venerdì 8 ottobre 2010

Bamboccioni? No, emarginati, sfruttati e derisi

L’ultima indagine statistica pubblicata in questi giorni da Eurostat si è occupata di analizzare l’età media in cui i giovani escono dalla famiglia. Il dato significativo che ne emerge segnala una tendenza generale a restare “in famiglia” dei giovani. Nella fascia di età 25-34 anni vive con i genitori il 32 per cento degli uomini contro il 20 per cento delle coetanee. In Paesi come la Bulgaria la differenza è molto più forte: 61 contro 31 per cento.
La televisione di Stato presenta in questo modo quanto emerso dall’indagine (Televideo dell’8 ottobre): ”Eurostat: i più mammoni sono i giovani italiani”. Il giornale la Repubblica, sulla stessa lunghezza d’onda, titola: ”Eurostat: i bamboccioni sono maschi. Le donne se ne vanno di casa prima”. I due mezzi di comunicazione si lanciano, poi in una serie di considerazioni sociologiche riguardanti i giovani di ambo i sessi, evitando bene di toccare le vere ragioni. Che sono economiche e di fondo, determinando il fenomeno e le sue logiche conseguenze. Secondo costoro, infatti, sarebbe da addebitarsi al costume e allo sviluppo culturale delle varie nazioni (che comunque sono coinvolte allo stesso modo) il fenomeno, rappresentando così i giovani come incapaci, anche in età adulta, di staccarsi dalla propria condizione assistita e tutto sommato felici della propria realtà.
Lo stato delle cose è ben diverso. La gigantesca redistribuzione della ricchezza, avvenuta nella società fondata sul mercato e sulla competitività, favorisce sempre di più i pochi ricchi capitalisti e penalizza i tanti, che privi di risorse economiche e di lavoro non vedono prospettive per il proprio futuro. Questo vale a maggior ragione per la stragrande maggioranza dei giovani, che si apprestano ad essere, nella migliore delle ipotesi, precari (con stipendi bassi e con il perenne rischio di perdere, con il lavoro, anche quelli) o addirittura disoccupati a vita. Condizioni che privano di qualsiasi possibilità di costruire la propria vita e la propria indipendenza e libertà, costringendo a rimanere “in famiglia” dove si può contare sullo stipendio o sulla pensione dei genitori che, in questo modo, sopperiscono alla situazione garantendo sussistenza. Al posto dello Stato e a proprie spese.
Questa situazione, intollerabile e penalizzante per i giovani precari e disoccupati fa la felicità del padronato, che grazie alla fame di occupazione può avere “manodopera” piegata, subalterna e disponibile anche a lavorare in uno stato di perenne precarietà e senza poter usufruire dei diritti contrattuali (stipendi, ferie, malattia, diritto di sciopero, ecc.) dei padri. I giovani sono perciò ridotti a una condizione di completa subalternità, economica e sociale. Il tutto a vantaggio del padrone, che ne trae maggiore profitto e guadagno.
Togliere ai giovani il diritto alla propria libertà e autodeterminazione, che solo un lavoro può consentire, rappresenta un’ingiustizia sociale mostruosa. Aggiungere a ciò l’insulto e la derisione diventa una violenza intollerabile e inaccettabile.

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