lunedì 4 aprile 2011

La pace imposta con le bombe

Tante sono le considerazioni che possono essere fatte riguardo la Libia e i vari soggetti coinvolti nelle vicende di questi giorni.
Gheddafi era, fino a pochi giorni or sono, considerato dal governo italiano, dalle forze politiche ed economiche italiane, un valido interlocutore da ricevere (com’è avvenuto non più tardi di nove mesi fa) con tutti gli onori, anche militari, in maniera plateale e inedita.
Tende, beduini, amazzoni, lezioni di Corano, baciamani e restituzioni di obelischi, hanno fatto da cornice alla venuta in Italia di Gheddafi. Gli industriali italiani, con a capo la Marcegaglia, hanno fatto eterni giuramenti di fedeltà e rispetto che sono fruttati loro la promessa del Rais di una più intensa collaborazione economica, anzi la stessa manager ha dichiarato che "verrà creata una zona franca esclusivamente per le imprese italiane operanti in Libia. Grazie a questa - ha spiegato Marcegaglia - le imprese italiane che investono in Libia potranno godere per cinque anni dell'esenzione delle tasse sul reddito (ci potevano essere dubbi in proposito?), avranno sconti sull'energia elettrica e il gas e potranno utilizzare le infrastrutture locali". Il presidente degli industriali ha poi rilevato che il governo libico ha stanziato 11,8 miliardi di euro "per attrarre investimenti nel Paese e molti di questi saranno indirizzati a imprese italiane". Dal canto suo Gheddafi ha concluso, davanti alla platea di seicento industriali desiderosi di affari e dal palato facile: "Siete voi i soldati di questa epoca, i soldati della costruzione, della cultura e dell'industria che sono le richieste della gente. Se in Italia ci fosse la sinistra al governo, le fortune delle imprese sarebbero minori. Finché c'è Berlusconi le opportunità saranno maggiori".
Gheddafi è diventato improvvisamente, perché prima evidentemente non lo era (?), uno dei principali interlocutori economici d’Italia. La sua “collaborazione” era perennemente sollecitata dal governo a volano leghista di Berlusconi, per bloccare le barche di disperati in rotta verso l’Italia.
La lite sulla leadership dell’azione militare smaschera, però, le reali volontà dei paesi di accaparrarsi la fetta migliore e più grande. Quale ragione è potuta prevalere su questi concreti e prosaici appetiti da far compiere, agli stessi soggetti, così prostrati, un voltafaccia così clamoroso se non la certezza di poter accedere alle materie prime della Libia (petrolio e gas in primis), a prezzi più “ragionevoli” o stracciati. Forse la risposta a questa domanda è da ricercarsi nell’aumentata concorrenza di altri paesi, con in testa la Francia, a queste materie prime. Paesi che si sono scoperti paladini della democrazia e della libertà e che sfruttando un deliberato dell’Onu, quanto mai opportuno, si sono gettati in una nuova e “moderna” iniziativa militare neocoloniale.
Il governo italiano, con il sostegno del presidente della Repubblica e del Vaticano che si raccomandava: "Speriamo tutto si svolga rapidamente" (?), senza un pubblico dibattito o senza sentire il bisogno di andare in televisione a spiegarne i motivi ha deciso l’intervento militare che, si badi bene, rappresenta "un impegno che è necessario per la pace, per la solidarietà e per i diritti e la libertà dei popoli". L’ha detto il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano: "Oggi servire la pace significa trovare il modo di andare incontro a popolazioni perseguitate, portare aiuto, senza rimanere indifferenti alle sofferenze e alle repressioni". Dove è finito l’articolo 11 della Costituzione (e tutti quelli che non più di qualche giorno fa giravano con il testo della stessa in tasca), che esclude la guerra come strumento per dirimere questioni internazionali? Quello libico, peraltro, è uno scontro tutto interno (affermazione che appare meno cinica se si pensa agli innumerevoli conflitti in ogni parte del mondo): con quale diritto s’intromettono forze esterne a favore di una parte? Altro che no fly zone.
La Libia non è l'Afghanistan, con cui pure siamo in guerra ma senza saperne assolutamente perché. E' a due passi dalle nostre coste. E’ uno Stato che abbiamo riconosciuto fino all'altro ieri in modo plateale e cialtronesco, dimenticando ogni diritto umano in nome di interessi economici e commerciali.
L'Italia (come pure molti Stati che ora intervengono militarmente in Libia), ha fornito armi a Gheddafi e addestrato i suoi soldati. I "paladini a senso unico della libertà" stanno bombardando una nazione africana e musulmana senza che una sola nazione africana o musulmana partecipi all'attacco. Potenze occidentali o "crociati", come li chiama Gheddafi?
Ci troviamo in un’ennesima guerra senza sapere perché. E' vero che gli insorti di Bengasi rischiano di essere passati per le armi, è altrettanto vero che si tratta di una guerra civile, un fatto interno al Paese, in cui l'Italia poteva e doveva porsi, semmai, come interlocutrice delle parti e come mediatrice.
Il nostro ruolo non può e non deve più essere quello di gendarmi del mondo o di reggicoda degli Stati Uniti, come sta avvenendo da una ventina d’anni a questa parte. Gheddafi è diventato un dittatore contro cui intervenire? Come mai sulla distruzione della Cecenia, da imputarsi alla Russia di Putin e sull'occupazione del Tibet alla Cina di Hu Jintao, nessuno ha avuto nulla da ridire o intervenire, tanto meno l’Onu, che sembra collimare sempre più con le “attese” militari ed economiche Usa? Ancora nel Darfur è stato massacrato, stuprato, mutilato, un milione di persone nell'indifferenza della Nato. In Africa sono in corso guerre civili e tribali da cinquanta anni, a partire dallo spaventoso genocidio del Ruanda, anche queste nell’indifferenza totale dei nostri paladini a corrente alternata. Per non parlare delle innumerevoli deliberazioni Onu sulla questione palestinese-israeliana che nessun paese “democratico” si è sentito in obbligo di far rispettare.
Davanti a questo quadro l’affarista Berlusconi rischia di presentarsi come pacifista, mentre la più alta carica dello Stato parla di “intervento doveroso” e il centro”sinistra” spinge sull’operazione.
Che sinistra è mai quella che invece di lottare per svuotare gli arsenali e riempire i granai sostiene questi interventi a suon di bombe e di missili? E’ illuminante quanto affermato da Gino Strada in proposito: "L'esportazione di democrazia in Libia sta procedendo a pieno ritmo da parte di Inghilterra, Usa e Francia. Dovranno poi dedicarsi, per coerenza, a Siria, Bahrain e Yemen. Paesi che aspettano l'importazione di democrazia come la manna. In Iraq hanno già dato, l'Iran è prenotato. L'esportazione di democrazia fa aumentare il Pil dei Paesi produttori di armi e migliora la bilancia dei pagamenti del petrolio. Più bombardi meglio va l'economia. Per i lavoratori a bordo dei cacciabombardieri non esistono però né sabati, né domeniche. Mai un momento di pausa. Per costruire 12 ospedali servono 250 milioni di dollari, quel che ci costano otto ore di guerra in Iraq... si prendessero un giorno di ferie!"

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