giovedì 21 ottobre 2010

La classe non è acqua

E’ opinione largamente diffusa che, quando si parla di giustizia, ci si riferisca a un’entità astratta, immodificabile, indiscutibile e perciò superiore . La giustizia con la "G" maiuscola e senza aggettivi cioè, che è al di sopra e al di fuori di ogni fazione o interesse: uno strumento implacabile ed equo contro chi le contravviene e che punisce chi si rende colpevole d’illegittimità. La giustizia imparziale ed equa per tutti, qualunque sia il colore della pelle, la fede politica o religiosa o sindacale, il sesso e la condizione economica.
L'attualità e la storia ci insegnano che la realtà è ben diversa, che la giustizia senza aggettivi non esiste, che sono sempre esistite tante giustizie parziali. E che chi comanda ha sempre cercato di far diventare legge la propria convenienza e i propri interessi, a danno di chi viene comandato (che, evidentemente, è portatore di convenienze e interessi differenti e contrapposti).
Nei sistemi a libero mercato a prevalere è la giustizia e il diritto del capitale, del mercato e della competitività. Essa è fatta su misura per gli interessi di chi detiene la ricchezza e il capitale: la classe borghese o padronato.
Secondo questa giustizia è legittimo che esistano le differenze sociali, che alcuni abbiano diritti non riconosciuti a tutti gli altri; che, quindi, al di là di enunciazioni solenni, gli individui siano titolari di libertà e diritti diversi: l’imprenditore e l’operaio, il parlamentare e il cittadino, il capitalista e il proletario, lo speculatore e il precario, ecc. Secondo questa logica di classe, quindi, possono legittimamente coesistere la ricchezza più sfrenata e la miseria più nera, il ricco padrone (libero) e il disoccupato o precario (oppresso e schiavo), il privilegio e la discriminazione.
Nei sistemi capitalisti gli interessi dei ricchi diventano legge, i bisogni dei discriminati sono condizionati e subalterni a essi (salari, pensioni, occupazione, precarietà, tasse, servizi, sanità, scuola). E’ legittimo ed equo, per fare un esempio, che un imprenditore guadagni quattrocentoventi volte lo stipendio (da fame) di un suo dipendente e costringere quest’ultimo a diritti di cittadinanza che non gli sono garantiti. La classe sociale economicamente prevalente, in questo modo, diventa classe dominante e chiama giustizia, democrazia e libertà la sua giustizia, la sua democrazia la sua libertà.
Quello che sta avvenendo in questi giorni dimostra più che mai la parzialità di classe di una giustizia che si adatta, fino a diventare su misura dei bisogni del prepotente di turno. A costui tutto è consentito: non può essere processato perché ha altro da fare. Può, però giudicare e punire i suoi giudici. L’arroganza del suo potere (che poi è il potere della classe cui appartiene) non conosce limiti. I suoi desideri sono legge, sono diritto, sono giustizia.
Costui (e in gran parte chi appartiene a classi privilegiate) non tenta nemmeno di mascherare o nascondere che il suo tentativo è di farsi i fatti propri. Di piegare, cioè la legge, il diritto e la libertà (già di classe) ai suoi bisogni e interessi prevalenti al momento (rendendo legittimi comportamenti non considerati tali finora), dimostrando oltre alla prepotenza e all’arroganza, un disprezzo verso i cittadini che giudica incapaci di valutare la realtà vera e condizionabili in ogni modo.
Quanto sta avvenendo, in questi giorni, dimostra il fondamento eversivo delle classi dominanti che, non contente del loro attuale potere e della conseguente sostanziale ingiustizia della nostra società, considerano la democrazia parlamentare un’inutile e fastidiosa sovrastruttura e, quando lo ritengono e ne hanno l'opportunità, modificano o manomettono anche le regole costituzionali a loro piacimento.
E l’opposizione che fa? Un contrasto di facciata che non impedisce di fatto la barbarie e la prevaricazione, di cui ha consentito la nascita politico culturale e l’affermazione, ostacolando qualsiasi tentativo alternativo su basi classiste, liquidato come vetero.

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