giovedì 21 aprile 2011

Padroni e imprenditori “oppressi”, unitevi

Il ministro “dell’economia” Tremonti (per accattivarsi la simpatia e l’appoggio del padronato italiano, che si è recentemente lamentato di essere lasciato solo), non ha trovato di meglio che denunciare, in un periodo di vacche magre per quanto riguarda i consensi dell’attuale governo: ”L'oppressione fiscale sulle imprese è eccessiva e la dobbiamo interrompere”. Ha poi aggiunto: “I controlli e le ispezioni alle aziende, sono eccessivi: ci sono costi per il tempo perso, oltre a stress e occasioni di corruzione”.
Alla base di queste affermazioni, oltre a un calcolo meramente elettorale, ci sono le convinzioni di coloro, liberisti comunque mascherati o travestiti, secondo i quali meno sono i controlli e i condizionamenti sulle imprese, più cresce l’economia e con essa l’occupazione. Questa teoria economica, tipicamente liberista, è stata alla base della politica industriale degli ultimi venticinque-trenta anni. Essa ha determinato il progressivo aumento degli “spazi di libertà” per il padronato e le imprese e ha costretto lavoratori e giovani alla disoccupazione, al precariato e alla disperazione. Equazione incontestabile.
L’azzeramento del collocamento e l’istituzione del rapporto di lavoro precario e il lavoro in affitto; la cancellazione della scala mobile e con essa il dimezzamento del potere d'acquisto dei salari e degli stipendi a parità di retribuzione (in cifra); il taglio dei contributi a carico delle imprese (scudo fiscale) e il dimezzamento dei diritti pensionistici dei lavoratori (che hanno comunque continuato a pagare salatissimi contributi previdenziali); la cancellazione dei diritti civili e di libertà dei lavoratori (diritto a percepire il salario anche se malati, diritto di sciopero, pause, mensa, ecc.); la possibilità per le aziende e per il padronato di licenziare, mettere in cassa integrazione guadagni o in mobilità i dipendenti e delocalizzare in paesi con lavoratori più affamati e a più basse pretese di civiltà e di salario. Tutti questi sono stati ambiti di “libertà”, di guadagno e di profitto nuovi e inaspettati per il padronato italiano, che ha potuto contare su un fisco benigno nei suoi confronti, diversamente a quello che è stato riservato ai redditi fissi.
Tutto ciò, unito all’accettazione delle compatibilità del mercato e del capitale, avrebbe dovuto “risanare” l’economia e “rilanciare” l’occupazione. La realtà ha dimostrato l’esatto contrario. I “risparmi” delle imprese e i sacrifici dei lavoratori sono andati a finire nelle tasche del prepotente e ingordo padronato italiano, che ha incrementato enormemente le proprie ricchezze mentre ha affamato i lavoratori e ha derubato i giovani del futuro. Basti guardare la disoccupazione in perenne crescita.
Altro che occupazione, ripresa e benessere. Non si può mistificare o far credere, come fa ancora oggi la presidente di Confindustria Emma Marcegaglia, che le aziende operano per il bene del Paese e dei lavoratori italiani e chi resiste e chi si oppone a difesa degli sfruttati, viceversa, opera contro. Le imprese hanno ampiamente dimostrato la loro logica e la loro condotta, mai contraddette e che sono le stesse da sempre: privatizzare i profitti e socializzare le perdite.
La libertà di cui c’è bisogno non è quella delle imprese e dei pescecani, mai sazi di riempirsi la pancia a danno di tutti gli altri. Abbiamo diritto alla libertà dal bisogno e dalla sopraffazione civile ed economica del padronato.
La realtà ci insegna che alla fase dei sacrifici, per i lavoratori, i pensionati e i precari, non segue (non seguirà) quella del lavoro e della libertà. Il lavoro non deve più essere motivo di arricchimento di pochi a danno di tanti, ma strumento di crescita e di emancipazione per rimuovere, come teorizza la Costituzione, “gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese”.
Occorre affermare con forza perciò che il lavoro è un diritto e non una concessione che il padronato elargisce solo se (e quando) ha convenienza a farlo.

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