Con la Rivoluzione industriale e con la realizzazione delle prime fabbriche nacque il sindacato. I lavoratori presero coscienza che solo unendosi in lotta con coloro i quali condividevano la stessa sorte avrebbero potuto contrastare lo sfruttamento operato dai padroni e realizzare migliori condizioni lavorative. Sorte che prevedeva e imponeva orari di lavoro da stelle a stelle, di 16 o 18 ore giornaliere, salari miserabili e condizioni, sia per quanto riguarda la sicurezza che per l’ambiente, pessime.
Obiettivo degli industriali era, come del resto è continuato a essere, il massimo tornaconto, utile o profitto con la minima spesa. La spregiudicatezza padronale era tanto grande che per fare alcuni particolari tipi di lavoro, in grotte o cunicoli, dove uomini adulti e corpulenti non avrebbero potuto entrare, venivano impiegati bambini di sei-otto anni, di corporatura più piccola, o donne anche in stato di gravidanza per lavori minuti e ripetitivi. E' solo a prezzo di dure lotte (organizzate con il sindacato dai lavoratori), di morti, licenziamenti e persecuzioni verso gli operai più combattivi che la classe lavoratrice ottenne conquiste come: salari più dignitosi, orario di lavoro giornaliero di otto ore, tutela del lavoro minorile e della maternità, ambienti di lavoro più sicuri e salubri. Il sindacato era costituito da lavoratori che, come parte dirigente, si attivavano contro lo sfruttamento padronale e per migliorare le condizioni sia sul posto di lavoro che nella società.
Nonostante le conquiste ottenute la situazione non era semplice dentro e fuori la fabbrica. I sindacalisti erano discriminati e perseguitati. Licenziati, rinchiusi in "reparti confino", come nella Fiat di Valletta degli anni '50 e considerati dei veri e propri sovversivi da emarginare e tenere sotto controllo. Chi si esponeva lo faceva non per crearsi un posto di lavoro ben retribuito e sicuro, ma per lottare contro l’ingiustizia, lo sfruttamento e la discriminazione sociale, fenomeni molto diffusi nelle nuove società industriali. Il sindacalista era un capo riconosciuto perché anteponeva ai propri gli interessi dei compagni di lavoro e della propria classe, accettando di subire le conseguenze in ragione delle proprie convinzioni: lottare per la libertà e l’uguaglianza attraverso l’emancipazione del lavoro. Non fu certo facile durante il fascismo, con la lotta clandestina e partigiana, e anche nel dopoguerra, fare il sindacalista. Ciononostante figure luminose ed eroiche di sindacalisti della Cgil, a partire da Giuseppe di Vittorio, seppero emanciparsi dalla propria condizione e porsi alla testa dei lavoratori. Questi poterono ottenere storiche conquiste, fino alle lotte degli anni sessanta.
Lo Statuto dei lavoratori, legge 300 del 20/5/70, fu una grande conquista. Fra le innovazioni che portò, però, venne per la prima volta previsto il pagamento della quota mensile, non più attraverso la riscossione della quota a mano (che garantiva un contatto continuo lavoratori-sindacato), ma attraverso la delega con la trattenuta sindacale mensile. Quest'ultima veniva versata dal padrone direttamente al sindacato, dopo essere stata trattenuta dalla busta paga. Certamente questo permise all'organizzazione di avere entrate certe e stabili. Le risorse furono più sicure e gli stipendi dei militanti altrettanto. Anzi cominciarono a crescere, con contratti interni che erano e sono ben più alti di quelli dei lavoratori rappresentati, rendendo appetibile il lavoro di sindacalista. E contribuendo a far nascere il deteriore fenomeno del burocratismo sindacale.
Da questo momento si determinò il distacco dell'organizzazione dai lavoratori che, per delega e senza contatto, pagavano la quota sindacale a prescindere dal consenso e dal coinvolgimento. Si cominciò a costituire un ceto sindacale chiuso e autoreferenziale con il fenomeno del tesseramento a vita, a prescindere dal consenso, legato cioè non alla adesione convinta ma alla sottoscrizione di una pratica di pensione o altro. Basti pensare che oggi, nelle tre organizzazioni Cgil Cisl Uil, i sindacati di categoria numericamente più forti sono quelli dei pensionati, cioè di persone non attive, con milioni di tesserati dichiarati (circa 12) la maggior parte dei quali non sa nemmeno di essere iscritto. Una massa di tessere che però pesa ai congressi, determinando le maggioranze e quindi le linee e i dirigenti del sindacato. Con grande soddisfazione del ceto dirigente, che può far affidamento su tessere anonime e, di fatto, deleghe in bianco. A questi iscritti vanno aggiunti i braccianti che effettuano la loro adesione in occasione della presentazione della domanda di disoccupazione agricola o gli edili, la maggior parte dei quali paga il sindacato con deleghe vecchissime e non più rinnovate attraverso le casse edili.
Con il tempo il peso del tesseramento sulle finanze del sindacato ha avuto sempre minore importanza. Così come quello dei lavoratori. Alla entrate automatiche previste per le pratiche burocratiche del patronato (domande di disoccupazione, di pensione, pratiche Inail, ecc.) e alle deleghe a vita, infatti, si sono poi aggiunte quelle relative ai Caaf sindacali e alla presenza nelle varie commissioni o consigli di amministrazione. Questa situazione ha determinato l’indipendenza e l’autonomia del sindacato, a partire dalla Cgil, dai lavoratori, del consenso e del finanziamento dei quali non aveva più bisogno. Si è così verificata una trasformazione, grazie ai governi e al padronato, da organizzazione alternativa e di lotta a organo di governo e struttura di consenso per lavoratori e cittadini. Inoltre negli anni '90, con la "riforma" del sistema maggioritario, i sindacati sono divenuti perfetti strumenti politici, legati alle sorti degli schieramenti elettorali (e così la Cgil è più tenera quando il centro-sinistra è al governo e Cisl e Uil lo stesso, ma al contrario)
Purtroppo le conseguenze di questa mutazione genetica la stanno pagando i lavoratori, i precari e i pensionati, con grande gioia del padronato e della Confindustria, che hanno recuperato e annullato buona parte delle conquiste ottenute a prezzo di dure lotte.
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