mercoledì 27 ottobre 2010

Amministratore delegato polacco a 200 euro al mese per la Fiat? Siamo d'accordo

L’intervista rilasciata dall’amministratore delegato della Fiat Marchionne, al terzo canale Rai, si è svolta senza che fossero poste serie e scomode domande da parte dell’intervistatore. Questo ha permesso al manager di enunciare indisturbato e senza contraddittorio alcuno le ragioni della Fiat e della Confindustria. L’intento chiaro della presenza di Marchionne in televisione è stato quello di tentare di rispondere alla grande e riuscita manifestazione della Fiom del 16 ottobre ed al consenso che intorno ad essa si è creato.
L'intervista dell'amministratore delegato della Fiat nella trasmissione di domenica si è rivelata un boomerang. Sergio Marchionne, di fronte a un interlocutore sorridente e accondiscendente, si è sentito autorizzato ad esporre tutto il suo repertorio padronale e di parte, elencando tutte le sue ragioni e risentimenti senza fornire alcun dato o notizia concreta sui veri programmi della Fiat in Italia, lamentandosi e prendendosela però con chi frena il glorioso e meraviglioso (per chi?) percorso della Fiat, a partire da Pomigliano.
Su questa strada ha usato un modello comunicativo che purtroppo conosciamo bene e che è quello di Silvio Berlusconi. Da un lato c'è il "fare", con i bianchi buoni e dall'altro c'è il "sabotare", con i pellerossa cattivi. Tutti coloro cioè come Fiom, giudici, intellettuali che non sono disponibili a compiacere l’imperatore e che "remano contro" impedendo l’ottimo, radioso, patriottico e disinteressato lavoro della Fiat e del suo Ad, che non guadagna nulla in Italia, ma solo all'estero.
Marchionne si è dimenticato di dire che la Fiat, come ha giustamente rilevato il segretario della Fiom nazionale Giorgio Cremaschi, ha installato le sue aziende solo in quei Paesi dove i salari dei lavoratori sono i più bassi e i finanziamenti pubblici proporzionalmente più alti. Ha dimenticato di dire che in Europa occidentale, dove ci sono quei salari più alti che lui ha promesso agli operai italiani, non c'è alcuno stabilimento della Fiat.
Marchionne ha annunciato il taglio di dieci minuti delle pause per i lavoratori di Melfi e Pomigliano presentandolo come piccola cosa, un piccolo sacrificio peraltro retribuito. Ha dimenticato però di dire che questo taglio corrisponde alla riduzione del 25 per cento delle pause. Ci provi a ridurre del 25 per cento i profitti dei suoi azionisti e vedrà se questi ultimi saranno d’accordo. Marchionne ha lamentato l'anarchia degli stabilimenti, dove però la Fiom ha solo il 12,5 per cento degli iscritti, senza spiegare perchè l'azienda non riesca a governare l'87,5 per cento del proprio personale. Marchionne ha annunciato che l'Italia sarebbe al 118esimo posto su 139 per efficienza del lavoro. Senza spiegare (d'altra parte nessuno gliel'ha chiesto) da dove venga questa classifica, su quali basi sia costruita, quali siano i fattori che la compongono.
Marchionne ha smentito ogni intenzione di entrare in politica con la solita ipocrisia degli amministratori delegati che danno giudizi politici, fanno operazioni politiche, sostenendo al contempo che questo è solo mercato. Marchionne ha lamentato che tre operai a Melfi hanno fermato 1.200 lavoratori, dimenticando che questa sua affermazione è stata condannata come antisindacale da un tribunale che ha disposto il reintegro di quei lavoratori. Sentenza che la Fiat non ha ancora rispettato. Marchionne, come Berlusconi, più fallisce più diventa prepotente, meno è in grado di spiegare più offende. E, come Berlusconi, vede la propria arroganza smontata dal semplice commento di un comico, in questo caso Luciana Littizzetto, che alla fine della trasmissione si è più o meno chiesta: "Ma se è così bravo, com'è che chiude Termini Imerese?".
Marchionne ha passato un quarto d'ora in televisione senza spiegare nulla, ma non certo per riservatezza o rispetto delle relazioni sindacali, perchè questo è esattamente quello che fa anche al tavolo delle trattative. In Marchionne, come in Berlusconi, è sempre più difficile distinguere l'immagine dalla realtà, la propaganda dai fatti. E poi, esattamente come fa il Presidente del Consiglio, Marchionne si è lamentato di una campagna mediatica avversa. Qui c'è un'assoluta irriconoscenza verso un mondo culturale e politico che invece ha sempre supportato le sue imprese. Al punto di non chiedere neppure conto di fatterelli come la distribuzione di lauti dividendi agli azionisti e poderosi aumenti al top management, mentre agli operai veniva cancellato il premio di risultato. In realtà con il regime informativo che c'è oggi in Italia, se raccoglie cattiva pubblicità Marchionne deve prendersela unicamente con se stesso.
Alla fine bisogna ringraziare questa trasmissione. Dopo di essa le ragioni della Fiom sono ancora più chiare e valide.

sabato 23 ottobre 2010

La "sinistra" degli illusionisti in malafede e la realtà di classe

"La sinistra è davvero un impedimento a vincere? La sinistra è la missione di un paese, noi abbiamo bisogno di ricostruire un discorso sulla salvezza dell'Italia". "Ci siamo stancati di perdere bene, adesso vogliamo vincere". Queste sono due frasi d'ordine pronunciate da Nichi Vendola nella sua relazione al congresso di Sinistra e Libertà apertosi ieri a Firenze.
Queste due affermazioni sintetizzano la posizione di un novello affabulatore, simile al suo padrino Bertinotti, che è convinto e soprattutto vuole dare a intendere che con le parole si cambia la realtà. Il governatore pugliese, infatti, parla di sinistra includendo in questa categoria politica anche il Partito democratico. Sembrerebbe, a sentire Vendola, che se la sinistra è perdente la colpa sia da addebitarsi a una sorta di autolesionismo interno (?), che porta a dividersi e a rinchiudersi in nicchie ideologiche, preoccupandosi più di far valere teorie utopistiche vetuste che a confrontarsi con i problemi reali contemporanei.
Se in quest’affermazione c’è del vero (troppe volte nelle formazioni antagoniste ha prevalso la divisione sull’unità e questo è sicuramente un male) è pur vero che la ricerca dell’unità a prescindere dalle analisi, dai contenuti e dagli obiettivi ha determinato sconfitte clamorose e brucianti delusioni.
L’esperienza degli anni passati ha dimostrato che quando i partiti di classe considerano le alleanze non come uno strumento, temporalmente definito per ottenere determinati obiettivi, ma come un traguardo assoluto delle forze “progressiste” o del centro”sinistra”, come avvenuto con i vari governi Prodi o Dini (!) diventano esse stesse strumento del sistema di potere delle classi dominanti e costringono i loro elettori a dover sopportare le scelte più indigeribili. Fra queste lo spostamento della ricchezza avvenuto a danno dei redditi fissi, le varie controriforme pensionistiche, gli interventi “umanitari” in varie aree del mondo, la precarizzazione del lavoro e le logiche di compatibilità e di flessibilità del mercato, le controriforme della scuola, della sanità, l’attacco ai diritti civili e sociali riconosciuti perfino dalla Costituzione, lo scardinamento dei contratti e dello Statuto dei diritti dei lavoratori, le stesse controriforme elettorali in senso maggioritario, ecc. ecc. ecc. (l'elenco delle nefandezze è sterminato).
Tutto ciò ci fa capire che un patto di questo genere può forse anche battere elettoralmente Berlusconi, ma in seguito si riduce alle stesse politiche antipopolari e a favore dal mercato e del liberismo. Questa volta però col sostegno diretto delle forse antagoniste, che sono costrette a subire e a ingoiare rospi a ripetizione per evitare il pericolo maggiore. Bel successo strategico. Bel ricatto servito.
La sinistra, quella del Partito comunista di Berlinguer o del partito socialista di Nenni non esiste più. Le loro lotte, che hanno permesso l’avanzata politica ed economica del mondo del lavoro, sono state abbandonate e tradite da quelle forze politiche che ancora continuano a mantenere la mascheratura dell’appellativo di “sinistra”, ma che nulla hanno a che vedere con la storia e gli obiettivi che la sinistra ha perseguito nel suo cammino. E Vendola è sulla strada per alimentare lo stesso equivoco.
Che senso ha, infatti, la sua affermazione: ”La sinistra è la missione di un Paese, noi abbiamo bisogno di ricostruire un discorso sulla salvezza dell'Italia"? Ma di quale Italia parla Vendola? quella di Marchionne, della Marcegaglia, dei miliardari, di chi delocalizza, delle banche o quella dei lavoratori, dei disoccupati, dei precari, e dei pensionati? Quale sorte accomunerebbe queste categorie di persone? Quali strategie comuni possono avere? Lo spieghi Vendola.
Com’è possibile pensare che tutti questi soggetti abbiano lo stesso comune obiettivo, cioè battere e cacciare Berlusconi, visto che Marchionne, la Confindustria e il padronato hanno conseguito in questi anni successi insperati e inimmaginabili solo venti anni fa?
Vendola sostiene che il berlusconismo è vittorioso prima culturalmente e solo dopo politicamente: "Berlusconi ha cominciato a vincere venti anni prima con le sue tv; quando la scuola pubblica ha cominciato a perdere e la tv a prevalere, lì è nato il fenomeno, che non è un'anomalia ma l'autobiografia di una nazione". Bene, è però il berlusconismo a essere vittorioso culturalmente o sono le logiche neoliberiste della competitività capitalista? Queste ultime sono state fatte proprie e rivendicate proprio da quei partiti (Pd in testa) che hanno dimenticato, abbandonato e tradito le culture sociali alternative e di classe, tacciandole per vecchie e superate, lasciando così il campo libero alla cultura liberista più becera e reazionaria. E dandosi il testimone con Berlusconi e il centrodestra nel governare la demolizione delle conquiste del mondo del lavoro e dei discriminati.
Occorre ricostruire e rilanciare una visione diversa e alternativa, improntata sulle analisi di classe e sulle realtà economiche e sociali. Solo dopo valutare alleanze e battaglie comuni con altre forze. Prescindere da ciò significa, nella migliore delle ipotesi, illudersi e illudere. Non è con le battute anche efficaci su chi vince o chi perde (Bertinotti era un maestro in ciò) che si sconfigge l’avversario. Le stesse ammucchiate che prospetta Vendola (dal Pd a Fini e Casini) possono servire forse al centro”sinistra” ad avere più voti di Berlusconi e sedersi a capotavola al suo posto, ma lascerebbero del tutto invariata la condizione dei lavoratori, che sarebbero coinvolti nelle stesse scelte liberiste come avvenuto in passato. E non avrebbero, a quel punto, neanche più nulla da recriminare.

giovedì 21 ottobre 2010

La classe non è acqua

E’ opinione largamente diffusa che, quando si parla di giustizia, ci si riferisca a un’entità astratta, immodificabile, indiscutibile e perciò superiore . La giustizia con la "G" maiuscola e senza aggettivi cioè, che è al di sopra e al di fuori di ogni fazione o interesse: uno strumento implacabile ed equo contro chi le contravviene e che punisce chi si rende colpevole d’illegittimità. La giustizia imparziale ed equa per tutti, qualunque sia il colore della pelle, la fede politica o religiosa o sindacale, il sesso e la condizione economica.
L'attualità e la storia ci insegnano che la realtà è ben diversa, che la giustizia senza aggettivi non esiste, che sono sempre esistite tante giustizie parziali. E che chi comanda ha sempre cercato di far diventare legge la propria convenienza e i propri interessi, a danno di chi viene comandato (che, evidentemente, è portatore di convenienze e interessi differenti e contrapposti).
Nei sistemi a libero mercato a prevalere è la giustizia e il diritto del capitale, del mercato e della competitività. Essa è fatta su misura per gli interessi di chi detiene la ricchezza e il capitale: la classe borghese o padronato.
Secondo questa giustizia è legittimo che esistano le differenze sociali, che alcuni abbiano diritti non riconosciuti a tutti gli altri; che, quindi, al di là di enunciazioni solenni, gli individui siano titolari di libertà e diritti diversi: l’imprenditore e l’operaio, il parlamentare e il cittadino, il capitalista e il proletario, lo speculatore e il precario, ecc. Secondo questa logica di classe, quindi, possono legittimamente coesistere la ricchezza più sfrenata e la miseria più nera, il ricco padrone (libero) e il disoccupato o precario (oppresso e schiavo), il privilegio e la discriminazione.
Nei sistemi capitalisti gli interessi dei ricchi diventano legge, i bisogni dei discriminati sono condizionati e subalterni a essi (salari, pensioni, occupazione, precarietà, tasse, servizi, sanità, scuola). E’ legittimo ed equo, per fare un esempio, che un imprenditore guadagni quattrocentoventi volte lo stipendio (da fame) di un suo dipendente e costringere quest’ultimo a diritti di cittadinanza che non gli sono garantiti. La classe sociale economicamente prevalente, in questo modo, diventa classe dominante e chiama giustizia, democrazia e libertà la sua giustizia, la sua democrazia la sua libertà.
Quello che sta avvenendo in questi giorni dimostra più che mai la parzialità di classe di una giustizia che si adatta, fino a diventare su misura dei bisogni del prepotente di turno. A costui tutto è consentito: non può essere processato perché ha altro da fare. Può, però giudicare e punire i suoi giudici. L’arroganza del suo potere (che poi è il potere della classe cui appartiene) non conosce limiti. I suoi desideri sono legge, sono diritto, sono giustizia.
Costui (e in gran parte chi appartiene a classi privilegiate) non tenta nemmeno di mascherare o nascondere che il suo tentativo è di farsi i fatti propri. Di piegare, cioè la legge, il diritto e la libertà (già di classe) ai suoi bisogni e interessi prevalenti al momento (rendendo legittimi comportamenti non considerati tali finora), dimostrando oltre alla prepotenza e all’arroganza, un disprezzo verso i cittadini che giudica incapaci di valutare la realtà vera e condizionabili in ogni modo.
Quanto sta avvenendo, in questi giorni, dimostra il fondamento eversivo delle classi dominanti che, non contente del loro attuale potere e della conseguente sostanziale ingiustizia della nostra società, considerano la democrazia parlamentare un’inutile e fastidiosa sovrastruttura e, quando lo ritengono e ne hanno l'opportunità, modificano o manomettono anche le regole costituzionali a loro piacimento.
E l’opposizione che fa? Un contrasto di facciata che non impedisce di fatto la barbarie e la prevaricazione, di cui ha consentito la nascita politico culturale e l’affermazione, ostacolando qualsiasi tentativo alternativo su basi classiste, liquidato come vetero.

domenica 17 ottobre 2010

San Giovanni, l’inizio della lotta

La straordinaria riuscita della manifestazione della Fiom del 16 ottobre, la partecipazione di massa, non solo di operai metalmeccanici ma anche di disoccupati, precari, pensionati e studenti, rappresentano una boccata d'aria fresca e un’iniezione di ottimismo cui da troppo tempo non eravamo abituati. Quanto successo a piazza San Giovanni indica che il popolo risponde quando è chiamato a lottare su obiettivi chiari e su parole d’ordine che riguardano la sua vita, le sue necessità, le sue condizioni.
L’importanza della manifestazione del 16, nata per contrastare l’attacco generalizzato ai diritti dei metalmeccanici di Pomigliano, per poi essere generalizzata a tutti i lavoratori italiani, è stata perfettamente percepita non solo dalla massa di manifestanti presenti in piazza, ma da tutti quelli che hanno capito che in gioco ci sono questioni più importanti e grandi di quelle, pur legittime e sacrosante, riguardanti le sorti di un’azienda, di un contratto e di una categoria.
Da piazza San Giovanni emerge la volontà e la determinazione di un popolo di discriminati e di oppressi che non intende più subire passivamente il continuo peggiorare delle sue condizioni, la demolizione dei contratti di lavoro e dei diritti, la cancellazione delle conquiste sociali ottenute a prezzo di dure lotte (pensioni, sanità pubblica, scuola, ecc.) a vantaggio degli interessi di pochi capitalisti che continuano ad arricchirsi, mentre affamano il popolo cercando di convincerlo che questo è il migliore dei sistemi sociali possibili.
La piazza di San Giovanni ha detto no alle compatibilità capitaliste, alla precarietà, alla cancellazione dei diritti e alla prepotenza e arroganza padronale. Ha detto sì al lavoro, ai diritti e all’uguaglianza.
Da troppo tempo non si erano potuti ascoltare messaggi così chiari e così condivisibili. Da quando, cioè, non solo da parte del padronato, ma soprattutto da quelle forze politiche e sindacali che sulla carta avrebbero dovuto essere dalla parte dei lavoratori e delle loro ragioni, è cominciata la lenta, continua e insidiosa demolizione degli strumenti di analisi di classe e, di pari passo, è cominciata l’esaltazione del sistema che negava l’esistenza dell’ingiustizia sociale, del liberismo e delle compatibilità capitaliste.
Diversi “personaggi politici”, anche alcuni che non c’erano e non hanno aderito ufficialmente, hanno tentato di mettere il loro cappello sulla manifestazione, vista la sua imponente riuscita, cercando di impossessarsi fraudolentemente della forza della protesta dei partecipanti al corteo. Il tentativo più subdolo e pericoloso è rappresentato da quelli che hanno tentato di far credere che il malessere e l’ingiustizia sociale di oggi non siano la conseguenza del sistema liberista, che tutela i pochi ricchi e affama i tanti cittadini e lavoratori, ma dipendessero solo da personaggi sbagliati e negativi al potere. Cambiando i quali (lasciando inalterato il sistema capitalista, s'intende) si risolverebbero i problemi.
Il "sognatore" Vendola, affascinante affabulatore, come il suo predecessore Bertinotti, aspirante candidato del centro”sinistra” alla carica di Presidente del Consiglio, durante la manifestazione ha affermato: ”Qui oggi si è aperto il cantiere dell'anti-berlusconismo. C'è un'Italia migliore di Berlusconi, della paura, questo ci dice questa piazza. Oggi noi abbiamo una grande unità di popolo, è un'unità che viene dal basso"; e, riferendosi al Governo: "Sono loro inadeguati a governare. Hanno portato il Paese verso la miseria"; ancora a chi "ci spiega che di fronte alla crisi bisogna ridurre i redditi e le tutele", il governatore della Puglia ha risposto che "questo non solo è sbagliato dal punto di vista economico, ma rappresenta anche una regressione dal punto di vista della civiltà. Qualcuno vuole uscire dal Novecento per entrare nell'Ottocento. Io voglio entrare nel Duemila. La precarietà è come una pallina da pingpong, che va dalla scuola al mondo del lavoro. Vogliono precarizzare la nostra vita per comandarci meglio", ha proseguito Vendola. "Sono in piazza - ha spiegato - perché oggi non c'è soltanto una questione sindacale, ma politica e culturale. Riguarda un modello di società in cui viviamo. Penso che bisogna ribellarsi, la modernità deve contemplare i diritti del lavoro. L'unità fondamentale è quella del popolo, poi viene quella del centrosinistra. A quella ci pensiamo domani".
Il tentativo del governatore della Puglia sembra essere quello di imbrigliare le giuste proteste e lotte dei lavoratori, mantenendole dentro il quadro capitalista, convogliandole all’interno delle logiche del centro”sinistra”: uno schieramento che ha dimostrato tutto fuorché tutelare i lavoratori e combattere l’ingiustizia sociale che, anzi, ha contribuito fattivamente ad alimentare.
La manifestazione del 16, oltre ad essere rivolta contro l’attuale governo, era apertamente contrapposta alle logiche capitaliste e liberiste condivise e portate avanti sia dai governi di centrodestra, sia da quelli di centro”sinistra”.

venerdì 15 ottobre 2010

Il 16 ottobre con la Fiom, contro l’arroganza e la prepotenza

La manifestazione nazionale della Fiom del 16 ottobre a Roma ha l'obiettivo di mettere in campo un’opzione diversa da quella della precarietà per tutti e del ricatto sociale generalizzato.
Non si tratta soltanto di una questione di tattica, ma anche di sostanza politica. La prospettiva iperliberista, da importare nel Paese e nei posti di lavoro, è indicata come via d’uscita dalla crisi della globalizzazione liberista. Peccato però che sia incompatibile con la democrazia e gli interessi di lavoratori, disoccupati, precari e pensionati.
Lo sanno bene i milioni di precari e di disoccupati che non hanno mai potuto sapere cosa significasse esigere un diritto o praticare la democrazia sul posto di lavoro. Lo sanno i tanti costretti al lavoro nero e sottopagato. Lo sanno i lavoratori di settori che hanno già sperimentato le magnifiche sorti dei contratti “innovativi”.
La giornata di lotta del 16 ottobre deve servire a sconfiggere il tentativo di generalizzare l’accordo di Pomigliano e di azzerare il contratto dei metalmeccanici: questioni che rappresentano la premessa di un progetto generale reazionario che ha l’obiettivo di determinare l’abolizione di ogni forma di democrazia e di diritto per le classi più deboli. Che saranno così ancora di più ricattabili.
Non che nel nostro Paese la democrazia nei luoghi di lavoro sia un granché, anzi. Ma ora ci sono elementi di novità. Bonanni e Angeletti pretendono di sostituire un contratto nazionale approvato con referendum con uno nuovo (separato e mai sottoposto al voto dei lavoratori) e firmano persino un accordo che stabilisce che Fim e Uilm possono concordare nelle aziende delle deroghe al contratto nazionale separato e che quelle deroghe verranno “validate” non dai lavoratori interessati, ma da Fim, Uilm (Cisl e Uil) e Federmeccanica a livello nazionale. Per poi generalizzare negli altri settori metodi e contenuti.
La manifestazione del 16 colloca la Fiom, nei fatti, alla testa di un movimento di opposizione. E' necessario che rappresenti il primo appuntamento di riscossa dei lavoratori per sconfiggere questi tentativi, portati avanti da chi è apertamente ostile agli obiettivi della mobilitazione (Fiat, Confindustria, Governo e oligarchie di Cisl e Uil), ma anche da parte dell’opposizione parlamentare che non ha il coraggio né di schierarsi apertamente a fianco dei lavoratori, né contro le loro rivendicazioni. La Cgil, dal canto suo, è costretta a subire l’iniziativa della Fiom e a partecipare per non perdere ulteriormente la faccia e per tentare di ricondurre all’interno delle logiche e delle pratiche di compatibilità e subalternità del sindacato la lotta dei metalmeccanici e della Fiom.
Non sorprende in ultimo il coro becero e di vecchia memoria del Governo e di parte delle solite cassandre “dell’opposizione” (Veltroni l'africano in testa), teso a diffondere allarmismo intorno alla manifestazione, circa il pericolo di immaginarie iniziative eversive.
Costoro, preoccupati della ripresa del protagonismo dei lavoratori, tentano di accomunare le lotte operaie al terrorismo, cercando di accreditare l’idea per cui a mettere in pericolo la democrazia è chi lotta, chi resiste e si oppone alla prepotenza e all’arroganza e manifesta per i propri diritti, non chi arbitrariamente sottoscrive accordi sindacali sulla sua testa dei lavoratori. Senza alcun mandato e senza alcun consenso.

P.s. La scena di Riotta, ormai portavoce-zerbino della Marcegaglia (col benestare del Berlusca, come da intercettazioni), che da Santoro afferma che gli imprenditori che delocalizzano sono dei "poverini" e che per superare la crisi occorre togliere diritti ai lavoratori è vergognosa. Il tutto con Bersani "manichedicamiciatiratesù" in imbarazzato silenzio. E dimostra come sindacati confederali, giornalisti ossequiosi e politici di mezza tacca si siano tutti venduti, chi per un posto da direttore, chi per la ricandidatura, chi per mangiare al tavolo dei padroni. Il tutto sulla pelle dei lavoratori che si sentono dire: "c'è il sistema capitalista, DOVETE fare sacrifici" - "contestate il sistema? SIETE dei terroristi". Altro che uova.

giovedì 14 ottobre 2010

Uscire dalla miniera

Finalmente liberi i 33 minatori intrappolati in Cile. Certe notizie volano più alte della cronaca, le miserie della politica, il pettegolezzo dominante. Nella speranza che non si ripetano più fatti come questo, anche se finito nel migliore dei modi. Anche se molte volte, purtroppo, non è così. Ci pensino tutti coloro che attaccano i diritti dei lavoratori, anteponendo gli affari di mercato e i guadagni personali, spesso sporchi e sulle spalle della collettività. Ci pensino loro a stare sepolti 600 metri sottoterra per portare a casa il pane. E ci pensino i lavoratori, a difendere ciò che spetta loro.

sabato 9 ottobre 2010

Buon compleanno John



"Imagine".
John Lennon (Liverpool, 9 ottobre 1940 - New York, 8 dicembre 1980), chitarrista, cantante, poeta.

venerdì 8 ottobre 2010

Bamboccioni? No, emarginati, sfruttati e derisi

L’ultima indagine statistica pubblicata in questi giorni da Eurostat si è occupata di analizzare l’età media in cui i giovani escono dalla famiglia. Il dato significativo che ne emerge segnala una tendenza generale a restare “in famiglia” dei giovani. Nella fascia di età 25-34 anni vive con i genitori il 32 per cento degli uomini contro il 20 per cento delle coetanee. In Paesi come la Bulgaria la differenza è molto più forte: 61 contro 31 per cento.
La televisione di Stato presenta in questo modo quanto emerso dall’indagine (Televideo dell’8 ottobre): ”Eurostat: i più mammoni sono i giovani italiani”. Il giornale la Repubblica, sulla stessa lunghezza d’onda, titola: ”Eurostat: i bamboccioni sono maschi. Le donne se ne vanno di casa prima”. I due mezzi di comunicazione si lanciano, poi in una serie di considerazioni sociologiche riguardanti i giovani di ambo i sessi, evitando bene di toccare le vere ragioni. Che sono economiche e di fondo, determinando il fenomeno e le sue logiche conseguenze. Secondo costoro, infatti, sarebbe da addebitarsi al costume e allo sviluppo culturale delle varie nazioni (che comunque sono coinvolte allo stesso modo) il fenomeno, rappresentando così i giovani come incapaci, anche in età adulta, di staccarsi dalla propria condizione assistita e tutto sommato felici della propria realtà.
Lo stato delle cose è ben diverso. La gigantesca redistribuzione della ricchezza, avvenuta nella società fondata sul mercato e sulla competitività, favorisce sempre di più i pochi ricchi capitalisti e penalizza i tanti, che privi di risorse economiche e di lavoro non vedono prospettive per il proprio futuro. Questo vale a maggior ragione per la stragrande maggioranza dei giovani, che si apprestano ad essere, nella migliore delle ipotesi, precari (con stipendi bassi e con il perenne rischio di perdere, con il lavoro, anche quelli) o addirittura disoccupati a vita. Condizioni che privano di qualsiasi possibilità di costruire la propria vita e la propria indipendenza e libertà, costringendo a rimanere “in famiglia” dove si può contare sullo stipendio o sulla pensione dei genitori che, in questo modo, sopperiscono alla situazione garantendo sussistenza. Al posto dello Stato e a proprie spese.
Questa situazione, intollerabile e penalizzante per i giovani precari e disoccupati fa la felicità del padronato, che grazie alla fame di occupazione può avere “manodopera” piegata, subalterna e disponibile anche a lavorare in uno stato di perenne precarietà e senza poter usufruire dei diritti contrattuali (stipendi, ferie, malattia, diritto di sciopero, ecc.) dei padri. I giovani sono perciò ridotti a una condizione di completa subalternità, economica e sociale. Il tutto a vantaggio del padrone, che ne trae maggiore profitto e guadagno.
Togliere ai giovani il diritto alla propria libertà e autodeterminazione, che solo un lavoro può consentire, rappresenta un’ingiustizia sociale mostruosa. Aggiungere a ciò l’insulto e la derisione diventa una violenza intollerabile e inaccettabile.

giovedì 7 ottobre 2010

Un accordo sindacale controcorrente

Giorni fa il sindacato tedesco Ig Metall ha raggiunto un accordo con uno dei maggiori gruppi industriali al mondo, la Siemens AG, azienda che opera principalmente nei settori dell’automazione industriale, del trasporto ferroviario, dell’illuminazione, dell’energia, dell’informatica e dell’elettronica medica.
Quattro sono i punti nodali dell’accordo.
1) La sovranità sull’occupazione, in Siemens, diventa materia condivisa, non più soggetta ad atti unilaterali dell’azienda che non può operare alcun licenziamento senza che la rappresentanza sindacale aziendale conceda il suo nulla osta.
2) l’accordo è sì valido - ma non poteva essere altrimenti - per la sola Germania, ma è esteso anche alle “consociate”, sicché i lavoratori che ne beneficeranno toccheranno il ragguardevole numero di 160mila. E’ l’intero arcipelago del gruppo a essere coinvolto. Le aziende controllate saranno tutte vincolate alla medesima normativa in materia di salvaguardia occupazionale.
3) In caso di crisi aziendali si ricorrerà a soluzioni alternative alla risoluzione dei rapporti di lavoro, come la mobilità all’interno del gruppo e come la riduzione degli orari. Sì, proprio quell’intervento sul tempo di lavoro che padroni e governi nostrani hanno sempre osteggiato e tuttora considerano una sciagura, preferendo che il mondo del lavoro si divida fra un esercito di disoccupati involontari (scarsamente o per nulla assistiti) e un’altra parte, ricattabile, impegnata per sessanta ore settimanali.
4) Impegno formale di Siemens, conseguenza diretta dei precedenti, di non delocalizzare le produzioni all’estero: gli investimenti e gli insediamenti allocati dall'azienda in terra straniera saranno dunque complementari e non sostitutivi rispetto a quelli operativi in Germania.
La società bavarese non è la sola impresa tedesca ad aver intrapreso questa strada, visto che la Daimler, azienda di automobili e mezzi di trasporto civili e militari, ha revocato l’intenzione di chiudere lo stabilimento di Sindelfingen, impegnandosi a mantenere in forza, fino al 2020, i 37mila lavoratori che vi sono occupati.
Tutto ciò merita un’approfondita riflessione, che dovrebbe essere condivisa anche dai politici e dai sindacati nostrani. Con questo accordo si demoliscono luoghi comuni che hanno qui da noi grande seguito. A partire dalla madre di tutte le sciocchezze, quella secondo cui i differenziali dei costi di produzione (e specialmente di quello del lavoro) giustificano ogni sorta di sopruso antisindacale entro i confini nazionali, nonché la dismissione degli impianti da traslocare appena possibile in siti dove il rischio di impresa è pari a zero e il profitto certo.
Questo non significa certo che in Germania ci siano padroni filantropi che rinunciano al loro profitto sulla pelle dei lavoratori. C’è da parte del padronato tedesco meno ingordigia rispetto agli imprenditori nostrani e più lungimiranza, perché retribuisce il lavoro operaio come nessuno al mondo (da tre a cinquemila euro mensili), con i salari reali che sono cresciuti nel secondo semestre e su base annua del 2,3 per cento, mentre decollano nei lander le lotte per i rinnovi dei contratti di settore e - malgrado i tagli di questi anni - il welfare, nonché gli investimenti sulla ricerca e sull’intero sistema formativo si mantengono a livelli ragguardevoli. Con le logiche ricadute positive in materia di consumi.
Ora, non si tratta di magnificare acriticamente il modello cogestionale tedesco, che ha le sue ombre, quanto segnalare che, pur rimanendo all’interno di un ambito capitalista e di mercato, possono sussistere soluzioni meno ingiuste e discriminatorie di quelle nostrane, improntate alla cancellazione dei diritti, al precariato, alla disoccupazione, al sottosalario e alla delocalizzazione.
Di quest’accordo in Italia sicuramente si parlerà poco o nulla. Né il padronato e i partiti che lo rappresentano (di destra o di "sinistra"), né i sindacati, tutti accucciati sotto il totem dominante delle compatibilità capitaliste, hanno interesse a far conoscere l’esistenza di strade diverse da quelle che perorrono. E che sono cosi fruttuose per loro in termini di sporchi, veloci soldi.

domenica 3 ottobre 2010

C’è violenza e violenza

Testo dell’articolo comparso su Il Sole 24 Ore il 2 ottobre scorso.
«Il Paese ha perso il senso istituzionale, la bussola è partita, qualcuno ha aperto i cancelli dello zoo e sono usciti tutti. È difficile andare in giro per il mondo a spiegare cosa succede in Italia. È vergognoso». Così l'amministratore delegato della Fiat Sergio Marchionne ha commentato gli ultimi fatti di violenza che si sono verificati in Italia.
Alla domanda se sia corretto fare delle similitudini con gli anni di piombo, Marchionne, che si è detto «molto preoccupato», ha risposto: «Beh, quelle fotografie le ricordiamo tutti». In precedenza, nel corso dell'intervento davanti alla platea dei Cavalieri del lavoro, a Firenze, l'ad della Fiat aveva affermato che «gli episodi di violenza che si sono verificati in questi giorni vanno condannati con fermezza. Dobbiamo prendere le distanze, tutti quanti, da una cultura disastrosa che alza la tensione sociale e nega il dialogo».
A giudizio di Marchionne si tratta di «una cultura che non ci appartiene e che serve solo a distruggere ciò che di buono stiamo tentando di costruire. Oggi c'è bisogno di una convergenza forte, la più ampia possibile, che veda insieme tutte le forze positive di cui l'Italia dispone». Secondo l'ad della Fiat, insomma, «c'è bisogno di condividere gli impegni, le responsabilità e i sacrifici, in vista di un obiettivo che vada al di là della piccola visione personale». Questo, ha concluso, «è il momento di accettare il cambiamento come possibilità per creare una base di ripartenza sana, come un'occasione per iniziare a costruire insieme il Paese che vogliamo lasciare in eredità alle prossime generazioni».
Fra gli episodi di violenza che giustificherebbero il nuovo allarmismo, fino a evocare il terrorismo degli anni di piombo, Il Sole 24 Ore elenca: L’attentato (presunto) sventato a Maurizio Belpietro e, fatte alcune distinzioni, il candelotto che ha bruciato il giubbotto di Raffaele Bonanni sul palco torinese della Festa del Partito democratico. Ma anche i lanci di uova e pietre di ieri a Livorno contro la sede della Confindustria e della Cisl e l'assedio di un gruppo di avversari sindacali urlanti, sempre ai danni della Cisl, a Treviglio. E ancora le contestazioni urlanti che hanno impedito di parlare, in due distinte occasioni, al presidente del Senato Roberto Schifani e al suo ex collega Franco Marini; o anche l'invasione di sala che ha chiuso appena al suo incipit l'intervento sui nuovi diritti del lavoro (?) del professor Pietro Ichino a Milano.
Premesso che il terrorismo (coincidente troppe volte con gli interessi dell’avversario di classe, tanto da giustificare dubbi sulla sua reale matrice e provenienza) non ha mai fatto parte dei metodi di lotta democratica, né teorizzati né tantomeno praticati dei lavoratori che, anzi, nella sostanza sono stati sempre in prima linea nella lotta contro tale aberrante modo di concepire la politica, accostargli le sacrosante, legittime e civili proteste verso quei soggetti politici o sindacali caratterizzatisi per politiche contro i lavoratori è, questo si criminale.
Considerare l’applauso come unica forma di espressione democratica è tipico delle dittature. Questo sta avvenendo in Italia. I lavoratori e i cittadini hanno il sacrosanto diritto di criticare e contestare chi decide per loro e su di loro. E lo fa a loro danno. Cisl e Uil, senza la Fiom e soprattutto senza alcun mandato, che sottoscrivono accordi contrattuali anche in deroga ai contratti di lavoro; le più alte cariche dello Stato che si tutelano grazie a leggi che li esentano dal rispondere alle accuse che il sistema giudiziario gli contesta; i politici e i “giuslavoristi” che con la loro condotta politica e con le loro teorie fanno compiere ai lavoratori e ai discriminati enormi passi indietro sulla strada dell’emancipazione e dell’uguaglianza, devono sapere che il loro comportamento non può essere esente da giudizi e quando lo meritano, possono e devono essere criticati e contestati. Quale democrazia sarebbe, quella che permette solo il consenso?
Che tipo di consenso si può esprimere verso un ceto politico e sindacale che ha visto come unica maniera per uscire dalla crisi (che peraltro ha colpito solo i lavoratori, i precari, e i pensionati) quella di ridurre sempre e soltanto il lavoro, i salari, i diritti civili, le prestazioni sociali e le pensioni, la scuola, la sanità, i servizi a parità di carico fiscale, mentre ha concesso ai grandi capitalisti di continuare ad arricchirsi e ad evadere le tasse?
Tutti i dati statistici continuano a segnalare il crescere della disoccupazione se non della fame: ultimo in ordine di tempo il crollo dei consumi delle famiglie italiane nel 2009, soprattutto per trasporti, generi alimentari e abbigliamento, come segnalato dalla Cgia di Mestre. Tutto questo peggiorare delle condizioni di vita però è circoscritto nell’ambito delle classi subalterne, perché i ricchi e i capitalisti hanno continuato ad arricchirsi in barba ai sacrifici e alle rinunce che hanno imposto ai lavoratori.
Come può allora essere considerata violenza la contestazione verso chi continua a demolire le condizioni di vita di chi sta già male, senza poi dire nulla sulla violenza che ogni giorno (da troppo tempo ormai) è esercitata verso chi è licenziato e delocalizzato, verso chi vede diminuire il suo salario e il suo potere di acquisto, verso chi viene mantenuto in uno stato di disoccupazione o di precarietà privandolo del suo presente e del suo futuro e soprattutto della sua dignità di persona libera. Come può essere considerato libero un cittadino che non sa quanti anni di lavoro e di contributi sono necessari per potersi riposare? Il lavoro, se eterno o quasi, non nobilita l'uomo, ma lo riduce peggio delle bestie. E non è un modo di dire. Oggi ci sono schiavi ormai canuti alla catena di montaggio, mentre i giovani sono disoccupati grazie alla logica perversa e cinica della competitività a senso unico del padronato. Come si può definire non violenta quella realtà sociale, determinata dai politici e tollerata dai sindacati confederali che, ogni giorno riduce o priva i cittadini di servizi primari come la sanità e la scuola, mantenendo intatto il carico fiscale. Come non definire violenti la stampa e i mass media quando si assiste a metodi di “confronto democratico” come quelli di questi ultimi tempi, che servono a regolare i conti fra i potenti e a oscurare il malcontento e il malessere profondo dei discriminati?
Per costoro i lavoratori, i disoccupati, i precari e i pensionati devono subire serenamente le ingiustizie e le discriminazioni che ogni giorno vengono perpetrate ai loro danni, senza recriminare né tantomeno protestare. Solo cosi saranno democratici e non terroristi. Questa è violenza, altro che chiacchiere e mistificazioni.
E’ contro questo stato di cose che occorre prendere conoscenza e coscienza e soprattutto mobilitarsi e lottare. Non può essere più consentito impunemente a costoro, dopo averci privato di dignità e speranza nel futuro, di assumere il ruolo di difensori della civiltà, del progresso e della legalità.