In democrazia ognuno può decidere se e da chi, se necessario, farsi rappresentare. All’interno del tanto decantato “libero” mercato è consentito, anzi garantito alle aziende, il diritto di farsi rappresentare in qualunque sede da rappresentanti di propria fiducia.
Questo ai lavoratori non è concesso. Essi, da oggi, dopo la firma dell’accordo su Pomigliano, possono essere rappresentati solo da chi decide il padrone. Cioè solo da sindacati e da sindacalisti che accettano e fanno propri la volontà e gli interessi padronali, barattandoli per quelli dei lavoratori, in barba all’articolo 19 dello Statuto che disciplina l’elezione e la vita delle strutture sindacali aziendali (Costituzione delle rappresentanze sindacali aziendali - Rappresentanze sindacali aziendali possono essere costituite a iniziativa dei lavoratori in ogni unità produttiva nell'ambito: a) delle associazioni aderenti alle confederazioni maggiormente rappresentative sul piano nazionale; b) delle associazioni sindacali, non affiliate alle predette confederazioni, che siano firmatarie di contratti collettivi nazionali o provinciali di lavoro applicati nella unità produttiva. Nell'ambito di aziende con più unità produttive le rappresentanze sindacali possono istituire organi di coordinamento).
”L’accordo sindacale” su Pomigliano, sottoscritto da Fiat Ugl, Fim Cisl, Uilm Uil, Fismic e l'associazione dei quadri Fiat, stabilisce una regola “innovativa”, secondo la quale nel posto di lavoro sono riconosciute come rappresentanze sindacali aziendali solo quelle aderenti alle sigle che hanno sottoscritto l’accordo (che definire capestro è riduttivo). Escludendo, in questo modo, i sindacati non firmatari o contrari all'accordo (in questo caso la Fiom) e tutti i lavoratori che a queste organizzazioni aderiscono condividendone le linee e le strategie. Poco importa, democraticamente parlando, se la Fiom è il sindacato di categoria più grande, perché raccoglie più iscritti di Fim e Uilm messe insieme.
Con questa intesa s’instaura un “moderno” sistema di “relazioni industriali”, che obbliga i lavoratori ad adeguarsi a tutti i costi a prescindere dai contenuti: se viene raggiunto un accordo, pur se sottoscritto da sindacati che rappresentano una minoranza di lavoratori, questo permette all’azienda di disconoscere ed ignorare la rappresentanza sindacale ed il sindacato dissenziente, pure se maggioritario in termini di consenso. Si cancella così l’esistenza stessa del conflitto sociale e d’interessi fra lavoratori e padrone, obbligandoli tutti ad essere uniti in un unico afflato patriottico a difesa del posto di lavoro e con esso (per le condizioni imposte) degli interessi padronali, unica garanzia di impiego e di progresso. Superamento di una visione dogmatica e massimalista vecchia ed ideologica o prevalenza degli interessi di una parte, quella capitalista? Sono ammesse solo le libere logiche del mercato, della competitività e del capitale, (cioè quelle del padronato): se si accettano queste si viene ammessi al tavolo delle trattative. Chiunque non si pieghi a ciò è escluso insieme ai suoi iscritti e deve stare fuori dai cancelli delle fabbriche.
Per Marchionne, Marcegaglia, Berlusconi, Bonanni, Angeletti, Fassino e D’Alema queste sono le nuove e moderne “regole democratiche”. Per Cisl e Uil non costituisce problema firmare un accordo che comporta l'esclusione di un altro sindacato.
Poco importa che queste “innovative” concezioni urtano violentemente anche con quanto riportato nell’articolo 17 dello stesso Statuto dei lavoratori, che in riferimento all’attività sindacale afferma: “È fatto divieto ai datori di lavoro e alle associazioni di datori di lavoro di costituire o sostenere, con mezzi finanziari o altrimenti, associazioni sindacali di lavoratori”. Associazioni che la stessa legge definisce: “sindacati di comodo”.
Nessun problema, basterà introdurre qualche “moderna e innovativa riforma” e il gioco è fatto.
E’ evidente che in gioco non c’è solo una disquisizione su ciò che è democratico e ciò che non lo è. Sono in discussione libertà e regole di convivenza. Leggi che tornano a essere anche in via di principio non più uguali per tutti, spostandosi ancora di più a favore del padronato che, sotto il ricatto del lavoro e della sua libertà di investire dove più gli torna comodo e gli conviene, toglie ai lavoratori e ai disoccupati libertà e diritti, coadiuvato da sindacati e forze politiche subalterni e di comodo, che operano per piegare i loro rappresentati al ricatto e all’interesse del capitalista di turno. Per il loro stesso tornaconto.
Afferma soddisfatto il leader della Cisl, Raffaele Bonanni: “Il Sud ha bisogno come il pane di accordi come quello di Pomigliano. Mentre un sindacato minoritario pensa solo al conflitto e a organizzare scioperi, tutti gli altri sindacati pensano a come far uscire i lavoratori e le loro famiglie dalla precarietà e dall'incertezza”. La mistificazione e la povertà di queste affermazioni tentano di coprire la nuova filosofia che questi “rappresentati dei lavoratori” tentano di far passare: per uscire dalla precarietà e dalla fame occorre rinunciare alla libertà.
Spostare i diritti significa stracciare i principi di libertà e di uguaglianza teorizzati in leggi (come lo Statuto dei lavoratori) e la stessa Costituzione, determinando una condizione “nuova”. Non la libertà di tutti i cittadini, ma quella di una fascia ristretta di ricchi che impongono e fanno prevalere le loro logiche anche sui principi fondamentali di uguaglianza e di libertà, spacciandoli per convenienze generali.
E’evidente che tutto ciò serve a spostare anche il potere politico e la ricchezza, instaurando un sistema diverso impostato non sull’uguaglianza ma sulla condizione economica, unica e vera fonte di potere, diritto e classificazione sociale.
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