lunedì 27 febbraio 2012

Altro che coesione nazionale è di massacro sociale

Dai dati Eurostat, pubblicati nel rapporto “Labour market statistics “, riferiti ad aziende con almeno 10 dipendenti, emerge la classifica dei redditi percepiti dai lavoratori europei nel 2009.
Il dato che spicca riguarda il reddito che guadagna un lavoratore italiano confrontato con quello dei suoi colleghi europei, nell'anno di riferimento, 23.406 euro lordi: pari a circa la metà di quello che in Lussemburgo guadagna un operaio di pari qualifica (48.914), in Olanda (44.412) o Germania (41.100). Seguono in Irlanda (39.858), Finlandia (39.197) Francia (33.574) e Austria (33.384). E’ sorprendente anche il livello di reddito più elevato dei lavoratori di due Paesi in grave difficoltà economica, come la Grecia (29.160) e la Spagna (26.316) cui fa seguito Cipro (24.775), rispetto quello dei corrispettivi italiani.
Tutte le panzane, che ci hanno raccontato i soloni e i “tecnici” interessati dell’economia, i fanatici della competitività e del mercato, per spiegarci che per salvare l’Italia, i lavoratori dovevano accettare le compatibilità capitaliste e con esse rinunciare ai diritti consolidati, dal sistema pensionistico e alle pensioni di anzianità, a un salario equo e al passo con l’inflazione e a un posto fisso, si dimostrano per quello che sono false e interessate.
False perché con il finto pretesto della competitività globale, il padronato italiano, aiutato da un sindacato subalterno e asservito e da un centro”sinistra” che ha sposato le teorie del libero mercato, ha ottenuto un gigantesco spostamento di ricchezza a suo favore.
Non sono quindi i redditi dei lavoratori né i diritti sociali e contrattuali di cui essi usufruivano, sui quali è stata scatenata una infamante e bieca propaganda, ad aver creato il baratro del debito pubblico italiano.
Altri paesi capitalisti europei, soggetti anch’essi dello stesso mercato, con gli stessi problemi di competitività globale, hanno economie più forti della nostra e i lavoratori redditi dignitosi.
La situazione della Germania è indicativa: I lavoratori tedeschi, a parità di qualifica e di lavoro, percepiscono redditi pari circa al doppio di quelli dei lavoratori italiani. Nonostante questo l’economia tedesca non è al tracollo, anzi cresce, non solo è competitiva, detta legge.
Completa il quadro il dato relativo la pressione fiscale in Europa: L’Italia non è né quinta, né settima, ma sempre e invariabilmente prima o almeno sul podio delle prime tre in classifica, con una pressione fiscale, che grava prevalentemente se non esclusivamente sui redditi fissi, pari al 51,6%.
I richiami alla coesione nazionale lanciati dalle più alte cariche istituzionali mentre era, ed è, in atto un forsennato attacco agli interessi e diritti dei lavoratori, sono come meschini tentativi, in base ad un presunto interesse nazionale per far digerire altri sacrifici a lavoratori e pensionati italiani.
Davanti a questi dati è illuminante la dichiarazione rilasciata dal Ministro del Lavoro Fornero, tuttora impegnata a “riformare” le regole del “mercato del lavoro”: In Italia abbiamo "salari bassi e un costo del lavoro comparativamente elevato. Bisogna scardinare questa situazione, soprattutto aumentando la produttività".
Questo Ministro “tecnico” non si arrende neanche davanti all’evidenza e tenta di volgere la realtà emersa a favore delle imprese e del padronato. Per il Ministro, infatti, i salari sono bassi, non per l’ingordigia e la prepotenza del padronato italiano, ma perché taglieggiati da un costo del lavoro troppo elevato.
La ricetta che propone perciò non è ne costringere il padronato a pagare di più, ne abbassare il costo del lavoro e il carico per i lavoratori, diminuendo le tasse e i contributi previdenziali in busta paga, ma …. aumentare la produttività.
In soldoni il padronato può tranquillamente continuare a sottopagare e i lavoratori italiani, se vogliono guadagnare di più, devono lavorare e sudare di più.
Questa ricetta è tipicamente di parte e risponde agli interessi del padronato altro che proposta di un tecnico al di fuori delle parti.

Dobbiamo dire basta a questi “tecnici” di cui si servono i ricchi, i sindacati e i partiti filo padronali per non sporcarsi direttamente le mani.
Le loro ricette non servono per l’interesse del Paese ma di quella parte di società di padroni, ricchi, speculatori, evasori e corrotti che con la scusa dell’emergenza vogliono continuare nell’opera di arricchimento e assestare il colpo definitivo ai redditi e ai diritti dei lavoratori italiani.

mercoledì 22 febbraio 2012

Invidia sociale o superbia sociale

Due episodi hanno evidenziato la violenza dello scontro sociale in atto in Italia. Al solito buonismo e alla solita ipocrita demagogia, che in genere assume chi è impegnato nell’opera di scaricare la crisi sui discriminati, negli ultimi due giorni si sono sostituiti atteggiamenti dettati da autentico livore e odio di classe.
Il primo episodio vede la Presidente di Confindustria Emma Marcegaglia affermare testualmente:
”Noi non vogliamo abolire l'articolo 18, il reintegro deve rimanere per i casi discriminatori (che evidentemente ci sono), ma vogliamo poter licenziare le persone che non fanno bene il loro mestiere”. Ha poi aggiunto rivolta ai sindacati: “Vorremmo avere un sindacato che non protegge assenteisti cronici, ladri e quelli che non fanno il loro lavoro”.

Il padronato italiano rivendica il potere di decidere insindacabilmente chi nelle aziende si macchia del crimine di assenteista cronico o chi, addirittura sia ladro, magari istituendo delle mini prigioni aziendali o ripristinando il metodo delle punizioni corporali.
La cosiddetta “riforma del mercato del lavoro”, per la Confindustria, che per l’occasione getta la maschera, a questo deve servire: Ripristinare il dominio e l’arbitrio assoluto del padrone anche nei posti di lavoro con più di quindici dipendenti. Non altro. Con buona pace di chi sta per perdere un lavoro o di chi un lavoro non ha e aveva qualche attesa nella trattativa.
Per ottenere lo scopo la Presidente degli industriali italiani individua i soggetti sociali da indicare al disprezzo dell’opinione pubblica: Sono i lavoratori che non lavorano e non fanno il loro dovere, si assentano e rubano. Sono loro i responsabili della crisi. Sono loro che non permettono alle ottime aziende di riprendersi e di assumere rilanciando l’economia del Paese.
L’attacco della Marcegaglia bruscamente interrompe il torpore buonista dell’interclassismo politico, sindacale e padronale e smentisce coloro che hanno attribuito alla Confindustria il ruolo di parte sociale. I padroni non sono buoni, sono padroni. Il loro fine è il profitto attraverso ogni mezzo e senza scrupoli, altro che storie.
Non hanno avuto scrupoli quei padroni che hanno costretto a lavorare in ambienti molto pericolosi e a morire migliaia di lavoratori (e le sentenze di questi giorni ce ne danno conto). Non hanno scrupoli i padroni che chiudono le loro fabbriche, pur produttive e in attivo e licenziano in Italia per trasferirsi in aree con manodopera a costi più bassi e più alti profitti. Non hanno scrupoli i padroni che precarizzano i propri dipendenti o assumono solo precari che derubano del presente e del futuro per guadagnare di più. Non hanno scrupoli nel licenziare per malattia o maternità o infortunio, nel discriminare o perseguitare secondo opinioni politiche o sindacali. Non hanno scrupoli nel dare tangenti a un sistema di politici asserviti, né a evadere le tasse o a fare e godere di insultanti scudi fiscali. Non hanno scrupoli a inquinare scaricando per risparmiare nell’ambiente i rifiuti tossici abusivamente. Non hanno scrupoli a imporre un sistema di sviluppo basato sui consumi più sfrenati e inutili. Non hanno scrupoli a imporre condizioni di lavoro insopportabili, togliere diritti, tagliare salari, cancellare dai posti di lavoro i sindacati più combattivi e licenziare i lavoratori più sindacalizzati.
Non hanno avuto scrupoli a pretendere, con la collaborazione di una sinistra che ha tradito, i tagli alle pensioni, gli insopportabili aumenti di tasse per i redditi fissi e l’azzeramento dello stato sociale.
I padroni pretendono di imporre sacrifici intollerabili ai lavoratori e al Paese mentre loro continuano ad aumentare i propri profitti e capitali cresciuti in maniera esponenziale a differenza dei redditi fissi che sono tracollati.
Oggi alcuni di essi si fanno anche belli agli occhi dell’opinione pubblica, pubblicando i propri redditi. Si tratta del secondo episodio.
Abbiamo appreso ufficialmente che siamo governati da paperoni. Nel 2011 i ministri “più poveri” dichiarano redditi di centinaia di migliaia di euro mentre i più ricchi sono ben oltre i dieci milioni di euro.
Sono proprio costoro, ricchi sfondati, che impongono la tassa sulla prima casa, che aumentano l’iva e le accise sulla benzina. Sono loro che costringono a restare a lavorare fino a 70 anni, con pensioni da fame. Sono loro che tagliano lo stato sociale e tolgono diritti e servizi. Sono loro che, da “tecnici” si sono arrogati arbitrariamente il ruolo di censori e di moralizzatori a differenza dei lavoratori spreconi che hanno provocato il debito pubblico e pretendono ancora trattamenti che lo Stato non può più permettere.
"Si deve dire che chi guadagna e paga le tasse non è un peccatore, e va guardato con benevolenza, non con invidia". E’ quanto ha detto, riprendendo uno degli slogan di un altro paperone milionario, il ministro della Giustizia Paola Severino rispondendo ai giornalisti che le ricordavano che il suo reddito dichiarato è il più alto fra quelli dei ministri. “Chi produce redditi in nero - ha aggiunto il ministro - deve essere considerato in termini negativi, ma chi guadagna e paga le tasse deve essere guardato positivamente”.
Questo è stato l’insulto più significativo. La Ministra paga le tasse, forse vuole una medaglia. Non s’interroga però sulla moralità dei suoi guadagni e delle sue ricchezze. Com’è possibile considerare giusto ed equo che esistano soggetti cui è possibile guadagnare in un anno cifre enormi, mentre ad altri non è permesso affatto guadagnare o guadagnare a sufficienza per vivere?
Perché chi ha trattamenti economici milionari invece di colpire chi può pagare, si accanisce contro i più deboli e discriminati? Qual è la morale? Quale l’etica?
Lo spiega la ministra Severino: Le differenze sociali e di classe.
Per tutti questi paperoni è morale che a pagare siano i pensionati a cui è giusto perfino togliere l’adeguamento della pensione da lavoro al costo della vita, per un importo di circa 29 euro mensili. Non sarebbe stato più giusto che a decidere i tagli e i sacrifici fossero stati non dei nababbi che non hanno problemi, ma cittadini privi di tali patrimoni?
Invece accade che solo i lavoratori, i pensionati e i disoccupati devono pagare e se protestano, per la loro condizione contro questi scandali economici, è perché sono mossi da invidia sociale e di classe.
Siamo davanti ad una classe arrogante, ricca e privilegiata che vuole imporre ai discriminati i suoi interessi e li vuole convincere che i disoccupati e gli affamati possono e debbono coesistere e convivere pacificamente e senza protestare con chi vive nel benessere come ricchi e nababbi onesti che, bontà loro pagano le tasse.
No, non si tratta di invidia di classe dei lavoratori, ma di superbia di classe di chi è ricco e capitalista.

martedì 21 febbraio 2012

Continua l’opera di “risanamento” del Governo

Non passa giorno senza che ci siano concesse da parte di rappresentanti delle istituzioni ai vari livelli, ulteriori dimostrazioni circa il loro instancabile impegno: Quello di demolire definitivamente le conquiste e i diritti di chi lavora e di chi spera di farlo. Su come invece agire per creare occupazione, bloccare i licenziamenti e colpire chi continua ad arricchirsi sulle spalle di tutti, invece nulla.
Il Presidente del Consiglio, infatti, ieri ha incontrato la comunità finanziaria a piazza affari ed ha fornito le più ampie rassicurazioni circa le sue intenzioni sul tema “scottante” della riforma del lavoro dichiarandosi “fiducioso” che si possa arrivare a un accordo con le parti sociali, ma che comunque presenterà la sua “riforma” in Parlamento entro i tempi brevi cioè “entro fine marzo”, “anche senza tale accordo”. Noi speriamo con, ma non possiamo consentire poteri di blocco troppo paralizzanti”. Gli ha fatto eco la Presidente Confindustria Emma Marcegaglia, in perfetta sintonia: ”È giusto sentire le parti, dopo di che non ho nulla in contrario se a un certo punto il governo vada avanti e presenti la riforma”.
La pantomima invereconda cui i Cgil, Cisl e Uil si stanno prestando, con la preziosa e disinteressata collaborazione della Confindustria, si sta dimostrando per quello che è. Un modo per dirottare l’attenzione dei cittadini dai problemi reali da come salvare i posti di lavoro e creare occupazione non precaria a come demolire senza troppi contraccolpi i diritti residui dei lavoratori (articolo 18) vera e unica causa, per loro, dei mancati investimenti, della disoccupazione e della crisi.
Tutto ciò con la gentile collaborazione di sindacati che, davanti a un Governo creato apposta, anch’esso senza alcun mandato elettorale, responsabile della più pesante e antipopolare manovra economica di dicembre, contro la quale hanno pur proclamato un finto sciopero generale di tre ore, continuano a “trattare” ben sapendo che le decisioni sono state già prese.
A dimostrazione di ciò il ministro Elsa Fornero ad avvio dell'incontro con le parti sociali ha chiarito: “La riforma non può partire prima dell'autunno del 2013". “Oggi dobbiamo gestire la crisi con gli strumenti che abbiamo”.
Emerge in sostanza al di la del fumo che quanto si sta facendo in materia di “mercato del lavoro” non servirà per affrontare l’emergenza occupazionale, tanto è vero che il Governo non intende mettere un centesimo a questo proposito. Rimane quindi solo da sistemare definitivamente l’articolo 18, la cassa integrazione straordinaria e qualche residuo e “superato” diritto dei lavoratori. Il tutto naturalmente in un afflato patriottico di coesione nazionale, Napolitano insegna.
Il sindacato, molto attento ai richiami istituzionali, invece di chiamare i lavoratori alla mobilitazione e alla lotta, continua a reggere il gioco e a sedersi ad un finto tavolo di trattativa dal quale il Governo, che non ha avuto alcuna remora “democratica”, ha dichiarato di non essere disposto a “consentire poteri di blocco troppo paralizzanti”.
Il lavoro di Governo, “parti sociali”, centrodestra e centro”sinistra” è quasi compiuto, c’è solo un’incognita per loro: Quale è il limite da non superare, pena la morte del paziente …. o la sua presa di coscienza e ribellione.

lunedì 20 febbraio 2012

Non rappresento né le banche, né il capitale finanziario, come qualcuno umoristicamente crede e grida

E’ quanto ha detto il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, piccato ai suoi contestatori di Sardigna Nazione e anti-Equitalia che insieme ai disoccupati, al movimento dei pastori, agli studenti, hanno manifestato questa mattina, con fischi e urla, il proprio dissenso e protesta, davanti al municipio di Cagliari.
Quest’auto giustificazione e difesa di Napolitano evidenzia l’inconfessata consapevolezza del ruolo svolto dalla massima autorità del Paese, di aver legittimato cioè, una manovra economica, quella del Governo Monti, che colpisce degli interessi. Solo quelli dei lavoratori, mentre grazia, anzi favorisce quelli delle banche e dei ricchi capitalisti.
Consapevolezza inconfessata, perlomeno apertamente, e mistificata dall’affermazione successiva secondo la quale i suoi contestatori sarebbero mossi da pregiudizi ideologici (condizione che avrebbe dovuto conoscere e condividere, quando da giovane era militante, anzi dirigente del Pci) e quindi non liberi nel giudizio, privi perciò di obiettività.
Napolitano ha poi significativamente aggiunto: Per rilanciare la crescita "non bastano e non servono gli slogan ideologici (!), occorrono lucidità, realismo, competenza e senso della misura".
Sì perché, per Napolitano, solo chi è ottenebrato da pregiudizi ideologici può contestare la manovra del Governo che a suo parere è giusta, inevitabile, necessaria e oggettivamente supportata dall’estrema conoscenza delle soprannaturali regole dell’economia posseduta dal Governo dei “tecnici”, poco importa se con esse si assesta un altro colpo ai redditi da lavoro e da pensione perché risponde invece agli interessi di capitali e patrimoni.
La manovra “Salva Italia “ di Monti non può che essere condivisa. Essa è condizione di crescita e di sviluppo (per chi?) e ci fa riacquistare credibilità in Europa.
Chi la contesta, secondo Napolitano, è in malafede e crede che, ancora oggi, ci sia conflitto sociale e lotta di classe. Da che pulpito viene questa critica. E’ il massimo del trasformismo.
Ma quale Italia “salva” la manovra di Monti ( sostenuta e votata all’unisono dagli ex poco credibili contendenti del Popolo delle Libertà, del Partito democratico e dell’Unione di Centro)? Quella delle Banche e dei ricchi privilegiati, non quella dei lavoratori, dei pensionati, dei precari e dei disoccupati.
Della salvezza di questi ultimi, Napolitano non si preoccupa. Essa viene dopo l’interesse nazionale e chi soffre deve accettare con spirito di sacrificio e senso di servizio la sua condizione.
Infatti, ha poi affermato: "La coesione sociale è importante per la crescita del Paese e non significa immobilismo ma mettere in piedi un sistema di Welfare e sicurezza sociale diverso da quello che è stato creato in passato".
Le proteste di chi ritiene ingiusto e discriminatorio il comportamento del Governo e del padronato sono pertanto immotivate, ingiuste e preconcette e vanno contro lo spirito di coesione nazionale che dovrebbe prevalere nelle circostanze attuali.
Napolitano ha poi concluso: "L'attuale sistema lascia scoperte zone di povertà" e bisogna quindi "occuparci di chi non ha, rinnovare per poter migliorare e preservare".
Affermazione di principio condivisibile ha, però il difetto di rientrare nel novero dei buoni propositi a differenza della manovra Monti che invece è già un’amara realtà.

martedì 14 febbraio 2012

"Non saranno tollerate manifestazioni che escano dal solco della legalità”

E’ quanto ha affermato il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano ai margini di un incontro informale di otto presidenti europei. "Sappiamo che di fronte ai sacrifici non abbiamo alternative". "Non siamo la Grecia i partiti non mineranno il governo" ha aggiunto e ha manifestato un certo ottimismo sull'impegno di partiti e parti sociali per uscire dalla crisi: "Stanno dimostrando senso di responsabilità nella discussione dei decreti del governo. Spero non ci siano proteste".
Gli stessi concetti sono stati espressi dal primo ministro Papademos il quale ha dichiarato, in occasione dell’approvazione delle misure, da parte del Parlamento greco, che esse sono “inevitabili e necessarie”, e che “il vandalismo e la distruzione non hanno un posto nella democrazia”
Le misure economiche adottate, dal Governo greco, prevedono il taglio di 15mila dipendenti pubblici, una radicale riforma del mercato del lavoro, con una profonda liberalizzazione. Una diminuzione di oltre il 20% del salario minimo garantito, e un taglio delle pensioni. Una drastica economia di spesa in settori pubblici, come gli ospedali e le autonomie locali. La vendita dei gioielli di famiglia, come le quote pubbliche in petrolio, gas, acqua”.
Sorprende la straordinaria sintonia, e uniformità di linguaggio, che emerge ormai a livello europeo, soprattutto in cui paesi coinvolti dalla crisi e dal peso del debito pubblico.
Queste “riforme” sono elevate a modello, vanno nella stessa identica direzione, e sono tutte ispirate dalla stessa ideologia legata al liberismo e al mercato. Su questa strada si sta muovendo anche il nostro governo con l’aggiunta prevaricatoria e ingiustificata di questioni locali come l’art. 18 dello Statuto dei lavoratori.
Le “riforme” sono “inevitabili e necessarie” dicono. Esse al di la del fumo hanno colpito e colpiscono a senso unico, non tutti, tantomeno coloro che le decidono e impongono. Colpiscono invece lavoratori e pensionati a, cui sottraggono diritti e salario, mentre salvano chi è detentore di patrimoni e grandi ricchezze.
Esse aumentano l’ingiustizia e la discriminazione sociale.
Quello che apprezza Napolitano è lo “sforzo” di una classe politica di nominati e di un ceto politico di sindacalisti asserviti che, dall’alto dei propri privilegi, cui non intende assolutamente rinunciare, nascondendosi dietro il paravento demagogico del “governo tecnico” o dietro fantomatiche trattative sul “mercato del lavoro”, sostiene direttamente e all’unanimità una gigantesca redistribuzione del reddito a favore dei ricchi e a danno di tutti gli altri.
Di quale democrazia di quale legalità si parla allora? Di una democrazia e legalità formale e di facciata, non sostanziale, che permette decisioni e manovre economiche intollerabili a un ceto politico e sindacale privo oltretutto di alcun mandato democratico.
Le “riforme” per Napolitano sono indispensabili, contro di esse è ammessa la protesta ma, sia ben chiaro, solo all’interno delle “regole democratiche” e della “legalità”. Cioè proteste che non ne intacchino i contenuti.
Sono affermazioni di principio che astrattamente potrebbero essere anche condivise. Come si potrebbero, in un Paese civile e democratico, dove non esistono disparità o discriminazioni fra i cittadini, dove nessuno è lasciato indietro o per strada, tollerare proteste sonore e sentite come quelle avvenute in occasione delle manifestazioni del popolo greco contro la manovra del governo di quel Paese?
Chi potrebbe non essere d’accordo nel rispetto delle regole e della legalità?
Di quali regole democratiche e di quale legalità si parla?
Di una legalità fondata sulle disparità dove pochi diventano sempre più ricchi e tanti sempre più poveri? Di una legalità che condanna i giovani a non avere un futuro e, nella migliore delle ipotesi a essere precari a vita per consentire agli imprenditori di risparmiare sulla loro paga? Oppure di lucrare ancora di più sulla manodopera de localizzando le loro imprese in aree a più bassi livelli salariali?
Di una legalità che mette al centro delle sue regole non l’uomo, i suoi tempi, le sue aspirazioni, ma le imprese, le banche con la loro insaziabile fame di utili ad ogni costo?
Una legalità maligna che impone tasse sempre maggiori ai redditi fissi e benigna con i grandi patrimoni e grandi rendite?
Una legalità che costringe un lavoratore a lavorare fino a 67 anni con pensioni sempre più basse?
Una legalità dove chi predica“sacrifici” e “austerità” lascia intatti i propri privilegi mentre demolisce i diritti dei discriminati?
Una legalità fondata sui privilegi e le discriminazioni dove le regole non sono uguali per tutti. Dove chi governa, senza alcun mandato democratico deride e offende chi spera in un reddito certo mentre riserva per se e per i propri figli i posti migliori?
Una legalità fondata su quella che chiamano “austerità”, ma che invece è distruzione dello stato sociale e svendita del pubblico al privato.
Come si può pretendere da chi è discriminato, offeso, emarginato e condannato il rispetto di regole e legalità che lo discriminano, offendono, emarginano e condannano? Di regole e di legalità che non rappresentano gli interessi di tutti, ma di pochi. Di regole che non tentano di stabilire un’equità, seppur di facciata, fra i cittadini? Di regole che condannano i lavoratori, i disoccupati e i pensionati a condizioni di vita sempre peggiori mentre graziano e permettono contemporaneamente la ricchezza più sfrenata?
Regole di questo genere non sono eque e di tutti. Sono regole che rispecchiano l’interesse di pochi privilegiati che tentano di far credere che licenziare senza motivo, precarizzare, condannare all’ergastolo lavorativo (per l’aggiunta senza lavoro) chi vuole lavorare, tartassare i redditi fissi, tagliare le pensioni, privatizzare, liberalizzare, delocalizzare, legittimare la speculazione finanziaria, cancellare le conquiste del lavoro, spendere per armamenti, corrisponda agli interessi di tutti e del Paese.
No. Tutto questo va contro gli interessi e le aspirazioni della maggioranza dei cittadini.
No, perché queste sono regole e legalità di classe. Della classe padronale e dei ricchi. Queste regole e legalità convengono solo a loro.
Contro queste regole, contro questi soprusi è giusto e legittimo protestare e farlo in maniera sonora.
Esistono altre regole cui nessuno, nemmeno chi ha il compito e il dovere di difendere, come il Presidente Napolitano, a quanto pare si ricorda.
Si tratta di quanto affermato dalla Costituzione: art.1. L'Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro… ; o dall’ art 2. La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell'uomo ….; o dall’ art. 3. Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e la uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese; o ancora dall’art. 4. La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto; o dall’ art 36. Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un'esistenza libera e dignitosa.
Quanto riportato in questi articoli non è stato un regalo o una graziosa concessione ma è costato lacrime e sangue ai nostri padri. A coloro che, con la Resistenza e con le lotte, pagando di persona hanno costruito un Paese e una legalità che oggi le forze economiche e politiche tentano di cancellare.
Dobbiamo impedirglielo.

giovedì 2 febbraio 2012

Monti: "Che monotonia il posto fisso. I giovani si abituino a cambiare"

“La finalità principale della riforma è di ridurre il terribile apartheid che esiste tra chi per caso o per età è già dentro e chi fa fatica a entrare". Sull'articolo 18: "Non è un tabù può essere pernicioso per lo sviluppo dell'Italia e il futuro dei giovani in un certo contesto, ma può essere abbastanza accettabile in un altro contesto".
Queste frasi sono state pronunciate dal Presidente del Consiglio Monti, in riferimento alla trattativa sul “mercato del lavoro” in un’intervista televisiva. Esse evidenziano la mentalità aristocratica e liberista di chi essendo chiamato a decidere “per il bene del Paese”agisce e ragiona risentendo a pieno della condizione di privilegiato. Di chi cioè è ricco di suo e non ha bisogno di lavorare per vivere. E non ha mai dovuto misurarsi con la disoccupazione o con uno stipendio precario e comunque insufficiente.
Ragiona con la logica di chi non ha mai dovuto fare lavori pericolosi o esposti alle intemperie, come i minatori, i cavatori o tutti quelli che lavorano all’aperto o con materiali dannosi per la salute. Ragiona con la logica di chi non ha mai lavorato in una catena di montaggio, con i suoi ritmi ossessivamente monotoni. Ragiona con la logica di chi non è mai stato costretto all’incertezza e alla precarietà del proprio reddito, come unico strumento di sopravvivenza, per se e per i propri cari, perché il suo diritto ad una esistenza libera e dignitosa, che solo un lavoro può garantire a chi non possiede altre risorse, viene dopo il diritto al profitto del padrone.
Il punto di vista di Monti rispecchia una condizione economica, lavorativa e sociale privilegiata quella dei capitalisti e dei padroni. Di chi non deve fare i conti con un lavoro che non c’è oppure con uno stipendio o una pensione insufficienti.
Affermare che il posto fisso rappresenti una monotonia è uno schiaffo in faccia e un insulto ai disoccupati o a chi sta rischiando il proprio posto di lavoro e lotta per la sua difesa. Questi ultimi sarebbero ben felici di fare un lavoro o più lavori meglio remunerati, più sicuri e meno disagiati, ma rimangono attaccati all’unica fonte di reddito, che hanno, se ce l’hanno, a prescindere dalle condizioni di lavoro o dalla sua precarietà. Sono ben coscienti, infatti, che perso quel lavoro, l’unica certezza sarebbe la disoccupazione e la fame.
Quando Monti definisce “pernicioso” (che crea danno) l’art. 18 certamente non interpreta e rappresenta il punto di vista di chi rischia di perdere il lavoro, di essere licenziato per capriccio, discriminazione o altro, ma delle aziende e dei loro padroni che preferiscono avere (loro si) la libertà di liberarsi del personale senza alcun vincolo ma solo a loro esclusivo giudizio e interesse e vantaggio.
Monti rappresenta e tutela con i fatti la sua classe, con i suoi interessi e con i suoi punti di vista: Quella dei privilegiati, dei ricchi e dei padroni. Per essa agisce e governa.
Monti fa questo grazie al sostegno delle banche, dei capitalisti, degli speculatori, dei partiti e sindacati che, comunque mascherati, lo sostengono e che gli forniscono da destra e da “sinistra” la patente di Premier che agisce per l’interesse di tutti e non di una parte.
Le sue scelte non sono invece tecniche, asettiche o tantomeno super partes, ma di parte e si scontrano con gli interessi della classe dei lavoratori, con i quali sono incompatibili perché scaricano su di loro tutti i costi della crisi e li privano di tutti i diritti.
Contro queste scelte occorre mettere in gioco un punto di vista veramente e percettibilmente alternativo e di classe: quello della classe lavoratrice. Che rappresenti i loro bisogni, diritti ed interessi.
Per uscire dalla crisi i lavoratori non hanno bisogno delle liberalizzazioni e delle privatizzazioni, ma di una politica che agli interessi particolari e di classe padronali sostituisca gli interessi generali e di classe dei lavoratori: Invece di tagliare le pensioni vanno nazionalizzate le banche vera fonte di speculazione finanziaria; invece di abolire o modificare l’art. 18 vanno bloccati i licenziamenti e cancellate le leggi Treu e Biagi che precarizzano; invece di aumentare le accise sulla benzina vanno tassati gli alti redditi e i grandi patrimoni; invece che congelare l’adeguamento al costo della vita, di stipendi e pensioni, va ripristinata la scala mobile; invece di privatizzare va abolita ogni forma di sostegno alle aziende, scuole e sanità private, ecc.
Va rimesso in campo cioè un punto di vista alternativo esplicitamente in sostegno degli interessi dei discriminati.
Le parole di Monti fanno, però, chiaramente capire la sua volontà di andare avanti sulla strada intrapresa: quella di togliere i residui spazi di diritto, di reddito e di democrazia ai lavoratori ed ai discriminati.
A Monti va detto che esiste chi non è d’accordo, e non rappresenta certo una minoranza.
Occorre liberare gli italiani dall’incubo (creato dai mass media tutti schierati sul liberismo e sul mercato) dello spread, perché da esso non deriveranno mai, qualunque sia il suo andamento, benefici per loro.
Va affermato con forza e chiarezza che il conflitto di classe è il fulcro da cui ripartire per costruire fra la gente un punto di vista alternativo, quello dei discriminati, per ridare loro la speranza che un cambiamento è possibile e bisogna crederci, senza farsi invischiare in ragionamenti o ricette politi ciste, interne alla logica liberista e padronale, dalle quali non deriveranno mai benefici per chi lavora o spera di farlo.