L'aumento dei prezzi e delle tariffe ha comportato per le famiglie italiane a reddito fisso, tra il 2002 e il 2009, rincari per 10.270 euro. Lo affermano Federconsumatori e Adusbef, aggiungendo che a tali oneri si andranno a sommare altri 1.118 euro nel 2010 (per una perdita totale a fine 2010 di 11.388 euro).
L’Ires-Cgil (ufficio studi della Cgil) sostiene ancora, nel suo rapporto sulla crisi dei salari, che nel decennio 2000-2010 le retribuzioni hanno avuto, a causa dell'inflazione effettiva più alta di quella prevista, una perdita cumulata del potere di acquisto di 3.384 euro. A questi ultimi si devono aggiungere oltre 2 mila euro di mancata restituzione del fiscal drag (vale a dire dell'aumento effettivo della pressione fiscale, dovuto proprio ai fenomeni inflattivi che gonfiano il reddito solo nominale erodendo il potere d'acquisto), che portano a una perdita nel complesso di 5.453 euro.
I salari netti italiani, in ultimo, sono mediamente inferiori non solo a quelli di Paesi come Stati Uniti, Germania, Francia, Regno Unito, ma anche agli stipendi di altri Paesi europei che sembrerebbero in maggiori difficoltà economiche, come Grecia, Irlanda e Spagna. È quanto risulta dal Rapporto Ocse Taxing Wages, prendendo in considerazione la tabella sul salario medio di un singolo senza carichi di famiglia (calcolata in dollari e a parità di potere d'acquisto). Il salario annuale netto del lavoratore medio, secondo il rapporto, in Italia è di 22.027 dollari, contro i 26.395 della media Ocse, i 28.454 della Ue a 15 e i 25.253 della Ue a 19.
Questi dati economici denunciano una realtà fin troppo conosciuta dai lavoratori italiani: in questi ultimi anni sia per l’erosione dovuta all’inflazione (accentuata dall’entrata in vigore dell’euro), sia per l’aumento continuo del carico fiscale, i redditi dei lavoratori a busta paga si sono più che dimezzati rispetto a quelli percepiti quindici, venti anni prima.
Quello che nessun centro studi sindacale né alcun ufficio economico rileva, è che tutto ciò si è realizzato a parità di quantità di lavoro. I lavoratori hanno continuato a lavorare normalmente (e in condizioni di flessibilità e precarietà) la stessa quantità di ore, solo che hanno percepito (al di là del valore nominale) meno della metà della retribuzione percepita fino ad allora. Non c’è stata una diminuzione in cifra dei salari: i lavoratori hanno continuato a percepire e percepiscono oggi la stessa retribuzione, con la quale però è possibile acquistare meno della metà di quello che era possibile fare prima.
Il mancato recupero dell’erosione salariale causata dall’inflazione è un regalo non dovuto al caso o al destino cinico e baro, ma è il risultato di precise scelte economico-salariali che hanno portato ad accordi sindacali fra le Organizzazioni e il padronato, con l’apporto "costruttivo" dei vari governi succedutisi (di centrodestra e di centro"sinistra"), che hanno decretato la cancellazione dello strumento contrattuale che tutelava i salari dall’aumento dei prezzi, cioè della scala mobile o contingenza.
Oggi, a commento del rapporto dell’Ires Cgil che denuncia la triste (conosciuta) realtà, Epifani chiede solo “un intervento urgente che sgravi il lavoro dipendente” riequilibrando il peso del prelievo a favore dei salari. Questi ultimi, secondo Epifani, pagano al momento di più di altri redditi ed è necessaria una “svolta” che affronti il problema delle retribuzioni.
Quello del segretario sindacale sembra il pianto del coccodrillo. Era scontato che eliminando lo strumento di difesa dei salari si sarebbe realizzato ciò che puntualmente è accaduto: il dimezzamento degli stipendi. Innumerevoli sono state le iniziative dentro e fuori il sindacato e la Cgil, negli anni Ottanta e agli inizi degli anni Novanta, per evitare la cancellazione della scala mobile prima e per il suo ripristino dopo. La Cgil e gli altri sindacati si sono sempre opposti, con i risultati che oggi denunciano. E sui quali si stracciano le (colpevoli) vesti.
Epifani da questi dati dovrebbe trarre lo spunto per una pesante autocritica: se i salari sono più che dimezzati questo è dovuto si a un pesante carico fiscale che grava solo sui redditi d’imposta, ma anche a un massiccio spostamento di ricchezza verso il capitale e il padronato che, grazie a questa “responsabile” condotta sindacale, hanno aumentato i loro guadagni incamerando la perdita di salario dei lavoratori e traducendola in profitti.
Dove è stato Epifani negli ultimi otto anni, coincidenti con il suo mandato di segretario della Cgil? Di cosa si è occupato? Quali interessi ha tutelato? La Cgil, insieme alle altre sigle sindacali, non avrebbe dovuto difendere i lavoratori e contrastare tutto ciò? Perché non l’ha fatto? Perché questi qualificati rappresentanti hanno sottoscritto accordi su accordi che tagliavano salari, pensioni e stato sociale e per di più precarizzavano il lavoro?
Davanti a questa situazione un sindacato dalla parte dei lavoratori e dei discriminati dovrebbe proclamare un’immediata, incisiva e prolungata azione di lotta, con l'obiettivo dell'abbattimento del carico fiscale per i redditi fissi (salvaguardando lo stato sociale) e per la redistribuzione della ricchezza. Parallelamente favorirebbe il lancio di un'iniziativa forte per ottenere aumenti salariali adeguati, con la riconquista della scala mobile e per l’occupazione, costringendo il padronato a reinvestire le enormi ricchezze accumulate in questi anni sulle spalle dei lavoratori.
Invece di tutto questo il sindacato continua a sottoscrivere accordi come quello di Pomigliano e a elemosinare un posto a tavola (delle trattative) dal quale non potrà che derivare un peggioraramento, come è avvenuto negli ultimi venticinque, trenta anni, delle condizioni dei lavoratori, dei precari, dei pensionati e dei disoccupati.
E a proposito di "classe dirigente" e "mangiare", ecco un'opinione molto condivisa tra i lavoratori italiani.
Iscriviti a:
Commenti sul post (Atom)
Nessun commento:
Posta un commento