venerdì 23 dicembre 2011

Articolo 18 ultimo diritto di chi lavora

L’art. 18 della legge 300 del 20 maggio 1970, chiamata Statuto dei diritti dei lavoratori, è l’ultimo diritto rimasto a chi lavora. Quello per cui un lavoratore non può essere licenziato se non per giusta causa o giustificato motivo. E’ questa una norma che richiama un principio costituzionale: quello dell’uguaglianza dei cittadini.
L’art. 18 non impedisce alle aziende di liberarsi del personale eventualmente eccedente. Le aziende che devono procedere a riduzione di personale, infatti, attraverso apposite procedure, dichiarano lo stato di crisi e la quantità di personale in esubero. Per procedere all’eventuale successivo licenziamento si devono stabilire, i criteri sulla base dei quali avverrà l’eventuale individuazione del personale interessato. Questi riguardano:le qualifiche interessate alla procedura di riduzione, dell’anzianità di servizio, dell’età, del carico familiare, dell’appartenenza o meno a categorie sociali protette del personale coinvolto.
L’art. 18 non impedisce quindi la cessazione di un rapporto di lavoro. Impedisce che a determinare l’eccedenza non sia un problema oggettivo legato alla produzione, ma l’arbitrio del padrone che, per liberarsi di un lavoratore scomodo ricorre al licenziamento.
Un lavoratore può essere scomodo
se è iscritto a un sindacato come la Fiom ad esempio, se aderisce o no a uno sciopero, se si ammala troppo spesso, se è vecchio, se pretende i suoi diritti contrattuali, se si oppone allo straordinario, se pretende tutto in busta paga, ecc. Se si tratta di una lavoratrice la lista si allunga, ai pretesti di cui sopra si aggiungono il matrimonio, la maternità o perfino il ricatto sessuale.
Togliere il lavoro, cioè lo strumento che consente di “rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando, di fatto, la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese” (articolo 3 della Costituzione), è una cosa inaccettabile. Se questo avviene arbitrariamente diventa ancor più intollerabile: Perché si configura come un attacco e una violenza verso chi lavora per costringerlo a subire nel posto di lavoro o ad andarsene.
Per questo è il giudice del lavoro che sancisce, acquisiti tutti gli elementi, la legittimità del licenziamento. Qualora questa non fosse riconosciuta, ordina la riassunzione dell’interessato.
Pretendere l’abolizione di questa norma, da parte del ministro al lavoro e della Confindustria, significa annullare la libertà di chi lavora attraverso il ricatto perenne del licenziamento.
Abolire l’art. 18 non comporta per le aziende alcun risparmio, serve solo a ripristinare il diritto feudale e la supremazia del padrone verso il lavoratore che non è più, a quel punto, nemmeno formalmente, un soggetto di diritto, una persona libera ma uno schiavo a tutti gli effetti.
L’art. 18 non si applica a tutti. Sono esclusi i dipendenti cui non si applica la legge 300 (aziende con meno di 15 dipendenti). Non si applica nemmeno per i precari, per i Co. Co. Pro., e per i lavoratori con contratto a tempo determinato. Su ciò i “moderni” economisti” e gli “illuminati giuslavoristi” hanno costruito l’ennesima mistificazione: Chi può usufruire dell’art. 18 , per costoro, è un privilegiato. Pertanto va eliminato il privilegio e va ristabilita l’uguaglianza.
Altro che abolire l’art. 18 esso va esteso a tutti i lavoratori e vanno abolite le leggi Treu e Biagi che precarizzano il rapporto di lavoro consentendo lo stato di totale subalternità del lavoratore al padrone.
Difendere l’art.18 non significa mantenere un privilegio. Significa lottare per mantenere uno strumento di libertà e di dignità per chi lavora.
E il Partito Democratico? Che cosa ha detto in proposito? Il suo segretario Bersani ha affermato che “toccarlo ora è roba da matti”.
Per Bersani, quindi l’art. 18 si può toccare. Non ora però. Forse perché questo potrebbe far scoccare la scintilla della protesta di chi lavora verso una classe politica e padronale che dopo la cancellazione del collocamento, dei contratti nazionali di lavoro, della scala mobile, delle pensioni di anzianità vuole determinare la sconfitta definitiva dei lavoratori non solo nei posti di lavoro ma soprattutto nella società per avere campo libero verso le loro libertà e liberalizzazioni. Meglio cancellarlo in momenti più adatti.

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