pensionati e precari per convincerli a rinunciare patriotticamente ai loro salari e pensioni, ai loro diritti e servizi in nome della libertà (per chi?) e della democrazia. Quale democrazia e quale libertà? Non certo quelle di chi ha sempre pagato. E sa che continuerà a pagare sempre di più.

lunedì 11 luglio 2011

Coesione, oggi più che mai (?)

E’ quanto ha affermato il Presidente della Repubblica davanti ai dati “preoccupanti” (per chi?) riguardanti l’andamento dei mercati finanziari. Ha solidarizzato subito la responsabile e patriottica presidente di Confindustria, Emma Marcegaglia, che ha sostenuto testualmente: ” "In un momento difficile come questo, dove tutti i Paesi europei, e anche l'Italia, sono chiamati a gestire situazioni complesse anche per le turbolenze dei mercati finanziari, credo sia opportuno riunirsi intorno ai simboli del nostro Paese e lavorare tutti assieme nella stessa direzione per difenderlo e costruire un futuro migliore per i nostri figli". Al coro di afflato nazionale si aggiunge in ultimo Bersani, segretario del Partito democratico, che rilancia: "Siamo di fronte a passaggi delicati che devono consigliare serietà e il rifiuto delle speculazioni. Invita la Ue e il governo italiano a occuparsi di crescita e lavoro, per un messaggio di solidità ai mercati. La manovra? Alla nostra disponibilità a collaborare il governo non risponde mai con i fatti".
Il quadro è completo, i nostri nazional-rappresentanti, ognuno per le sue responsabilità, chiamano il popolo italiano a lavorare tutto assieme e tutto unito in un medesimo destino e condizione, nella stessa direzione, per salvare il Paese e costruire un futuro migliore per i nostri figli.
I figli di chi? Dei capitalisti nostrani, forse, che non solo non hanno sentito alcuna crisi, ma anzi hanno continuato ad accumulare ricchezza proprio mentre impoverivano i redditi fissi e precarizzavano i giovani, derubandoli del loro futuro e depredandoli della libertà. O ancora delocalizzando aziende per risparmiare sui salari approfittando sulla fame di lavoro. Cancellando, grazie a sindacati compiacenti, diritti di civiltà e libertà consolidati costati lacrime e sangue.
Quale destino comune hanno dunque da spartire i loro figli con quelli degli operai, impiegati, pensionati, disoccupati e sottoccupati?
Oppure i figli dei parlamentari italiani che continuano, anche loro, a godere di trattamenti e privilegi scandalosi, che si guardano bene dal ridimensionare mentre, con le varie manovre economiche, tagliano a tutti gli altri cittadini pensioni, impongono tasse e ticket, chiudono ospedali da una parte e concedono scudi fiscali o si confezionano leggi su misura dall'altra?
Di quale Paese parlano? Di un paese dove continuano da sempre a convivere il privilegio e la discriminazione sociale, la ricchezza più sfrontata e la fame più nera, il lusso e il lavoro precario o la disoccupazione. E’ per salvare questo Paese che si chiamano a raccolta indifferentemente tutti a prescindere dalla collocazione sociale e dal proprio stato economico?
Qual è allora il senso di questi poco credibili e accorati appelli? Quello di costruire una linea di condotta comune tra maggioranza e “opposizione” parlamentare, padronato e sindacati concertativi, istituzioni e popolo che, senza intaccare il privilegio della loro condizione, faccia digerire ai cittadini una “nuova politica di rigore” (a senso unico) nuovi sacrifici, nuove tasse, nuovi tagli allo stato sociale e nuove politiche sindacali, più compatibili ancora con l’interesse superiore del Paese.
Di quale Paese? Il loro.

mercoledì 29 giugno 2011

Se lo dice lui

“Grazie per quello che hanno fatto oggi nell'interesse del nostro Paese", è stato il commento del ministro dell'Economia Giulio Tremonti. Basta quest’affermazione a far capire che tipo di “accordo” sia stato raggiunto tra i sindacati e la Confindustria. Quando Tremonti parla di paese, non si riferisce certo ai lavoratori della pubblica amministrazione, cui si appresta a bloccare gli stipendi e il turn over. Neanche ai pensionati, cui sta per regalare l’ennesimo innalzamento dell’età pensionabile a sessantacinque anni. Tanto meno ai contribuenti a reddito fisso cui regala l’ennesimo aumento dell’iva e. peggio ancora, la rivoltante tassa sulla salute (ticket) per chi è costretto a ricorrere al pronto soccorso o a fare ricorso a visite specialistiche.
Certamente non può riferirsi a profitti, capitali e patrimoni che rimangono intoccati. Come pure a tassare adeguatamente stock option e prebende per i vari Marchionne (12,5 per cento, mentre i lavoratori pagano il doppio). Di quale Paese parla Tremonti? Quello dei ricchi o quello dei discriminati e dei precari che vedono ancora una volta peggiorare le loro condizioni di vita. Perché il bene del Paese coincide sempre con tagli allo stato sociale e ai diritti economici e normativi dei lavoratori e mai a tasse e tagli per profitti, rendite e patrimoni? Di quale paese sta parlando?
Una trattativa segreta, su punti contrattuali e non solo, non legittimata da nessun mandato democratico, portata avanti dal padronato confindustriale e da una schiera di sindacalisti di professione “nominati” da organismi interni di altri “nominati”, sconosciuti e tanto meno eletti dai lavoratori, tutti preoccupati di dare, come ha detto Bonanni: ”In un momento di crisi, certezze alle imprese sulle intese che si fanno” (non ai lavoratori e ai precari). Infatti ha sottoscritto un “accordo” che ha ottenuto subito il consenso del governo di centrodestra e il sostanziale accordo del Partito democratico. L’unità titola oggi: ”Sindacati e imprese ci provano: accordo su contratti”.
L’intesa emargina volutamente, non solo la Fiom, ma tutte quelle sigle di base, già eliminate “democraticamente” dall’altro accordo capestro che imponeva dall’alto, grazie alla collaborazione (non disinteressata della Confindustria) a tutte le sigle sindacali, comprese quelle che non lo avevano sottoscritto, regole e metodi unilaterali.
L’accordo, che è bene approfondire, getta le basi, per deroghe aziendali ai contratti nazionali, e crea le condizioni perché sia respinto il ricorso presentato dalla Fiom sulle vicende Fiat di Pomigliano, Mirafiori e Grugliasco, sulla legittima rappresentanza aziendale a sottoscrivere intese.
L’ipocrisia di fondo, con l’intento di affossare i contratti nazionali, è rappresentata dal tentativo di presentare l'accordo come la carta vincente per “rimettere il valore del lavoro e la centralità della contrattazione al centro dell'attenzione del paese” come dice Camusso. Ipocrisia e tradimento, perché l’esperienza insegna che solo i contratti nazionali, in una situazione di debolezza dell’iniziativa dei lavoratori, danno un’adeguata e unificante tutela. Dare a intendere che sia possibile intavolare una contrattazione articolata vincente per i lavoratori, in aziende di precari, senza diritti e tutele, che è costretta a misurarsi con delocalizzazioni, cassa integrazione e licenziamenti è mentire sapendo di mentire e preparare la strada per altre firme capestro.
Gli stessi accordi della Fiat, firmati solo da Cisl e Uil, non prevedono forse l’annullamento di diritti fondamentali (malattia e sciopero), turni ininterrotti di otto ore? E’ questo il modo per rimettere il valore del lavoro e la centralità della contrattazione, Camusso? Camusso che sconfessa la Fiom e rinnega la sua non firma con la Fiat.
Ha ragione Cremaschi, presidente del Comitato centrale Fiom, quando afferma: "La Cgil ritiri la firma dall'intesa e Camusso si dimetta". Cremaschi definisce giustamente "liberticida" l'accordo sulla nuova regolamentazione della rappresentanza sindacale e della validità dei contratti sottoscritto ieri da Cgil, Cisl e Uil, perché "apre la via allo smantellamento del contratto nazionale". Firmandolo, la leader della Cgil, Camusso, ha "mancato ai suoi doveri di rappresentanza dell'organizzazione" sindacale.
Ha soprattutto permesso, va detto con forza, di creare le condizioni per nuovi accordi concertativi che faranno compiere altri passi indietro ai lavoratori su diritti, salario e occupazione, esponendoli al ricatto e lasciando indisturbati i padroni e intatti i loro interessi e profitti.

venerdì 24 giugno 2011

Padronato italiano, ovvero il profitto di pochi come interesse di tutti

Dopo decine di anni di “contenimento” dei salari, precarizzazioni, cancellazioni di diritti costituzionali legati al lavoro, tagli ai servizi pubblici, demolizioni progressive del sistema previdenziale e pensionistico pubblico, di chiusura di ospedali, ticket sanitari, privatizzazioni varie anche in settori strategici (ultimo il tentativo di privatizzare l’acqua e le spiagge demaniali), operati in ossequio all’ideologia liberista fatta propria anche dalla “sinistra” nostrana, i meno distratti possono assistere all’ultima (in ordine di tempo) lezione di economia e di rigore morale del risparmio che l’illuminata (e a pancia piena) presidente di Confindustria Emma Marcegaglia elargisce agli “sperperatori”. Ovvero i discriminati a pancia vuota.
Davanti ai dati riguardanti l’economia italiana, al Pil, al debito pubblico nonostante i tagli operati e il crescente carico fiscale gravante solo sul cittadino lavoratore dipendente (mentre sono permesse scappatoie inaccettabili per tutte le altre categorie di cittadini), la “moderna” padrona italiana tira fuori dal suo cilindro l’innovativa ricetta: "Per centrare gli obiettivi ambiziosi ma obbligati di azzeramento del deficit e evitare la stagnazione" è necessario "varare subito misure strutturali", e a fare riforme, a partire dal fisco. Confindustria chiede "misure che siano credibili" e, citando "i documenti dello stesso governo" avverte: senza riforme "diverrebbero necessarie manovre aggiuntive" per l'un per cento del Pil al 2014, "cioè altri 18 miliardi oltre ai 39 previsti. Ed anche "la modesta crescita verrebbe dimezzata allo 0,6 per cento già nel 2012". Conseguentemente propone di operare un taglio strutturale di spesa pubblica e di contenere le retribuzioni pubbliche e di alzare a sessantasette anni l’età pensionabile, annunciando comunque la contemporanea ulteriore perdita di centinaia di migliaia di posti di lavoro a fine 2011.
Tutto questo viene definito politica riformista, che il governo deve avere il coraggio di intraprendere. C’è di che rimanere sbigottiti. Siamo di fronte all’ennesima, manovra tesa a mascherare in responsabilità nazionale e istituzionale, la prepotenza e l’ingordigia degli industriali, che sono invece impegnati a lucrare anche mentre riducono alla fame i lavoratori. Ma anche a trasferire tranquillamente e indisturbati le loro attività in paradisi fiscali o in zone sottosviluppate nelle quali assumere a salari da fame e a condizioni inaccettabili lavoratori più affamati di quelli italiani o a costringerli attraverso “democratici” referendum, col ricatto della delocalizzazione e della disoccupazione, a rinunciare alle conquiste del passato.
Si tenta di spacciare la politica ingorda e di classe degli industriali nostrani, tipica del padronato della prima rivoluzione industriale: compressione delle retribuzioni, aumento dei ritmi di lavoro, come l’ultimo ritrovato in materia economica di una classe dirigente “responsabile” che invita all’austerità, al risparmio (guardandosi bene dal dare l’esempio) per uscire dalla crisi e creare nuova occupazione con il solito strumento dell’annullamento dei diritti dei lavoratori e senza mettere in discussione i profitti (di cui grazie al sistema attuale è impossibile determinare l’entità a differenza dei salari dei lavoratori).
La realtà che viviamo ci racconta un’altra storia. Quella dei sacrifici, dei tagli e rinunce a senso unico per lavoratori e pensionati. Per loro c’è sempre questa sola faccia della medaglia: tirare la cinghia. Da trenta anni va avanti tutto ciò.
I soloni politici del padronato, comunque mascherati dietro promesse di ripresa e di occupazione, mai verificatisi, hanno cancellato le conquiste dei lavoratori costate lacrime e sangue e intendono continuare a farlo ancora a lungo con la mano sul cuore, cantando l’inno nazionale e trasferendo all’estero comunque le loro attività.
Non lo dobbiamo permettere.

mercoledì 15 giugno 2011

La lezione "antiprivatistica" del referendum

L’esito del referendum è una boccata di ossigeno per tutti quelli che mal sopportano il pattume politico attuale, segnato da una destra populista e prepotente e da una finta “sinistra”, che invece di rappresentare gli interessi dei discriminati si schiera col liberismo e ne difende i “valori”.
La partecipazione e l’entità del pronunciamento degli italiani al referendum, manifestatisi con percentuali “bulgare”, segnalano la volontà di cambiamento e di rottura maturata tra i cittadini.
È bocciata innanzitutto la politica rampante del centrodestra che, annusata l’aria, non ha azzardato nemmeno a difendere il proprio operato e le proprie leggi, arrivando addirittura, in molti casi, a votare contro di essi.
È stato dato un segnale dirompente, oltre contro il governo, verso il centro”sinistra” che, dopo aver criticato e ostacolato prima la raccolta di firme dei comitati promotori i referendum, non ha poi avuto scrupoli a tentare di cavalcare l’onda crescente per puri calcoli di bottega.
Il Partito democratico e il centro”sinistra” infatti, sono stati i più insistenti e inaspettati sostenitori delle tesi liberiste e con esse delle privatizzazioni. Senza il loro fattivo contributo, in una sorta di staffetta governativa col centrodestra, non sarebbero passate le logiche privatistiche che hanno fatto diventare strumento di profitto la sanità, la previdenza, la scuola, i trasporti, l’energia, le poste, l’informazione, le banche, ecc.. La stessa liberalizzazione dell’acqua, anch’essa ridotta a strumento di profitto, rientrava a pieno in questo quadro complessivo. Soltanto strumentalmente (e per calcolo politico), nel tentativo di prevalere sul concorrente politico avverso (sostenitore delle stesse politiche liberiste), Bersani e il Pd hanno scelto di sostenere le ragioni del sì all’abrogazione delle norme sulla privatizzazione dell’acqua. Non altro.
Il dato è che i due referendum sull’acqua, anche se di poco, rispetto agli altri hanno ottenuto la maggiore quantità di votanti e di consensi. I cittadini hanno respinto così le tesi di chi sosteneva i vantaggi del privato rispetto il servizio pubblico, rifiutando il mercato e il profitto in settori legati agli aspetti fondamentali della vita, avendo sperimentato i risultati delle altre privatizzazioni.
Viene in conclusione bocciata tutta la politica delle privatizzazioni, prescindendo da chi sia stata decisa.
Lo stesso discorso vale per il nucleare
. Le drammatiche sequenze del disastro nucleare in Giappone, dove è stata nascosta per calcoli economici la reale portata dei danni, determinando l’ulteriore irresponsabile esposizione delle popolazioni alle terribili radiazioni.
Il referendum sul “legittimo impedimento” ha riaffermato con forza che gli italiani respingono il tentativo di sancire la disuguaglianza sociale e la discriminazione davanti alla legge.
Occorre impedire “la privatizzazione” della vittoria referendaria da parte di quei personaggi e forze politiche, Pd e centro”sinistra” in primo luogo, che intendono farne un uso strumentale, per poi tornare a ripresentare le stesse tesi liberiste di prima, come toccasana di tutti i mali. E’ tutto quello che fa chi nega l’esistenza del conflitto sociale e che ha fatto proprie le ragioni del capitale, delle privatizzazioni e dei padroni.

martedì 7 giugno 2011

Israeliani e palestinesi, due pesi e due misure

Venti sono le persone uccise, secondo la tv di stato siriana, ventitré, secondo Al Jazeera e duecentoventicinque i feriti, tutti palestinesi, in occasione delle manifestazioni del quarantaquattresimo anniversario della sconfitta araba del 1967.
Centinaia di palestinesi hanno cercato, in occasione della ricorrenza, di oltrepassare la recinzione sulla linea fissata nel ’67, che ha determinato l’annessione militare e unilaterale delle alture di Golan a Israele.
I manifestanti sono stati gli unici a riportare perdite di vite umane e feriti negli “scontri”, perché il loro tentativo di superare i reticolati su quelle che erano le loro terre, ha coinciso con l’inizio delle operazioni militari. Essi sono diventati i bersagli di un tiro a segno messo in atto dai militari israeliani attraverso un uso massiccio delle armi.
L’esercito militare israeliano non ha avuto bisogno di celebrare alcun processo né di emettere alcuna sentenza di condanna: è passato immediatamente all’esecuzione della sentenza di morte dei “rei”, colpevoli di rivendicare, pacificamente, il proprio diritto su territori strappati loro con la prepotenza e la forza delle armi e trattenuti arbitrariamente da Israele.
Davanti a questi fatti risulta fragoroso il silenzio delle istituzioni italiane e internazionali, delle forze politiche e degli organi di stampa, così sensibili e solleciti, in altre occasioni, nel decidere e sostenere interventi “umanitari” e militari in tutte le aree del mondo dove i popoli sono oggetti della violenza e della dittatura di tiranni liberticidi, che calpestano le più elementari norme di civiltà.
In questo caso non è stata levata alcuna voce di condanna: i rappresentanti delle istituzioni e i partiti tacciono, gli organi d’informazione, nella quasi totalità dei casi, smorzano l’entità del massacro con titoli asettici che nascondono la realtà e le responsabilità, del tipo: ”Vittime al confine con la Siria”; ”Sul Golan si spara (?). Vittime tra i palestinesi e siriani”; “Dopo gli scontri sul Golan Israele accusa Damasco di manipolare i suoi cittadini”.
Questo è il quadro mistificatorio e desolante di come i paesi “democratici” occidentali intendono la libertà e i diritti dei popoli. L’Onu delibera e gli eserciti dei paesi “democratici” intervengono solo se a loro conviene, se ci sono materie prime (leggi petrolio o altre risorse energetiche) o altri tornaconti economici o militari. In assenza di questi, i popoli possono tranquillamente continuare a subire, perché i paesi “democratici” addormentano le loro coscienze e il loro senso del diritto.
A differenza di quanto è successo in altri paesi nessuno si è mai preoccupato, né lo farà in futuro, dei palestinesi, del loro diritto a essere liberi sulla loro terra, con una loro Patria riconosciuta e a non essere continuamente derubati (di ciò che spetta loro) dalla politica degli “insediamenti dei coloni” israeliani.
Nessuno si preoccuperà di libertà e sicurezza in questo caso, mentre il popolo palestinese e i suoi legittimi rappresentanti continueranno a essere etichettati come pericolosi e radicali estremisti, a differenza dei "civili e democratici” governanti israeliani.

sabato 4 giugno 2011

Benefattore incompreso (e milionario)

L'amministratore delegato della Fiat, Marchionne, a margine del Consiglio Italia-Usa, visti i risultati economicamente strabilianti della sua gestione della Chrysler, si è lanciato in una serie d’illuminanti affermazioni: "Non abbiamo alcuna intenzione di spostare il quartier generale da Torino a Detroit"; "Quanto è avvenuto negli Usa deve essere letto in Italia in modo positivo. Se è possibile farlo là è giusto e opportuno farlo anche qui in Italia. Deve cambiare però l'atteggiamento". In ultimo ha affermato: "L’operazione non permette solo alla Fiat di rafforzare la propria posizione in Chrysler, ma accelera anche il nostro progetto d’integrazione mirato a creare un costruttore globale, efficiente e competitivo".
E’ evidente che l’ad della Fiat, fabbrica italiana automobili Torino si ritiene soddisfatto e appagato di quanto avviene negli Usa. Non solo la casa torinese ha restituito, onorabilmente e cavallerescamente, il prestito di Obama per salvare la casa automobilistica americana, ma sta anche lavorando per rilevare la quota canadese della stessa casa automobilistica per la modica cifra di 125 milioni. Questo significa in soldoni che la Fiat, dopo aver usufruito dei soldi degli americani a buon mercato, dietro la promessa di salvare il colosso americano e con esso l’occupazione, potrà per il futuro intascare i guadagni dell’attività della casa automobilistica americana privatamente, mantenendo però invariate le condizioni economiche e normative dei lavoratori, fin troppo fortunati ad avere un lavoro.
Perché la stessa cosa non si può fare in Italia? Perché qualcuno deve cambiare atteggiamento dice Marchionne. Chi deve cambiare atteggiamento? Questo il manager non lo dice, ma è evidente: devono cambiare atteggiamento quei sindacati (Fiom in testa) e quei lavoratori che pretendono cose assurde: di essere trattati come persone e non solo come strumenti di profitto, di percepire salari dignitosi (1.000 o 1.200 euro mensili), orari e pause di lavoro umanamente sopportabili, assistenza in caso di malattia oppure diritto di scioperare. Sono queste le pretese assurde, che bloccano lo sviluppo e l’occupazione. E’ questa l’ingratitudine. La Fiom e i suoi seguaci non vengano poi a lamentarsi pretendendo assurdità incompatibili. Il povero (si fa per dire) e incompreso Marchionne non si capacita che tutto ciò non sia capito: anzi, mentre in America è ringraziato, in Italia, il meschino, viene insultato. Del resto cosa sono i miseri compensi milionari, e stock option multimilionarie, che l'ad percepisce e che ben si guarda dal socializzare con i lavoratori.
A confortare Marchionne ci pensa il ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali, Maurizio Sacconi, il quale ha dichiarato testualmente che all'amministratore delegato del gruppo Fiat “si oppongono, in una non originale sintonia, il sindacato conservatore, settori ideologizzati della magistratura e ambienti delle borghesie bancarie. Un’alleanza minoritaria che più volte ha rallentato il progresso”.
Secondo “l’innovatore e progressista nonché socialista”(?) e mistificatore interessato, ministro del lavoro, sarebbe la Fiom, sindacato conservatore (colpevole di aver la superata, improduttiva e non competitiva abitudine di difendere i lavoratori e i deboli) e settori ideologizzati (forse vetero-comunisti o marxisti-leninisti) o addirittura le banche (?) a rallentare il progresso (di chi?).
I lavoratori sono perciò avvertiti: le loro sofferenze sono causate da loro stessi se si oppongono e non dall’ingordigia e dalla prepotenza dei poveri industriali, amministratori delegati e ministri (non senza portafoglio), che invece sono per il progresso e lo sviluppo. Il loro.