Nei giorni scorsi molti giornali titolavano: "Venerdì 9 luglio giornata del silenzio dell’informazione italiana". A promuovere l’iniziativa la Fnsi (il sindacato di categoria dei giornalisti) che nel documento con cui proclamava lo sciopero fra l’altro ha affermato: ”I giornalisti sono chiamati a una forma di protesta con un rumoroso silenzio dell’informazione nella giornata di venerdì 9 luglio, contro le norme del ddl sulle intercettazioni che limita pesantemente il diritto dei cittadini a sapere come procedono le inchieste giudiziarie”. Ancora “lo sciopero è una protesta straordinaria e insieme la testimonianza di una professione, quella giornalistica, che vuole essere libera per offrire ai cittadini informazione leale e la più completa possibile” se passasse il ddl “molte notizie e informazioni d'interesse pubblico sarebbero negate giorno per giorno fino a cambiare la percezione della realtà perché oscurata, cancellata per le norme di una legge sbagliata e illiberale che ne vieterebbe qualsiasi conoscenza”.
Leggendo il testo della Fnsi sorgono degli interrogativi, di fondo e di metodo. Se è in pericolo la libertà di stampa, ciò avviene solo per quanto riguarda l’informazione sulle inchieste giudiziarie? Chi è che mette in pericolo la libertà di stampa? Quali interessi economici rappresenta? Oppure è messo in pericolo uno dei presupposti fondamentali della Costituzione, cioè la “democrazia”? Perché allora sono solo i giornalisti a protestare? Ancora: se si vuole imbavagliare la stampa, è produttivo protestare anticipando di un giorno il bavaglio ai giornali?
Sono degli interrogativi di valenza certamente diversa sui quali occorre ragionare. Se infatti riteniamo che sostanzialmente esista la libertà di stampa e di opinione nel nostro Paese, allora i giornalisti hanno ragione a protestare. Se invece riteniamo che esista un problema strutturale e la libertà di stampa non è garantita o è seriamente compromessa, allora non è solo il ddl sulle intercettazioni a determinare il problema di libertà. E tutto il problema non riguarda più solo la stampa.
In Italia da venti, trenta (forse quaranta) anni l’informazione è concentrata nelle mani di una sola persona, che oltre a detenere un impero o monopolio editoriale (oltre che economico) possiede tre televisioni nazionali e controlla le rimanenti tre (Rai). Questo dominio, che dovrebbe essere inconcepibile per lo sbandierato sistema liberale, è stato prima concesso e poi mantenuto da governi di ogni “colore”. In principio fu il governo Craxi che per primo diede le concessioni, poi nel 1999 quello D’Alema, che con la legge 488 del 23 dicembre '99, articolo 27, nel mantenere la concessione stabilì una ridicola percentuale come costo annuo delle tre frequenze concesse: pari all’1 per cento dei ricavi. Questo generosissimo regalo ha permesso al signor Berlusconi di incrementare le sue ricchezze (basti pensare che nel 2007 il gruppo Mediaset ha fatturato oltre 4 miliardi di euro, pagando una cifra modestissima, pari all’1 per cento, e intascando il restante 99 per cento) e ha privato lo Stato e gli italiani di una esborso che in condizioni normali sarebbe dovuto essere altissimo, determinando una vera e propria rapina a norma di legge. Quello che è ancora peggio, ha permesso una concentrazione editoriale enorme, impensabile in altre realtà “occidentali”. Nelle mani, oltretutto, di un iscritto a una loggia massonica segreta come la P2, che si proponeva proprio di “intervenire” nel campo dell’informazione.
La concentrazione nelle mani del Presidente del Consiglio è avvenuta con il fattivo consenso, collaborazione e responsabilità di partiti e governi di ogni “colore”, anche perché dopo il regalo di D’Alema, i vari governi di centrodestra e centro”sinistra” si sono ben guardati dal modificare o togliere questo potere dalle mani di Berlusconi (il più grande e influente capitalista italiano).
Quando i mezzi d’informazione si concentrano nelle mani di pochi, o di un monopolista, in pochi o uno solo nel dare le informazioni o nel non darle decidono ciò che il lettore o il telespettatore deve o non deve sapere, ciò che può o ciò che non deve pensare. In gioco quindi non ci sono le rivendicazioni corporative della casta dei giornalisti, troppe volte asservita o subalterna a queste logiche di potere, preoccupata più che altro di sanzioni pecuniarie o altro, ma l’informazione libera e con essa la libertà di tutti i cittadini: diritti già in discussione e in pericolo da qualche tempo. E diversa e di ben altra entità dovrebbe essere la protesta e la lotta. Con la libertà di stampa sono in discussione o compromessi altri diritti sanciti dalla Costituzione. Come il diritto al trattamento di malattia, ferie, ecc., manomesso sia con gli accordi di Pomigliano che con le leggi Treu e Biagi che precarizzano il lavoro, soprattutto dei giovani, creando forme lavorative di serie b un tempo fuorilegge, come il lavoro interinale o in affitto, molto simili o peggio del caporalato. Le leggi ad personam che rendono non perseguibile o immune il politico capitalista a differenza del cittadino comune, a questo punto, indifeso, discriminato (in barba a quanto è affisso nei tribunali la legge non è uguale per tutti). Le norme che rendono iniquo e discriminatorio il fisco, cui ognuno dovrebbe concorrere in rapporto alla propria capacità e possibilità mentre avviene l’esatto contrario, attraverso norme fiscali che sono pesanti e severe verso i redditi bassi e che al contrario esentano le grandi ricchezze (è ciò che sta avvenendo con la “manovra economica” ora in discussione in Parlamento). Oppure regole fiscali che cristallizzano la discriminazione e la disuguaglianza fra i lavoratori che pagano le tasse attraverso il sostituto d’imposta, che non possono sfuggire, mentre ad altri si permette di pagare su dichiarazione e quindi di usufruire di condoni o sanatorie per le grandi ricchezze. O norme come lo scudo fiscale che ha permesso agli evasori di ripulire denaro, di dubbia provenienza, esportato illegalmente a ridicole percentuali d’imposizione.
In conclusione oltre al pericolo di libertà d’informazione contro cui oggi i giornalisti scioperano, sono in discussione il principio stesso di uguaglianza dei cittadini e tra i cittadini verso la legge e verso lo Stato e diritti insopprimibili di civiltà e progresso.
La risposta davanti a tutto ciò deve essere la presa di coscienza e la lotta per la giustizia e la civiltà.
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