martedì 12 giugno 2012

Libertà e diritti diversi su basi di classe

La legge 20 maggio 1970, n.300, fu chiamata, al momento della sua approvazione in maniera significativa: Statuto dei Diritti dei Lavoratori. Con questa legge, fu detto, entrava la democrazia nei luoghi di lavoro e, il cittadino che diventava lavoratore dipendente, varcando la soglia del posto di lavoro, manteneva i diritti fondamentali di libertà sanciti dal Patto fondativo della Repubblica: La Costituzione. “Norme sulla tutela della libertà e dignità del lavoratori, della libertà sindacale e dell'attività sindacale nel luoghi di lavoro e norme sul collocamento”, era questo il primo capoverso della legge che al Titolo 1 riportava le nuove regole a tutela “Della libertà e dignità del lavoratore”. Fino allora al cittadino- lavoratore era impedito, manifestare, nel posto di lavoro, il proprio pensiero, le proprie convinzioni politiche e sindacali. Qualora queste si fossero trovate a collidere con quelle dell’imprenditore, il cittadino-lavoratore sapeva che ne avrebbe pagato le conseguenze come non essere assunto (norme sul collocamento e la chiamata numerica), essere discriminato, nel lavoro o essere licenziato senza alcuna tutela. Lo stesso “democratico” trattamento poteva toccare al cittadino-lavoratore qualora le sue opinioni religiose, colore della pelle, condizione sessuale o razziale, lingua e perfino condizioni personali e sociali, potevano non essere gradite sia al momento dell’assunzione che durante il rapporto di lavoro. Con la legge 300 furono messe le basi per superare tutto ciò, furono aboliti gli impianti audiovisivi di controllo dei lavoratori, gli accertamenti sanitari sull’idoneità e sull’infermità per malattia o infortunio del lavoratore dipendente e le umilianti visite personali di controllo da parte di medici di fiducia del padrone. Le sanzioni disciplinari, con l’art. 7, furono regolate in maniera da togliere dall’arbitrio e dalla prepotenza il cittadino-lavoratore. Fu vietata qualsiasi indagine sulle opinioni personali dei lavoratori per evitare qualsiasi che da questa fossero condizionati l’assunzione e lo svolgimento del rapporto di lavoro. Furono istituite norme per la tutela fisica dei lavoratori,e per i lavoratori studenti. Con l’art. 13 s’impediva al padrone di assegnare qualifiche professionali a suo piacimento o in base alle sue esclusive convenienze e non alle capacità professionali possedute. Con la legge 300 si consentiva per la prima volta l’attività sindacale nei luoghi di lavoro, le assemblee retribuite durante l’orario di lavoro e si vietava al padrone di mettere in atto comportamenti discriminatori a partire dai trattamenti economici o di costituire sindacati di comodo. Ecc. La legge rispondeva alla realtà di arbitrio e prepotenza che esistevano allora, che il padrone metteva in atto per discriminare, punire, perseguitare o licenziare chiunque in qualsiasi modo ostacolasse la sua volontà, interesse o convenienza. Con la legge 300 si toglieva dalle sue mani il ricatto del lavoro. A garanzia e tutela dell’effettivo ingresso in fabbrica dei diritti dichiarati di libertà e democrazia anche nei posti di lavoro c’era l’art. 18. Questo articolo, imponeva al padrone l’obbligo alla riassunzione in tutti i casi in cui il giudice avesse riconosciuto l’illegittimità di un licenziamento operato, e rendeva, quindi, esigibile la legge e con esso i diritti di democrazia e libertà previsti. Cancellare l’obbligo della riassunzione, in caso di licenziamento illegittimo, con l’istituzione pressoché generalizzata delle indennità sostitutive, salvo casi limitati, non ha l’obiettivo di rendere più facile le assunzioni e rilanciare l’occupazione (sempre più legata alla rinuncia di diritti e salario) come sostengono gli imprenditori e le forze politiche che si fanno partavoce dei loro interessi, ma di ridare forza, potere e arbitrio al padrone perché vengono tolte quelle tutele ai lavoratori per renderli più docili e sottomessi e sempre più esposti alla prepotenza e arroganza padronale. Approvare con il voto, come ha fatto il Partito Democratico, che ancora demagogicamente da ad intendere di essere di sinistra, o imbrigliare le lotte e non mettere in campo tutte le energie necessarie, per contrastare questa manovra antidemocratica, come ha fatto la Cgil, prima ancora di un errore è un tradimento degli interessi e dei diritti dei lavoratori che, essi dicono ancora di rappresentare e tutelare. Tradimento fondato sulla negazione dell’esistenza della divisione economica e sociale esistente e della lotta di classe, che lungi dal creare alcun posto di lavoro, priverà ancora di più i lavoratori delle loro libertà e dei loro diritti. La cancellazione dell’obbligo al reintegro ha, in ultimo, il fine di riaffermare e di sancire, nei fatti, l’esistenza di libertà e diritti diversi tra cittadini non solo nei posti di lavoro ma anche e soprattutto nella realtà sociale del Paese, per tutti quelli che a causa delle proprie condizioni economiche, sono o saranno costretti a cercare un lavoro o lavorare alle dipendenze di un padrone e possono godere solo di un diritto di livello inferiore.