venerdì 23 luglio 2010

No al liberismo, sì alla libertà

Sempre più frequentemente accade di imbattersi in fenomeni come la delocalizzazione, la globalizzazione o l’internazionalizzazione delle imprese. Queste definizioni economiche evidenziano le diverse dimensioni che a causa del mercato stanno assumendo le aziende, sempre meno locali o nazionali per diventare sempre più extranazionali, al fine d’avere una maggiore “libertà” di movimento che in passato. Questo determina dei cambiamenti significativi, sia sul modo di lavorare o di concepire il lavoro, che soprattutto sullo stile di vita e sulle libertà dell’individuo e sullo sviluppo o sul declino d’intere aree geografiche.
L’ultima azienda italiana che sta facendo i conti con queste trasformazioni è la Fiat, che sta gestendo o spostando le proprie attività in varie parti del mondo (Polonia, Serbia, Usa, ecc.) secondo propri calcoli e convenienze. Il tutto mantenendo il marchio Fiat (Fabbrica italiana automobili Torino), come se il prodotto fosse interamente realizzato nel nostro Paese.
Non si tratta di un fenomeno nuovo, già in passato il mercato e i capitalisti avevano esteso su vaste aree della terra il loro raggio d’azione con il colonialismo che era, però, prevalentemente legato allo sfruttamento delle materie prime e del commercio di schiavi. I colonialisti stessi erano invisi ai colonizzati, che spesso ingaggiavano contro di loro guerre di liberazione.
L’estensione e le caratteristiche attuali di questo fenomeno, dovute anche alla realizzazione di entità politiche come l’Unione Europea, meritano un’attenzione particolare perché si realizzano in un contesto diverso dove le imprese e i padroni che “investono” in altre aree diverse da quelle di provenienza, con la scusa del libero mercato e della competitività, determinano cambiamenti significativi nella libertà e nella vita degli uomini che coinvolgono, ma con la ricerca del consenso di questi ultimi.
Perché le imprese delocalizzano le proprie attività e diventano extranazionali o internazionali? Per essere più competitive, per abbattere i costi di produzione e soprattutto per aumentare i profitti. Il principale mezzo per raggiungere gli obiettivi è costituito dal risparmio sulla manodopera con il taglio dei salari e la compressione o l’annullamento dei diritti dei lavoratori. Questi ultimi, se non vogliono perdere il lavoro o se lo vogliono trovare, devono lavorare di più con meno salario nel tentativo di vincere la competizione con altri lavoratori di altri paesi, che hanno i loro stessi problemi. La minaccia della delocalizzazione o del mantenimento in Polonia delle produzioni, ha consentito alla Fiat di Marchionne di far digerire a sindacati “disponibili” tagli e rinunce ai diritti dei lavoratori. Diritti non solo di tipo economico, ma di civiltà, eliminando i quali si intaccano i principi stessi della Costituzione e del Contratto di lavoro. Si è innescato, grazie al liberismo trionfante che ha attecchito anche in aree politiche e sindacali che prima lo avversavano, un meccanismo di “collaborazione sociale e di classe” a senso unico che permette lauti guadagni a imprese e capitalisti e comprime e compromette la vita di chi lavora. Rappresentato come l’unico e il migliore dei sistemi possibili.
Se il mercato non “tira” e i conti non “tornano” è ormai opinione comune per la Confindustria, il Governo (ma anche per “l’opposizione” e il sindacato), al fine di rendere competitive le industrie, contenere i costi e i redditi (naturalmente solo quelli fissi e non quelli stratosferici dei manager) e lanciare politiche di “contenimento” e “rigore”, di “concertazione o dei redditi. Questo ha portato, in questi ultimi decenni, al dimezzamento degli stipendi e alla ricomparsa di povertà che investono fasce crescenti di popolazione. Il tutto mentre, indisturbate, crescono le grandi ricchezze.
La competitività delle imprese è diventata un valore assoluto e nuovo totem cui sacrificare anche i valori fondamentali di libertà, uguaglianza e civiltà: taglio dei salari (in potere di acquisto), flessibilizzazione, precarizzazione del lavoro, taglio dello stato sociale (pensioni sanità) per abbassare il “costo del lavoro” e permettere alle imprese, che godono di finanziamenti, esenzioni fiscali, cassa integrazione guadagni, incentivi, rottamazioni ecc., di essere competitive e dopo (molto dopo) di creare posti di lavoro, attirandoli sul proprio territorio nazionale. Magari confidando in un legislatore complice che faccia strage dei diritti dell’individuo (è forse la Cina, cari capitalisti, il vostro modello definitivo?).
Dobbiamo abituarci come cittadini che la nostra libertà e il nostro diritto (come il diritto al lavoro), nonostante quanto scritto nella Costituzione, vengono dopo e che le imprese producono esclusivamente profitto (la cui quantità e sufficienza sono a totale discrezione del padrone) e sono perciò sottoposti alle regole del mercato e alle sue convenienze. Il diritto degli “imprenditori” all’utile e al profitto (senza condizioni e limiti) precede tutti gli altri diritti e li può annullare. Tutto ciò è talmente vero che nessun partito, fra quelli rappresentati in Parlamento e nessun sindacato, fra quelli “maggiormente rappresentativi”, ha esitato minimamente a mettere in discussione o contestarne la priorità, nonostante quanto sia affermato nella Costituzione all’articolo 41: “L'iniziativa economica privata è libera. Non può svolgersi in contrasto con l'utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana. La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l'attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali.”.
Se i bassi salari, i diritti calpestati non sono sufficienti e l’impresa “delocalizza” ugualmente, nella sua “libertà”, liberandosi dal vincolo di contratti di lavoro troppo “onerosi”, che abbassano i profitti, o da regole troppo vincolanti o da sindacati troppo invadenti (pochi per esattezza), venendo esplicitamente meno al dettato per cui l’iniziativa economica privata non possa svolgersi in contrasto con l’utilità sociale, perché determina la privazione di diritti costituzionali ai cittadini lavoratori: che cosa fare in questo caso? E’ necessario dire basta alle aziende, alla Confindustria e a chi le rappresenta in Parlamento. Basta alle “loro” logiche. Il “rigore” e la competitività convengono solo a loro e non sono il rimedio di ogni male. Perché anche se i conti economici delle imprese sono in risalita con ordini e fatturato, la disoccupazione cresce comunque insieme alla povertà e precipita la qualità della vita e la speranza nel futuro.
Occorre cambiare il soggetto da liberare: non più le imprese o il mercato perché non svolgono nemmeno i compiti costituzionali e non garantiscono il benessere neppure quando sono in attivo, perché non ripartiscono e delocalizzano, ma l’uomo.
Occorre prendere coscienza che il mercato e la produttività non sono l’unico orizzonte e lavorare per costruire un altro modo di pensare e un’altra società in cui l’uomo sia liberato dal bisogno e dalla necessità di vendere la propria libertà e forza lavoro, per il tornaconto di altri uomini che hanno il solo obiettivo di arricchirsi a qualsiasi costo, anche a danno dell’intera collettività.
Occorre lavorare per costruire una nuova società dove l’operaio o il lavoratore polacco, italiano, americano, serbo o cinese non siano costretti a una lotta fratricida al ribasso, perché questo conviene al padronato, alla Confindustria a Marchionne e alla loro ingordigia.
Una proposta per cominciare: mettiamo in mobilità le imprese e la Confindustria, per un mondo senza le logiche del loro mercato e della loro competitività.

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