mercoledì 2 giugno 2010

La libertà e il lavoro

L’articolo 3 della Costituzione recita: "Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono uguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. E’ compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica economica e sociale del Paese". Va anche sottolineato che la Costituzione nel primo articolo afferma testualmente che: "L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro". Quindi la democrazia e la libertà cui si riferisce la Costituzione sono legate indissolubilmente al lavoro. Quest'ultimo pertanto è l’elemento fondante e indispensabile per l’affermazione e la realizzazione della libertà dell’individuo.
Il lavoro è dunque un diritto e condizione di libertà. Ma tutti i cittadini hanno bisogno di questo diritto (e quindi di lavorare per essere liberi) oppure esiste chi, per essere libero, non ne ha bisogno? Cosa si intende, inoltre, per diritto al lavoro?
Il lavoro è un elemento che caratterizza e distingue la vita dell’uomo moderno: lavora l’operaio, il bracciante, l’artigiano, il contadino, il commerciante, il professionista, il finanziere, l’imprenditore. Possiamo dire però che il lavoro incida allo stesso modo nella vita di tutti gli individui? Permetta retribuzioni eque o, perlomeno confrontabili? Abbia, per ciascuno, la stessa importanza? Sia indispensabile allo stesso modo nel determinare la libertà di ognuno? Indubbiamente il possesso di beni e capitali incide sull'importanza e indispensabilità del lavoro ai fini dell’affermazione e della realizzazione della libertà dell’individuo. Esistono soggetti ricchi che possono determinare la propria vita in tutti gli aspetti. Essi non hanno bisogno del lavoro per vivere e se hanno un'attività questa produce per loro grandi ricchezze. Questi individui possono incidere però profondamente sulle condizioni di vita di altri cittadini: possono decidere del loro stile di vita e modificare profondamente la situazione sociale. Questi individui possono trarre un guadagno non solo dal proprio lavoro (se ne hanno voglia, perché non ne hanno necessità stringente), ma soprattutto da quello altrui e possono determinare o meno l’affermazione e la realizzazione della libertà di altre persone. Questi individui sono, perciò, detentori di un potere enorme e di diritti non riconosciuti agli altri cittadini.
Questi ultimi, la maggioranza, non posseggono beni e capitali. Essi per essere liberi sono costretti a lavorare alle dipendenze e per il guadagno di altre persone, a vantaggio delle quali debbono rinunciare alla propria libertà, mettendo a disposizione il proprio tempo libero, la propria intelligenza e capacità professionale. Tutto questo per un certo numero di ore al giorno, per un certo numero di anni della propria vita. Individui il cui lavoro e, soprattutto, le cui libertà sono determinati prioritariamente dall’interesse di guadagno di altri individui: il diritto all’ulteriore guadagno di questi ultimi regola, quindi, la libertà dei primi. Nella nostra società, nei fatti, esistono quindi cittadini che possono privare altri di tale diritto fondamentale.
La Costituzione prendeva atto dell’esistenza di tali differenze nelle condizioni sociali e, senza riconoscerle esplicitamente o modificarle sostanzialmente, affermava dei principi che avrebbero dovuto attutirle. Nei fatti si trattava di far convivere pacificamente individui appartenenti a strati sociali differenti, alcuni in possesso di privilegi, altri discriminati e subalterni. In conclusione appartenenti a ceti o classi sociali differenti.
Fin quando durerà questa "pacifica" convivenza?

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