Non passa giorno che non si senta annunciare dai mass media la chiusura o la delocalizzazione di qualche azienda. L’ultima di queste, in ordine di tempo, è la Fincantieri.
Queste operazioni sono condotte da "liberi" imprenditori che "liberamente" decidono di trasferire la propria azienda all’estero perché più conveniente, per loro. Tutto ciò nonostante la possibilità di ricorrere al precariato o al lavoro interinale, che rappresentano il massimo dell’arbitrio e dell’egoismo, cancellando per soldi il diritto al lavoro ed elevando a variabile assoluta e indipendente il profitto padronale che diventa priorità.
Il diritto di ogni cittadino ad avere gli strumenti che gli consentano di essere libero e non condizionato dal bisogno, pur riconosciuto dalla Costituzione, è subordinato alla libertà assoluta di un imprenditore che, solo se ha interesse, investe e crea opportunità di lavoro. La libertà dell’investitore, al di là di ogni altra considerazione, è garantita e viene prima di quella di ogni altro cittadino che non abbia risorse economiche sufficienti per assicurare a sé e alla sua famiglia il necessario per vivere.
La decantata funzione “sociale” del capitale non si attiva quindi a prescindere, ma solo in presenza di un profitto la cui entità dipende dal giudizio insindacabile dell’investitore, il quale determina o meno, in base ai suoi esclusivi interessi, la libertà di altri individui. Costui detiene un potere enorme, quello di rendere liberi o meno suoi simili che questa possibilità non hanno, in barba ai principi teorici (pur validi) enunciati dalla Costituzione. I disoccupati e i lavoratori, in tale contesto, sono liberi solo di contenere i propri bisogni e necessità (stipendi e diritti), all’interno di compatibilità che sono determinate esclusivamente dall’ingordigia del padrone-investitore e dal mercato.
I diritti civili e sociali che dovrebbero essere garantiti, in base agli enunciati della Costituzione, sono totalmente condizionati dai desideri dell’investitore a favore del quale il padronato e le forze politiche, che rappresentano i suoi interessi, fanno leggi e accordi sindacali che abbassano i salari, le pensioni e annullano diritti consolidati, degli altri.
La delocalizzazione di un’attività produttiva, consentita dalle "libere" leggi e dal "libero" mercato, nel riconoscere e garantire le libertà del capitale e del padronato, nega quelle del lavoro e dei lavoratori, costringendoli a una condizione di subalternità e oppressione. A prevalere non è il diritto al lavoro ma il diritto al guadagno e al profitto.
Questa logica è stata fatta propria dai sindacati e dalla Cgil che, accettando in pieno tutto ciò, a differenza del passato, non mettono più in discussione il sistema costringendo i lavoratori ad accettare condizioni lavorative, salariali, normative, pensionistiche e di diritti civili che siano "compatibili" e "adeguate", anche se non sufficienti ad assicurare un’esistenza dignitosa.
E’ questa l’unica e immodificabile realtà sociale realizzabile? Oppure, un altro orizzonte è necessario e possibile?
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