lunedì 21 maggio 2012
L'impossibile unità
Dare spazio al lavoro e all’impegno per favorire la crescita. E’ questo lo slogan di fondo e la bandiera di un’iniziativa comune delle “forze sociali” viterbesi dall’Adoconsum e a seguire Adoc, Cgil, Cia, Cisl, Cna, Coldiretti, Confagricoltura, Confartigianato, Confcommercio, Confcooperative, Confesercenti, Federlazio, Legacoop, Ugl Uil e Unindustria.
“Lo stato di sofferenza dei lavoratori, degli imprenditori e delle loro famiglie- sostiene l’insieme delle associazioni di cui sopra, in un apposito volantino- non lasciano indifferenti. Dobbiamo trovare una via d’uscita dal tunnel. Dobbiamo reagire, insieme e ciascuno per la propria parte. Possiamo farcela”. Su queste basi venerdì 25 maggio le associazioni di categoria e i sindacati hanno organizzato una manifestazione a piazza del Plebiscito alle 19,30.
L’iniziativa parte dal presupposto per cui davanti alla crisi gli interessi dei soggetti rappresentati dalle singole “associazioni di categoria” siano indifferentemente gli stessi. Che i lavoratori e gli imprenditori e loro famiglie cioè, siano colpiti allo stesso modo e non esistano interessi configgenti fra loro. Per cui essi devono collaborare tutti insieme per uscire dalla crisi.
Il richiamo all’unità del Paese e alla collaborazione nazionale, anche in una realtà di differenze economiche e sociali sempre più elevata, è diventato una costante nella politica dei partiti e vede impegnate anche le più alte cariche pubbliche.
L’iniziativa del 25 maggio che tenta di unificare l’inconciliabile, lancia una serie di proposte di “alto contenuto politico”, inserendole in questo contesto, ha lo scopo di far credere a chi paga veramente la crisi, lavoratori, pensionati, precari e disoccupati di trovarsi sulla stessa barca di chi crea, contribuisce ad alimentare o sfrutta la crisi per il proprio tornaconto: ricchi, speculatori finanziari, banche e salvatori milionari del Paese.
Che questa linea sia portata avanti da imprenditori o da organizzazioni sindacali storicamente interclassiste non rappresenta una novità.
E’ cosa ben diversa quando questa posizione è sostenuta da organizzazioni sindacali con una storia di classe ben diversa, di lotte e di conquiste per i lavoratori e i discriminati, come la Cgil o da partiti che continuano a definirsi di sinistra.
Non si tratta di rispolverare tesi che oggi sono sbrigativamente liquidate come viziate da pregiudizi ideologici superati. Al contrario, si tratta di chiamare le cose con il loro vero nome.
La politica di “collaborazione sociale”, del resto. non è una novità del Governo dei Tecnici e dei partiti della cosiddetta seconda Repubblica. Essa fu inaugurata dal Governo Craxi che, nel 1984 tolse quattro punti di contingenza dai salari dei lavoratori, con la scusa di creare occupazione per i giovani. Da questi quattro punti dipendevano le sorti del Paese fu sostenuto. Persi i quattro punti tutto rimase come prima, con la sostanziale differenza che il potere di acquisto dei salari cominciò a tracollare, la disoccupazione in particolare quella dei giovani, invece continuò ad aumentare.
Da allora in poi sempre peggio. Con la stessa logica di collaborazione sociale, basata sulla cancellazione di diritti e salario, fu azzerata del tutto la scala mobile, precarizzato il rapporto di lavoro (leggi Treu e Biagi), privatizzata la previdenza, attaccati i contratti collettivi di lavoro, cancellate le pensioni di anzianità e taglieggiati i redditi fissi attraverso l’inflazione e compromesse le stesse libertà sindacali.
L’iscrizione a un sindacato “ragionevole e responsabile” è tornata a essere, come negli anni ’50, condizione o meno di lavoro.
Il lavoro, sempre di meno, è stato sempre più condizionato alla rinuncia di diritti e salario.
I salari “compatibili” hanno portato i lavoratori italiani a percepire compensi fra i più bassi d’Europa. La flessibilità della manodopera, teorizzata, purtroppo, anche dal sindacato, ha legato completamente il diritto a una vita dignitosa all’esistenza del profitto.
Il carico fiscale per i redditi fissi è fra i più alti dell’Ue. Stipendi e pensioni sono taglieggiati dalle tasse alla fonte mentre i percettori di altri redditi, a partire da quelli d’impresa, possono tranquillamente dichiarare redditi inferiori a quelli dei propri stessi dipendenti.
Il sistema previdenziale italiano è stato “riformato” e reso “compatibile” col mercato da governi di ogni colore, il cui lavoro ha prodotto il bel risultato che colloca la qualità della previdenza italiana, a partire dal 2020, all’ultimo posto nella graduatoria europea.
Il “riformato” sistema previdenziale, inoltre, costringe i vecchi a lavorare fino a 67 anni, con contribuzioni più alte e pensioni dimezzate mentre i giovani sono condannati a essere precari a vita e a lavorare solo quando conviene al mercato e alle sue condizioni, senza avere la speranza di pensione dignitosa in vecchiaia.
Che tipo di sorte in comune possono avere i lavoratori con “imprenditori” che de localizzano e licenziano per incrementare i propri profitti?
Che comunanza di interessi possono avere i precari o i disoccupati, cui è negata la dignità e libertà di un lavoro, con chi per guadagnare di più, li deruba del presente e del futuro?
Che sorte comune ci può essere fra una quantità crescente di discriminati che vede tracollare le proprie condizioni economiche e sociali con la sorte di quella fetta sempre più piccola che accresce contemporaneamente e a dismisura la propria ricchezza?
Con la scusa “innovativa”del mercato globale gli imprenditori e i sindacati che hanno sposato questa tesi, vogliono in realtà convincere chi lavora che avere meno salari e meno diritti nel lavoro, significa costruire un futuro di occupazione e di progresso comune, salvare la Patria.
E’questo il tentativo di chi vuole far credere ai discriminati di stare sulla stessa barca di chi discrimina.
Chi non condivide l’afflato unitario nazionale è fuori dal coro. E’ accusato di fare antipolitica e di sostenere tesi e posizioni ideologiche in barba alla decantata democrazia.
E’ vero il contrario. Prendere conoscenza e coscienza della realtà reale e non di quella che immaginaria, può contribuire a creare le condizioni per costruire una società diversa dove lo sviluppo sia rispettoso dei diritti e sia legato ai bisogni dell’uomo che lavora, non agli interessi di chi specula e di chi ha come obiettivo, solo l’arricchimento personale da perseguirsi ad ogni costo.
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