giovedì 30 settembre 2010

Vengo anch’io? No, tu no

Nel dibattito che si è svolto ieri alla Camera dei Deputati, in occasione della votazione sulla mozione di fiducia richiesta dal Governo con lo scopo di regolare i conti al proprio interno, sono intervenuti i leader di tutti i partiti.
Il segretario della principale formazione di "opposizione" Bersani del Partito Democratico, ha tenuto in quell’occasione un intervento di esemplare ambiguità, citando alcuni dei problemi sociali di oggi. Il tutto per procacciarsi consensi a buon mercato, guardandosi però bene dall’evitare qualsiasi analisi economica e rifugiandosi nella polemica politica/partitica. Bersani, analizzando la situazione, ha affermato: ”Il punto fondamentale è che nelle sue parole (del Presidente del Consiglio) non c’è comprensione della situazione di questo Paese. Non c’è l’Italia vera (?) Il punto che sta sotto a tutto questo, signor Presidente, ve lo diciamo da due anni: non c’è abbastanza lavoro. Ci vuole più lavoro in questo Paese” e ancora “l’economia è troppo bassa, i redditi e i risparmi si assottigliano. Ascoltate le piccole imprese, queste vi diranno che c’è meno lavoro, meno credito” e così via.
Secondo Bersani (che ancora sostiene di appartenere a un partito di centrosinistra) la crisi, che tra l’altro riguarda solo i soliti noti, non dipenderebbe da meditate scelte economiche e di classe del governo, ma dalla sua presunta difficoltà di comprensione della situazione del presente (Berlusconi tutto ha dimostrato, nel tutelare i suoi interessi, fuorché di non conoscere e capire il presente e di sfruttare a suo vantaggio ogni occasione utile prospettatasi). Esclusivamente a ciò andrebbe imputata, quindi, la crisi e tutte le sofferenze che procura ai discriminati. Inoltre, sempre secondo il campione del centro”sinistra”, le conseguenze della crisi avrebbero colpito indifferentemente redditi e risparmi (lavoratori e imprese). Sarebbero stati addirittura i proprietari delle piccole aziende (quelli che licenziano e delocalizzano), non i lavoratori e i disoccupati, che, se ascoltati, avrebbero denunciato che non c’è lavoro. Quelli cioè le cui scelte, unite a quelle della finanza e del Governo, hanno causato e favorito la disoccupazione e il taglio di salari e pensioni.
Secondo l’interclassista e il pacificatore sociale (a senso unico) Bersani anche i poveri ricchi imprenditori avrebbero pagato le conseguenze della “incapacità” del Governo, loro che l’hanno sempre sostenuto, non solo i soliti lavoratori.
Se si screma il “confronto politico” di questi anni dalla cortina fumogena creata ad arte per appannare le responsabilità, il centrodestra e il centro”sinistra” sulle politiche economiche hanno operato in perfetta sintonia e continuità, riversando sempre i costi scaricabili, al di là del colore del governo, solo sui lavoratori, precari, pensionati e disoccupati. A questa “sinistra”, di nome e non di fatto, non si può più rimproverare di non aver difeso i ceti più deboli, perché non ne difende le ragioni e perciò non li rappresenta.
A dimostrazione di ciò oggi, a Roma in piazza Farnese (alle ore 16,30, a fabbriche e uffici chiusi), è “sceso in piazza” quello che rimane della Cgil, per “dire no all’austerità (?) e per rivendicare (a chi?) misure che favoriscano il lavoro, la giustizia sociale e la solidarietà”. Queste “straordinarie” iniziative di “lotta” e di “mobilitazione” (chi ne era informato?), fatte nel tempo libero senza disturbare il manovratore, rappresentano l’ennesima operazione mistificatoria di un sindacato e di una “sinistra” che, invece di individuare i responsabili veri della crisi (capitalismo e padronato), né tantomeno da chi è messa in pericolo la “giustizia sociale “(?) e orientare la lotta verso di loro, danno il contentino ai lavoratori senza risolvere la loro situazione.
Il loro obiettivo, infatti, non è quello di cambiare la realtà attuale e i rapporti economici esistenti, ma quello di crearsi la strada per mettersi a tavola al posto di chi c’è ora.

Ed ecco uno dei fenomeni, un "imprenditorone" eletto nelle liste del Pd (che modernità, che interclassismo!) Uno di quelli che voleva unire "capitale e lavoro". Perché la "lotta di classe va superata". Si per arrivarci prima a tavola.

Il tempo necessario

Qual è il tempo necessario ad accorgersi che una cosa è una brutta cosa?
Dipende. Cambia da persona a persona.



Dedicato alla situazione politica, sociale, culturale ecc. ecc. ecc. italiana.

lunedì 27 settembre 2010

Al "tavolo delle trattative" per mangiarsi il futuro dei lavoratori

L'aumento dei prezzi e delle tariffe ha comportato per le famiglie italiane a reddito fisso, tra il 2002 e il 2009, rincari per 10.270 euro. Lo affermano Federconsumatori e Adusbef, aggiungendo che a tali oneri si andranno a sommare altri 1.118 euro nel 2010 (per una perdita totale a fine 2010 di 11.388 euro).
L’Ires-Cgil (ufficio studi della Cgil) sostiene ancora, nel suo rapporto sulla crisi dei salari, che nel decennio 2000-2010 le retribuzioni hanno avuto, a causa dell'inflazione effettiva più alta di quella prevista, una perdita cumulata del potere di acquisto di 3.384 euro. A questi ultimi si devono aggiungere oltre 2 mila euro di mancata restituzione del fiscal drag (vale a dire dell'aumento effettivo della pressione fiscale, dovuto proprio ai fenomeni inflattivi che gonfiano il reddito solo nominale erodendo il potere d'acquisto), che portano a una perdita nel complesso di 5.453 euro.
I salari netti italiani, in ultimo, sono mediamente inferiori non solo a quelli di Paesi come Stati Uniti, Germania, Francia, Regno Unito, ma anche agli stipendi di altri Paesi europei che sembrerebbero in maggiori difficoltà economiche, come Grecia, Irlanda e Spagna. È quanto risulta dal Rapporto Ocse Taxing Wages, prendendo in considerazione la tabella sul salario medio di un singolo senza carichi di famiglia (calcolata in dollari e a parità di potere d'acquisto). Il salario annuale netto del lavoratore medio, secondo il rapporto, in Italia è di 22.027 dollari, contro i 26.395 della media Ocse, i 28.454 della Ue a 15 e i 25.253 della Ue a 19.
Questi dati economici denunciano una realtà fin troppo conosciuta dai lavoratori italiani: in questi ultimi anni sia per l’erosione dovuta all’inflazione (accentuata dall’entrata in vigore dell’euro), sia per l’aumento continuo del carico fiscale, i redditi dei lavoratori a busta paga si sono più che dimezzati rispetto a quelli percepiti quindici, venti anni prima.
Quello che nessun centro studi sindacale né alcun ufficio economico rileva, è che tutto ciò si è realizzato a parità di quantità di lavoro. I lavoratori hanno continuato a lavorare normalmente (e in condizioni di flessibilità e precarietà) la stessa quantità di ore, solo che hanno percepito (al di là del valore nominale) meno della metà della retribuzione percepita fino ad allora. Non c’è stata una diminuzione in cifra dei salari: i lavoratori hanno continuato a percepire e percepiscono oggi la stessa retribuzione, con la quale però è possibile acquistare meno della metà di quello che era possibile fare prima.
Il mancato recupero dell’erosione salariale causata dall’inflazione è un regalo non dovuto al caso o al destino cinico e baro, ma è il risultato di precise scelte economico-salariali che hanno portato ad accordi sindacali fra le Organizzazioni e il padronato, con l’apporto "costruttivo" dei vari governi succedutisi (di centrodestra e di centro"sinistra"), che hanno decretato la cancellazione dello strumento contrattuale che tutelava i salari dall’aumento dei prezzi, cioè della scala mobile o contingenza.
Oggi, a commento del rapporto dell’Ires Cgil che denuncia la triste (conosciuta) realtà, Epifani chiede solo “un intervento urgente che sgravi il lavoro dipendente” riequilibrando il peso del prelievo a favore dei salari. Questi ultimi, secondo Epifani, pagano al momento di più di altri redditi ed è necessaria una “svolta” che affronti il problema delle retribuzioni.
Quello del segretario sindacale sembra il pianto del coccodrillo. Era scontato che eliminando lo strumento di difesa dei salari si sarebbe realizzato ciò che puntualmente è accaduto: il dimezzamento degli stipendi. Innumerevoli sono state le iniziative dentro e fuori il sindacato e la Cgil, negli anni Ottanta e agli inizi degli anni Novanta, per evitare la cancellazione della scala mobile prima e per il suo ripristino dopo. La Cgil e gli altri sindacati si sono sempre opposti, con i risultati che oggi denunciano. E sui quali si stracciano le (colpevoli) vesti.
Epifani da questi dati dovrebbe trarre lo spunto per una pesante autocritica: se i salari sono più che dimezzati questo è dovuto si a un pesante carico fiscale che grava solo sui redditi d’imposta, ma anche a un massiccio spostamento di ricchezza verso il capitale e il padronato che, grazie a questa “responsabile” condotta sindacale, hanno aumentato i loro guadagni incamerando la perdita di salario dei lavoratori e traducendola in profitti.
Dove è stato Epifani negli ultimi otto anni, coincidenti con il suo mandato di segretario della Cgil? Di cosa si è occupato? Quali interessi ha tutelato? La Cgil, insieme alle altre sigle sindacali, non avrebbe dovuto difendere i lavoratori e contrastare tutto ciò? Perché non l’ha fatto? Perché questi qualificati rappresentanti hanno sottoscritto accordi su accordi che tagliavano salari, pensioni e stato sociale e per di più precarizzavano il lavoro?
Davanti a questa situazione un sindacato dalla parte dei lavoratori e dei discriminati dovrebbe proclamare un’immediata, incisiva e prolungata azione di lotta, con l'obiettivo dell'abbattimento del carico fiscale per i redditi fissi (salvaguardando lo stato sociale) e per la redistribuzione della ricchezza. Parallelamente favorirebbe il lancio di un'iniziativa forte per ottenere aumenti salariali adeguati, con la riconquista della scala mobile e per l’occupazione, costringendo il padronato a reinvestire le enormi ricchezze accumulate in questi anni sulle spalle dei lavoratori.
Invece di tutto questo il sindacato continua a sottoscrivere accordi come quello di Pomigliano e a elemosinare un posto a tavola (delle trattative) dal quale non potrà che derivare un peggioraramento, come è avvenuto negli ultimi venticinque, trenta anni, delle condizioni dei lavoratori, dei precari, dei pensionati e dei disoccupati.

E a proposito di "classe dirigente" e "mangiare", ecco un'opinione molto condivisa tra i lavoratori italiani.

mercoledì 22 settembre 2010

Profitto, precariato e delocalizzazioni tolgono il diritto al lavoro e a un’esistenza dignitosa e libera

Non passa giorno che non si senta annunciare dai mass media la chiusura o la delocalizzazione di qualche azienda. L’ultima di queste, in ordine di tempo, è la Fincantieri.
Queste operazioni sono condotte da "liberi" imprenditori che "liberamente" decidono di trasferire la propria azienda all’estero perché più conveniente, per loro. Tutto ciò nonostante la possibilità di ricorrere al precariato o al lavoro interinale, che rappresentano il massimo dell’arbitrio e dell’egoismo, cancellando per soldi il diritto al lavoro ed elevando a variabile assoluta e indipendente il profitto padronale che diventa priorità.
Il diritto di ogni cittadino ad avere gli strumenti che gli consentano di essere libero e non condizionato dal bisogno, pur riconosciuto dalla Costituzione, è subordinato alla libertà assoluta di un imprenditore che, solo se ha interesse, investe e crea opportunità di lavoro. La libertà dell’investitore, al di là di ogni altra considerazione, è garantita e viene prima di quella di ogni altro cittadino che non abbia risorse economiche sufficienti per assicurare a sé e alla sua famiglia il necessario per vivere.
La decantata funzione “sociale” del capitale non si attiva quindi a prescindere, ma solo in presenza di un profitto la cui entità dipende dal giudizio insindacabile dell’investitore, il quale determina o meno, in base ai suoi esclusivi interessi, la libertà di altri individui. Costui detiene un potere enorme, quello di rendere liberi o meno suoi simili che questa possibilità non hanno, in barba ai principi teorici (pur validi) enunciati dalla Costituzione. I disoccupati e i lavoratori, in tale contesto, sono liberi solo di contenere i propri bisogni e necessità (stipendi e diritti), all’interno di compatibilità che sono determinate esclusivamente dall’ingordigia del padrone-investitore e dal mercato.
I diritti civili e sociali che dovrebbero essere garantiti, in base agli enunciati della Costituzione, sono totalmente condizionati dai desideri dell’investitore a favore del quale il padronato e le forze politiche, che rappresentano i suoi interessi, fanno leggi e accordi sindacali che abbassano i salari, le pensioni e annullano diritti consolidati, degli altri.
La delocalizzazione di un’attività produttiva, consentita dalle "libere" leggi e dal "libero" mercato, nel riconoscere e garantire le libertà del capitale e del padronato, nega quelle del lavoro e dei lavoratori, costringendoli a una condizione di subalternità e oppressione. A prevalere non è il diritto al lavoro ma il diritto al guadagno e al profitto.
Questa logica è stata fatta propria dai sindacati e dalla Cgil che, accettando in pieno tutto ciò, a differenza del passato, non mettono più in discussione il sistema costringendo i lavoratori ad accettare condizioni lavorative, salariali, normative, pensionistiche e di diritti civili che siano "compatibili" e "adeguate", anche se non sufficienti ad assicurare un’esistenza dignitosa.
E’ questa l’unica e immodificabile realtà sociale realizzabile? Oppure, un altro orizzonte è necessario e possibile?

sabato 18 settembre 2010

Il sindacato dei sindacalisti

“Una Cgil che si è battuta e malgrado la crisi è riuscita ad aumentare propri iscritti”. E'questo il sindacato che il segretario Guglielmo Epifani ha dichiarato di lasciare al suo successore Susanna Camusso. Rispondendo a una domanda a margine di un incontro nell'ambito della festa del Pd, ieri a Milano, Epifani ha descritto la "sua" Cgil come un sindacato che "ha una sua autonomia, una sua forza, che può guardare al futuro con fiducia ed è naturalmente preoccupata di un Paese che attraversa una fase di grande declino".
Era, fino a qualche tempo fa, consuetudine costante che un sindacalista, al momento di lasciare il proprio incarico, tracciasse un bilancio della propria azione, evidenziando aspetti positivi o negativi del proprio lavoro e perciò conquiste e sconfitte. Quello che emerge dalle dichiarazioni di Epifani è un bilancio esclusivamente organizzativo. La sua organizzazione sarebbe cresciuta in termini d’iscritti, nonostante la crisi, sarebbe aumentata la sua autonomia e la sua forza. Egli quindi lascia una Cgil che, dopo otto anni di durata del suo mandato di segretario generale, può guardare al futuro con fiducia ed è naturalmente preoccupata di una Paese che attraversa una fase di grande declino. Queste considerazioni sono di una disarmante desolazione.
Quello che costituisce motivo di vanto per Epifani è la dichiarata crescita d’iscritti, poco importa se questa si riferisce a una crescita d’iscritti burocratica, finta, fatta attraverso le pratiche del patronato sindacale. Che non testimonia un aumento di consenso tra i lavoratori, ma di pratiche espletate. Il distacco fra i lavoratori e i vertici sindacali ai vari livelli è oramai incolmabile. Gruppi dirigenti che si alternano nelle varie cariche sindacali; linee e strategie che non passano mai attraverso il coinvolgimento e il consenso dei lavoratori e dei quadri di posto di lavoro; lotte fra strutture e fra componenti dei partiti; una burocratizzazione crescente e desolante che determina non la vita di un sindacato dei lavoratori, ma quella di un sindacato per i lavoratori. Gli iscritti in questa situazione contano sempre meno e non sono coinvolti e consultati nemmeno in grandi occasioni, come quelle delle ripetute “riforme delle pensioni”.
Il bilancio che traccia Epifani tralascia di toccare, però, la parte più importante. Quella cioè di valutare se le condizioni di vita di lavoratori, pensionati, disoccupati e precari siano migliorate o peggiorate negli otto anni del suo mandato. Se la Cgil cioè abbia in questo periodo ottenuto risultati per i lavoratori strappando diritti e soldi al padronato o se, invece, sia accaduto l’esatto contrario. Se il peso contrattuale della Cgil inoltre sia cresciuto o no, se il suo ruolo sia stato determinante nelle contrattazioni col padronato o col governo o se, com’è accaduto, abbia permesso accordi che la escludevano senza organizzare alcuna forma di lotta, indebolendo i lavoratori e perdendo di rappresentatività (vedi i vari accordi interconfederali e col governo sulla contrattazione e gli accordi aziendali come quello di Pomigliano).
La risposta a queste questioni è purtroppo evidente e scontata.
Quale sarà la futura occupazione di Epifani? Certamente il padronato sarà riconoscente a Epifani dei suoi (involontari?) "servigi" e un posto da economista, in qualche partito, da dirigente del CNEL, del ministero del lavoro, delle imposte, qualche incarico amministrativo da presidente di regione o altro saprà trovarglielo.
Ai lavoratori, dopo la cura Epifani, non resterà che sperare che con la nuova segretaria Susanna Camusso le cose cambino e che la Cgil ricordi le proprie origini. Tornando finalmente a rappresentare i lavoratori nella sacrosanta lotta per i diritti e per l’emancipazione del lavoro: la speranza è sempre l’ultima a morire.

mercoledì 15 settembre 2010

L’ultima di Bonanni: scioperare nel tempo libero

“Finché perdurerà una situazione di crisi, via libera agli scioperi solo di sabato o di sera”. E’ l’ultima trovata del campione dei diritti dei lavoratori Bonanni, che per non far più perdere soldi ai lavoratori (cosi dice) afferma: “faremo (lo sciopero) solo di sabato o di sera, ma dipenderà dalla situazione”.
C’è da restare allibiti dalla rivoluzionaria proposta: scioperare a fabbriche e uffici chiusi, così i lavoratori che prendono salari da fame (per colpa di chi?) saranno contenti perché non saranno costretti a perdere altri soldi. Chissà come saranno infuriati gli imprenditori e la Confindustria per quest’originale e nuova forma di lotta! Certamente al primo sentore di uno sciopero di tale genere, che non arreca loro alcun danno, cederanno immediatamente agli scioperanti per la paura di subire danni irreparabili e inesistenti!
La realtà drammatica è, al di là di ogni sarcasmo, che proprio a costoro (Cgil, Cisl e Uil) è assegnato prevalentemente (speriamo per poco tempo ancora) il compito di rappresentare e tutelare i lavoratori. Nella realtà tutelano invece gli interessi delle aziende e dei padroni. Le affermazioni di Bonanni, lungi dal difendere gli stipendi di chi lavora, sono l'ennesimo assist in favore della produzione aziendale e il profitto dei padroni.
Lo sciopero è uno strumento di lotta sindacale che costa caro ai lavoratori (la perdita del salario per tutta la durata dell'iniziativa), considerati anche i bassi stipendi. Non vi si ricorre certo per capriccio, ma come ultima carta di pressione. Uno sciopero fatto ad impianti fermi però, se fa risparmiare i lavoratori, non arreca alcun "danno" e pressione all'impresa. Ed è quindi perfettamente inutile.
Bonanni non appare quindi soddisfatto “dell’accordo di Pomigliano” sottoscritto insieme ad Angeletti, con il quale già venivano create le condizioni per una pesante limitazione dell’unica (certamente costosa) arma che hanno i lavoratori per cercare di far valere i propri diritti e interessi: lo sciopero appunto. E tenta di dare a intendere che lo fa nel loro interesse.
Davanti a questa situazione, c’è da fare una sola cosa: togliere a questi “sindacalisti” la delega a rappresentare chi lavora e costruire poi istanze sindacali di base rafforzando quelle esistenti, per rilanciare una nuova stagione di iniziativa, di riscatto e riscossa degli sfruttati.

lunedì 13 settembre 2010

Meno lavoratori morti o più soldi in tasca?

Recentemente il ministro Tremonti, ha avuto modo di affermare che: “robe come la 626 (la legge sulla sicurezza sul lavoro) sono un lusso che non possiamo permetterci. Sono l'Unione europea e l'Italia che si devono adeguare al mondo”. Questa illuminante dichiarazione sintetizza il modo di pensare di tutta quella categoria di “economisti” e padroni che indicano mercato e competitività come nuovi totem, in nome dei quali sacrificare tutti i diritti di civiltà e di progresso conquistati dalle lotte dei lavoratori.
Secondo tali illuminati “pensatori” rendere sicuri i posti di lavoro costa troppo e questo riduce la possibilità per le aziende di competere nel mercato globale. Per questo se vogliamo mantenere e creare occupazione occorre risparmiare e abbattere i costi anche su questa voce.
Le conseguenze di questa “filosofia” appartengono purtroppo alla quotidianità. Ogni anno si verificano centinaia di migliaia di infortuni, troppi dei quali mortali. A questi devono aggiungersi le malattie professionali (contratte cioè sul lavoro), le cui quantità e conseguenze sono difficilmente quantificabili, perché spesso producono effetti solo nel tempo.
Ormai le morti sul lavoro, gli infortuni con pesanti conseguenze invalidanti e le malattie professionali non fanno neanche notizia, a meno che non riguardino più persone contemporaneamente. E anche queste vengono dimenticate in fretta. Fra le cause più ricorrenti ci sono i ritmi e l’organizzazione del lavoro e l'assenza dei più elementari dispositivi di protezione individuale e collettivi. La mancanza cioè di tutte quegli strumenti, norme e consuetudini che servirebbero a contenere il fenomeno.
Gli infortuni sono dovuti perciò ai “risparmi” che le aziende fanno in questo campo, perché, a conti fatti, costa di meno l’incolumità e la vita di chi lavora che prevenire. Del resto con tutta la disoccupazione esistente è più facile e meno costoso rottamare e sostituire un lavoratore che si rompe che una macchina. La flessibilità e la precarietà del lavoro, realizzatesi nelle imprese con la complicità del sindacato, hanno accentuato il fenomeno. Non è un caso, infatti, che laddove c’è lavoro nero e precarietà, gli infortuni e la gravità di questi aumentano. I lavoratori, infatti, sono costretti ad accettare ogni tipo di condizione e di rischio, pena la perdita dell’unica fonte di reddito disponibile. Inoltre le ripetute leggi che continuano ad alzare l’età pensionabile e conseguentemente la vita lavorativa, costringono persone di età avanzata a esporsi a condizioni di rischio sempre più elevate.
E’ per far risparmiare le imprese e renderle competitive che va azzerata la prevenzione nei posti di lavoro, che si deve andare in pensione più tardi, con più anni di lavoro e con redditi da fame, che c’è disoccupazione o si e precarizza il lavoro, o si vogliono dare salari più bassi e senza indicizzazione, turni di lavoro di otto ore senza pausa, senza la malattia e il diritto di sciopero, abbattendo il sistema sociale, azzerando i contratti nazionali di lavoro, ecc. ecc. ecc.
Questo libero mercato, e questa competitività forse costano un po’ troppo in raffronto all’occupazione che producono. Non è il caso di cambiare sistema? Partiti e salvatori della "sinistra": voi cosa proponete?

venerdì 10 settembre 2010

Abbassare la voce, altrimenti si svegliano e sono dolori

Dopo i recenti episodi accaduti alla Festa dell’Unità del Partito democratico di Torino, il segretario della Cgil Epifani giovedì ha invitato i politici e i sindacalisti ad abbassare i toni affermando: ”Rischi per un conflitto sociale e un autunno caldo ci sono, per questo bisogna tutti, abbassare i toni. Nel Paese c’è una situazione pesante - ha continuato - il conflitto politico e istituzionale di questi mesi ha usato parole e atteggiamenti molto pesanti, che hanno scosso i cittadini. E la situazione economica non è migliore”.
A sentire certe affermazioni si rimane allibiti. Abbassare i toni: lungi dall'essere una esortazione alla pacatezza e alla ragionevolezza è un invito alla rassegnazione. Colui che dovrebbe essere fra i promotori della denuncia della situazione in cui si trovano i discriminati, sottoposti a un pesante attacco ai propri diritti e alle proprie condizioni di vita (salari fra i più bassi e tasse fra le più alte d’Europa, disoccupazione, precarizzazione del lavoro, disdetta dei contratti, taglio dei servizi, ecc.) invece di promuovere la protesta e la lotta, invita alla moderazione perché c’è il rischio di un conflitto sociale e di un autunno caldo (situazioni in cui, peraltro, i lavoratori ottennero importanti conquiste).
Il conflitto sociale, a sentire Epifani, non deriverebbe dalle drammatiche condizioni in cui si trova chi lavora, chi è in pensione e chi è disoccupato, ma dai toni di voce che i politici e i sindacalisti usano per imbonire gli italiani.
Se Bonanni e Angeletti firmano accordi capestro, come quello di Pomigliano e se entrambi supportano tutte le linee e le decisioni antipopolari della Federmeccanica e della Confindustria, non bisogna prendersela con loro! E, anche se i giochi sono fatti contro la volontà e sulla pelle di chi lavora, non si deve, quelle poche volte in cui si presenta l’occasione, togliere loro la parola e far sentire il dissenso!(?) Che cosa importa poi se ai lavoratori la parola e la dignità sono state tolte da tempo dalle scelte e dagli accordi che questi campioni degli interessi del popolo hanno sottoscritto?
Occorre invece alzare i toni. Occorre rilanciare non un solo autunno caldo, ma una serie di stagioni calde e di lotta. Occorre denunciare che il conflitto sociale non dipende né dal tono di voce di chi parla, né da qualche fischio o qualche contestazione. Il conflitto si manifesta quando i padroni affamano i lavoratori, quando tolgono la speranza nel futuro a precari, disoccupati e pensionati, quando sono cancellati diritti di civiltà ottenuti a prezzo di dure lotte, quando sono disdetti i contratti di lavoro dalla Confindustria per farne altri peggiori, quando s’impoverisce il popolo per arricchire i padroni. E la lista è ancora lunga.
Forse questo pompiere della pace sociale, insieme ai suoi soci d’avventura, semplicemente pensa (o spera) che se tutti noi abbassiamo la voce, gli sfruttati e i discriminati possano dimenticare o non prendere coscienza della propria condizione.

giovedì 9 settembre 2010

Democrazia e libertà di... consenso

Accade sempre più frequentemente che personaggi politici, partiti e sindacati, che spesso si ritengono depositari esclusivi della democrazia e quindi legittimati a dare o meno patenti in nome di essa, in occasione di manifestazioni pubbliche qualifichino come democratico soltanto l'atteggiamento di chi esprime consenso e approvazione, magari battendo le mani, e stronchino come antidemocratico, squadrista o addirittura fascista chi dissente ed esprime tali opinioni in maniera sonora ed evidente.
Quelli rivolti a chi ha dissentito ultimamente in manifestazioni aperte al pubblico sono insulti e accuse intollerabili. In primo luogo perché non può esistere democrazia senza dissenso (forse lo hanno dimenticato), poi perché in questo modo si cerca di impedire, nelle poche occasioni disponibili, di far comprendere il proprio dissenso a chi prende posizioni o decide per tutti.
E' il caso, ad esempio, del segretario della Cisl Bonanni. Egli firma accordi sindacali separati o supporta il padronato sostenendo la disdetta di contratti collettivi nazionali di lavoro, come nel caso dei metalmeccanici, pur avendo una rappresentatività estremamente minoritaria nell'ambito degli interessati agli accordi che sottoscrive. Questi ultimi, però, valgono per tutti gli iscritti alla Cisl, ad altre organizzazioni sindacali o i non iscritti ad alcun sindacato, senza che nessuno dei lavoratori in questione sia stato minimamente coinvolto.
Questo modo "democratico" di agire, che evidentemente non scandalizza nessuno, non riguarda solo la Cisl, ma tutto il sindacato confederale ed ha portato i lavoratori a perdere buona parte delle conquiste dell'autunno caldo (scala mobile, collocamento, Tfr, pensioni, ecc.), generando la precarizzazione del lavoro.
La Festa dell'Unità del Partito democratico di Torino è stata l'occasione colta da alcuni per esprimere e far comprendere il grado di "consenso" che la figura del Presidente del Senato prima e quella del segretario della Cisl poi, hanno tra il pubblico e i lavoratori.
E' fuori discussione che le forme di contestazione debbano essere civili, ma non si può certo impedire la manifestazione del dissenso, anche molto rumorosa, soprattutto verso chi non usa metodi democratici nel proprio agire. Pretendendo poi l'applauso.
Le pesantezza delle affermazioni e degli appellativi rivolti dai dirigenti del Pd, a chi dissentiva in occasione di entrambe le contestazioni dimostra, oltre la loro allergia al dissenso, la preoccupazione di marcare la propria distanza e diversità. Il tutto anche per dare un'ulteriore pubblica dimostrazione di quanto costoro si siano emendati dal loro peccato originale: quello di aver militato in un partito che si definiva comunista (con quanta coerenza lo dimostra il loro percorso politico). E di essere così considerati a pieno titolo nel novero del sistema dei democratici del consenso e del potere.

mercoledì 8 settembre 2010

Gli aggressori e i loro complici

Quello che “l’accordo di Pomigliano”, sottoscritto dalla Fiat e da Cisl, Uil, Ugl, lasciava prevedere si è realizzato. La Federmeccanica (sindacato di categoria del settore auto dei padroni della Confindustria) ha fatto propria la linea di Marchionne, volta a cancellare i diritti dei lavoratori attraverso l’azzeramento delle regole di contrattazione esistenti, disdicendo il contratto nazionale di lavoro dei metalmeccanici.
Le argomentazioni ufficialmente addotte per motivare quest’atto inedito nella storia sindacale italiana (sono sempre stati i lavoratori a disdire i contratti di lavoro per creare le condizioni per la stipula di un contratto nuovo, migliore del precedente sia per quanto riguarda i salari che la parte normativa) sono sostanzialmente due: 1) garantire le aziende a fronte delle minacciate azioni giudiziarie Fiom (relative all’accordo stipulato senza e contro la Fiom, dalla Cisl e dalla Uil il 15 ottobre dello scorso anno); 2) adeguare le relazioni industriali, sindacali e contrattuali alla domanda di maggiore affidabilità e flessibilità che proviene dalle imprese, per consentire loro una migliore tenuta rispetto all’urto della competizione globale.
Il padronato italiano, con questa mossa, tenta di battere la resistenza e la volontà di lotta della Fiom e dei Cobas (ultimi baluardi in difesa dei diritti dei lavoratori), cercando di imporre un nuovo contratto, un nuovo sistema di relazioni e “innovative” condizioni che non coinvolgano queste organizzazioni sindacali e che sia condiviso e sottoscritto solo da chi è d’accordo come Cisl, Uil e Ugl. Emarginando così i sindacati che dissentono e i loro iscritti. In proposito occorre tenere presente che la Fiom da sola, a livello nazionale, conta più iscritti di Fim-Cisl e Uilm-Uil (sindacati metalmeccanici di quelle organizzazioni) messe insieme.
Su questa strada il padronato e la Federmeccanica sono agevolati perché in alcune categorie della stessa Cgil (tessili e alimentaristi) sono stati già firmati degli accordi, mentre questo non avviene con la Fiom. Questo è dovuto alla situazione creatasi all’ultimo congresso Cgil, dove nella Fiom c’è stata la vittoria della minoranza, alternativa e combattiva, mentre nelle altre realtà è prevalsa la posizione di maggioranza, legata alle politiche di concertazione e di compatibilità.
A chiarire i motivi di questa illegittima e intollerabile intromissione del padronato nelle vicende interne della Cgil ci ha pensato la stessa presidente della Confindustria, Emma Marcegaglia, che ha testualmente dichiarato: "Abbiamo firmato tutti i contratti di tutti i settori anche con la Cgil, come quello del tessile, dell'alimentare e altri: quindi il problema vero è la Fiom che non accetta nessun cambiamento che renda le aziende più competitive". Inoltre, aggiunge: ”La disdetta è solo una questione tecnica, è un atto di chiarezza. Abbiamo firmato il nuovo contratto nell'ottobre 2009 con decorrenza 1° gennaio 2010, quindi per noi è questo quello valido, che è migliore rispetto al precedente”. La Marcegaglia fa riferimento al contratto sottoscritto senza la Fiom che per gli industriali è migliore (e per i lavoratori?), tentando di scegliere non solo i sindacati che convengono di più ai padroni ma, addirittura, le maggioranze e le minoranze interne ai sindacati stessi.
La Cisl d'altronde supporta la disdetta operata da Federmeccanica, di un contratto di lavoro peraltro sottoscritto da tutti i sindacati, compresi Cisl e Uil, dichiarando per bocca del suo segretario di categoria: ”Mi sembra che la Federmeccanica abbia fatto solo il passaggio obbligato anche rispetto gli accordi interconfederali”, e il segretario Uilm-Uil: ”Abbiamo il nostro contratto rinnovato un anno fa”. Via libera dunque.
L’assalto ai diritti e alle conquiste sindacali è pienamente in atto, tanto è vero che dalla prossima settimana Federmeccanica, con Cisl e Uil, discuterà le deroghe da apportare al contratto nazionale dei metalmeccanici, aprendo in questo modo la strada per l’annullamento dei contratti di lavoro anche per tutte le altre categorie di lavoratori. C'è da scommettere infatti che l’esempio dei padroni metalmeccanici sarà immediatamente imitato dagli imprenditori di tutti gli altri settori produttivi.
Davanti a tutto ciò la Fiom si appresta a discutere la piattaforma rivendicativa del rinnovo del contratto disdetto e a organizzarsi per la difficile fase di scontro e di lotta, che si avvierà dalla manifestazione nazionale del 16 ottobre in difesa dei diritti dei lavoratori.

martedì 7 settembre 2010

La Cisl, ovvero il sindacato succursale della Confindustria

Il segretario della Cisl, in un articolo apparso su "Il Sole 24 Ore" di oggi, invita le imprese a individuare: “una terapia-Pomigliano per favorire il rilancio”. “Ha ragione la presidente Marcegaglia nel denunciare la perdita di competitività del nostro Paese” afferma Bonanni e per favorire la crescita occorre "consentire alle imprese di sfruttare al massimo gli impianti con una maggiore flessibilità nell’organizzazione del lavoro, in cambio di ricadute positive sui salari e la salvaguardia dei posti di lavoro”, estendendo quindi in tutto il Paese il “modello Pomigliano”.
Questo “difensore” dei lavoratori non trova di meglio da fare che suggerire ai padroni della Confindustria la strada per aumentare i loro profitti. Tutto ciò nella logica subalterna e interclassista per la quale l’aumento dei salari, fra i più bassi d’Europa, non dovrebbe derivare da un’erosione dei profitti padronali ma da un aumento delle prestazioni, dei nastri e dei turni lavorativi (cioè dello sfruttamento), mentre la salvaguardia dell’occupazione dovrebbe conseguire da una maggiore “flessibilità” del lavoro e dei lavoratori (cioè dalla cancellazione dei diritti di questi ultimi).
Quando inoltre Bonanni afferma di consentire alle imprese di sfruttare al massimo gli impianti non pensa a un aumento dell’occupazione, ma a un maggior lavoro degli occupati (e a un loro maggiore sfruttamento). D’altra parte secondo la ricetta del segretario sindacale (?), gli aumenti salariali per i lavoratori non sarebbero a parità di lavoro, ma dovrebbero dipendere da maggiori carichi di lavoro e da turni più pesanti.
Bonanni tenta subdolamente di far credere che tutto ciò conviene ai lavoratori se vogliono maggiori salari e più occupazione. Nulla aggiunge sui maggiori guadagni e profitti che da tutto ciò deriverebbero, a parità di investimento, per i padroni.
Generalizzare Pomigliano significa allargare la spaccatura nel sindacato, nel tentativo di isolare ed emarginare la componente sindacale di base e di classe (Fiom e Cobas) e i lavoratori che a questa fanno riferimento. E che a queste logiche subalterne e collaborazioniste si oppongono.
Occorre smascherare e denunciare questa manovra perché questi sindacati e questi sindacalisti non tutelano i diritti e gli interessi dei lavoratori, ma li legano e li condizionano alle logiche del padronato e del mercato.