sabato 24 settembre 2011

"Prima la pace, poi lo Stato. E solo attraverso negoziati diretti".

E’ quanto ha risposto il premier israeliano Benyamin Netanyahu alla richiesta avanzata dai dirigenti palestinesi all’Onu, tesa a ottenere il riconoscimento dello stato di Palestina entro i confini del 4 giugno del 1967 con Gerusalemme est capitale.
Netanyahu, pur facendo riferimento alla pace, con la sua frase sintetizza l’arroganza e la prepotenza della posizione israeliana. Di un paese cioè che contando sulla forza delle proprie armi e sull’appoggio perenne degli Stati Uniti, che hanno permesso e garantito la recente nascita dello stato d’Israele sulla terra di Palestina, pretende di dettare le condizioni per il riconoscimento del diritto all’esistenza di un altro popolo sul territorio su cui da sempre i palestinesi hanno vissuto.
Il riconoscimento dello stato palestinese, secondo Benyamin Netanyahu, sarebbe condizionato, dal preventivo riconoscimento dello stato di Israele e dalla pace con esso. La strumentalità di questa posizione appare evidente: Quale entità nazionale, geografica e politica potrebbe e dovrebbe fare la pace con Israele se non ne esiste alcuna riconosciuta da parte palestinese?
Perché la nazione di Israele è uno stato riconosciuto anche in sede Onu, mentre la nazione palestinese no?
Perché e sulla base di quale ragione, Israele pretende di condizionare il riconoscimento del diritto all'esistenza in vita di una forma stato di un altro popolo, quello palestinese?
Dal 1967, anno della guerra dei sei giorni, Israele occupa buona parte dei territori palestinesi, e, con la scusa della sicurezza interna, porta avanti con la forza delle armi una politica aggressiva di colonizzazione di quel territorio, con consistenti e inarrestabili insediamenti abitativi armati cacciando ed espellendo dalla propria terra i palestinesi.
Tutto ciò non acuisce la crisi e rende sempre più improbabili le possibilità di pace?
La realtà dei fatti è che non conviene a Israele arrivare a una pace perché, nelle condizioni attuali, con il pretesto della propria sicurezza nazionale, riesce ad allargare con la forza ininterrottamente da più di quaranta anni i propri confini. Nel frattempo l’intero popolo palestinese è sottoposto a una feroce e aggressiva occupazione militare e umiliato sulla propria terra.
Il Presidente palestinese nel suo intervento di ieri alle Nazioni Unite ha attribuito la responsabilità per il fallimento dei negoziati di pace a Israele, che ha accusato di cimentarsi in una «politica colonialista» verso gli arabi che si somma «all'occupazione militarizzata» dei Territori palestinesi. «Israele continua la sua campagna demolitrice e la sua pulizia etnica verso i palestinesi» ha detto Abu Mazen, rilevando che tale aggressione non risparmia i «luoghi sacri» arabi. Il Presidente palestinese ha chiarito che il suo discorso non intende «isolare o a delegittimare Israele», ma «delegittimare la sistematica colonizzazione» dei Territori palestinesi.
«Dichiaro qui che l'Olp è pronto a tornare immediatamente al tavolo del negoziato» se cesseranno le «attività d’insediamento» nei Territori occupati.
Il consenso ricevuto dall’intervento all’Onu di Abu Mazen fa sperare che le giuste richieste palestinesi vengano accolte, superando il preannunciato veto americano che, grazie a regole ingiuste diventa determinante.
Il consenso ricevuto dall’intervento di Abu Mazen all’Onu fa sperare che quest’organismo dimostri, nonostante tutto, la sua autonomia contribuendo alla libertà e al diritto del popolo palestinese e non alimentando il sospetto di intervenire solo quando interessi agli Stati Uniti, alle banche e al mercato.

venerdì 9 settembre 2011

Linguaggi fumosi e negazione delle differenze sociali

Il Presidente della Repubblica, nel mentre in Parlamento si stanno prendendo decisioni che peggioreranno molto la vita dei cittadini italiani, in particolare quelli a reddito fisso (lavoratori e pensionati), interpretando il suo ruolo di garante e custode super partes della Costituzione e dei “valori” nazionali, tenta di rilanciare un discorso “unitario” o meglio interclassista, nel tentativo di convincere il popolo che sì, ci sono cose che non vanno ma che esistono tutte le condizioni per la rinascita del Paese e con essa per il superamento dei problemi esistenti, basta solo che, tutti insieme si lavori per risanare la finanza pubblica e si superi la crisi.
Il Presidente si riferisce subito all'ondata di antipolitica che scuote il Paese. Napolitano, in sintesi, invita a non generalizzare: "Oggi bisogna prestare qualche attenzione all'uso dilagante di certe espressioni come casta politica o si rischia di diventare come la notte in cui tutto è grigio e diventa nero. Non posso che parlare del Parlamento come di un’istituzione fondamentale, insostituibile, irrinunciabile e con una funzione pedagogica".

Si potrebbe dire che il suo sforzo, teso a smorzare la rabbia crescente dei cittadini taglieggiati verso una classe politica intoccabile e privilegiata, è sovrumano, ma è destinato a fallire. Infatti, anche se non esistono, allo stato attuale dei fatti, aggregazioni politiche che denuncino l’esistenza conclamata e dilagante dell’ingiustizia e della discriminazione sociale è vero, però, che la maggior parte dei cittadini, che paga sulla propria pelle le scelte che governo e padronato stanno portando avanti da tempo, che vede diminuire i suoi diritti, peggiorare le proprie condizioni economiche, azzerare i servizi e cancellare il proprio futuro, un giudizio di fondo, che non è qualunquismo, sull’attuale classe dirigente: Governo, Parlamentari e imprenditori, l’ha definitivamente dato con una parola che oggi va molto di moda: Casta (coloro che condividono una medesima condizione sociale ed economica diversa e privilegiata rispetto quella di altri, la maggioranza, che di conseguenza sono discriminati).
La parola “casta” o privilegio sicuramente più “moderna” sostituisce quella che molti, compreso Napolitano usavano fino a pochi anni fa: Classe o discriminazione.
Denunciare l’esistenza di una casta o differenziazione di classe non può essere solo lo scoop di qualche avveduto giornalista che cerca di diffondere la convinzione per cui il privilegio è un’esclusiva dei soli parlamentari. Di questa realtà, si stanno convincendo masse crescenti di discriminati che, davanti al drammatico peggioramento delle loro condizioni di vita, vedono permanere, anzi aumentare il privilegio, la ricchezza di pochi e la disuguaglianza, in barba alla Costituzione.
Napolitano, dimenticandosi delle proprie convinzioni (?) giovanili, di quando da dirigente del Partito Comunista Italiano si schierava dalla parte dei deboli e dei discriminati contro l’ingiustizia e la prepotenza padronale, oggi cerca di far credere che sostenere le stesse analisi e denunciare l’esistenza del privilegio, sia far proprie tesi antipolitiche o qualunquiste, simili a quelle che determinarono l’avvento del fascismo in Italia e per questo siano un attacco alla politica (?) e, soprattutto alle istituzioni democratiche. Con l’occasione, Napolitano cita Antonio Gramsci e la sua riflessione sulla responsabilità della sinistra nella genesi del fascismo, facendo un improbabile parallelo con la situazione attuale e tentando di accreditare la tesi per cui, fra le tante responsabilità dei comunisti "fummo anche noi senza volerlo parte della dissoluzione generale della società italiana", dove "quel noi si riferiva alla parte che Gramsci rappresentava", ci sia anche quella di aver facilitato l'avvento del fascismo.
Napolitano fa, oggi, tali considerazioni, si appella al suo passato per disconoscerne, ancora una volta, le ragioni e taccia per antipolitica e attacco alle istituzioni il comportamento di chi, anche davanti alla realtà, oggi si ostina a parlare di casta e di privilegio.
Se esiste la casta e il privilegio, allora esiste l’ingiustizia e la discriminazione. Del resto come non definire privilegio quello di cui godono i parlamentari che tagliano pensioni e stipendi e, mentre aumentano le tasse per i cittadini e chiudono ospedali, mantengono intatte, al di la del fumo, le proprie condizioni e il proprio privilegio?
Come non definire casta quella della Confindustria e del padronato che incamera profitti enormi, di cui non è nemmeno possibile stabilire l’entità, che evade le tasse rifugiandosi nei paradisi fiscali, che de localizza le proprie aziende per risparmiare sulla manodopera (alla faccia dello spirito patriottico), che precarizza, che toglie il diritto di sciopero di malattia e che pretende di licenziare senza giusta causa ripristinando rapporti economici e sociali superati dal tempo e dalle lotte dei lavoratori?

"Per restare in Europa è necessario un esame di coscienza collettivo che deve riguardare anche i comportamenti individuali di molti italiani di ogni parte politica e sociale. Molti italiani devono comprendere che non siamo più negli anni ottanta e tanto meno negli anni settanta. Il mondo è radicalmente cambiato e anche noi dobbiamo cambiare i nostri comportamenti e le nostre aspettative in senso europeo per mantenere una nostra prospettiva in Europa". E’ quanto sostiene il Presidente della Repubblica. Occorrerebbe che spiegasse cosa significa però oggi restare in Europa, a quale prezzo e perché mai i lavoratori, i pensionati e i precari dovrebbero desiderare di stare in Europa?
Ancora cosa significa esame di coscienza collettivo anche dei comportamenti individuali, a chi ci si riferisce? Quali sono i soggetti sociali che devono cambiare i propri comportamenti e le proprie aspettative e soprattutto in che modo, per mantenere una nostra prospettiva in Europa?
Sarebbe necessario forse un linguaggio più chiaro e diretto in una situazione come l’attuale. Sarebbe soprattutto necessario che il crescente malcontento dei lavoratori contro l’attuale evoluzione politico-economica trovasse adeguate voci e rappresentanza nel Paese e in tutti quei luoghi dove si decide sulla loro pelle.

lunedì 5 settembre 2011

Le “riforme” del Governo e lo sciopero generale.

La “crisi economica” che colpisce come sempre i lavoratori sta fornendo, al Governo e ai suoi sostenitori Cisl, Uil, Confindustria e partiti politici, il pretesto per l’assalto finale a quello che resta dei diritti di quei cittadini che per necessità sono costrettti a diventare lavoratori dipendenti.
L’enormità di quanto sta accadendo appare evidente nella norma (art. 8) della manovra economica del Governo. Questo articolo da il diritto e la libertà ai “datori di lavoro” di licenziare un lavoratore dipendente o di derogare a leggi e contratti di lavoro, quando questo sia deciso in accordo con sindacati percentualmente più rappresentativi a livello territoriale o aziendale. Questi sindacati, in base all’art. 8 possono sottoscrivere accordi con le aziende in deroga che privano i lavoratori di tutele e diritti compresi quelli previsti dalla Costituzione. L’ultima modifica all'articolo del decreto stabilisce che possono sottoscrivere le intese in questo senso non solo le "associazioni dei lavoratori comparativamente più rappresentative sul piano nazionale o territoriale", ma anche le "loro rappresentanze sindacali operanti nelle aziende"; le intese avranno, però, "efficacia per tutti i lavoratori”.
I diritti fondamentali dei cittadini, quelli sanciti dalla prima parte della Costituzione, e i contratti di lavoro diventano, per chi lavora sotto padrone, carta straccia.
Molte considerazioni possono essere fatte in proposito. Due in particolare: E’ sufficiente un accordo territoriale o addirittura aziendale, fra imprenditori e sindacati “rappresentativi” per privare un lavoratore dei diritti di libertà e uguaglianza fondamentali. Il lavoratore, in base a ciò, non è più titolare di tali diritti a prescindere, come cittadino della Repubblica, perché questi gli possono essere tolti e revocati da altri soggetti quali il padrone e il sindacato che hanno, loro, il potere di farli diventare cittadini detentori di diritti di serie b.
Quale democrazia è mai quella che permette a soggetti terzi sulla base di valutazioni economiche di privare altri cittadini di diritti inalienabili e primari, previsti dalla legge fondamentale, nata dalla lotta partigiana, sulla quale è costruito il patto fondante del Paese e del Popolo italiano?
Il diritto all’uguaglianza dei cittadini è definitivamente compromesso perché, anche formalmente, i cittadini sono titolari di diritti diversi legati alla loro condizione economica e al loro stato sociale che li costringe a diventare lavoratori dipendenti.
La contrattazione decentrata a livello territoriale e aziendale non è un’invenzione di questo governo, da sempre è stato possibile sottoscrivere, laddove ve ne erano le condizioni e la forza, contratti migliorativi di quelli esistenti e mai intaccare o far venire meno leggi. A differenza del passato, però, ora il sindacato, in particolare quei sindacati disponibili e collaterali al padronato e ai suoi interessi, potranno, in base alle “ innovazioni” firmare e validare accordi peggiorativi di leggi e contratti che possono negare diritti consolidati e irrinunciabili.
Il sindacato inoltre cessa, anche formalmente, di essere uno strumento di organizzazione e difesa degli interessi e dei diritti dei lavoratori perché diventa uno strumento istituzionale di gestione dei rapporti di lavoro oppure, addirittura, uno strumento delle aziende e del padronato acquisendo il potere e il diritto (sulla base di quale mandato?) di privarne, chi dovrebbe tutelare nei suoi diritti di cittadino, quando diventa lavoratore. Non sono questioni da poco.
In questo contesto occorre sostenere quelle forze sindacali alternative che sono dalla parte dei lavoratori e che resistono all’attacco padronale. A partire dalla Fiom che è il vero motore dello sciopero generale del 6 settembre unitamente ai sindacati di base, per rafforzare la sua battaglia contro il padronato e le componenti concertative e liberiste presenti nella Cgil che hanno prodotto la deriva compatibilista e flessibilista con gli interessi del mercato del più grande sindacato italiano e che fanno diventare portavoce delle forze sociali la Marcegaglia, per fare il modo che il 6 settembre sia l’inizio di una stagione di ripresa delle lotte e di riscossa dei lavoratori e non solo un sistema per accontentare le frange più combattive del mondo del lavoro e poi far passare, come fino ad oggi è stato fatto, anche questa ennesima manovra antipopolare e liberticida.